giovedì 6 giugno 2019

Quell'ultimo colloquio

Il rettore del seminario diocesano convocava ogni seminarista due o tre volte l'anno per un colloquio (cioè per almeno il 90% del tempo parlava lui). Coi suoi lecchini lacché era sempre un gioioso e rapido scambio di allegre battute. Con gli altri - incluso il sottoscritto - erano non meno di 90-120 minuti di seriosa e puntigliosa elencazione di incorreggibili difetti, naturalmente intercalati da sorrisetti e da inutili distinguo costruiti in modo che tu non ti ci possa appigliare.

Ti preparavi a quel colloquio, oltre che con la preghiera, anche con qualche video di Stanlio e Ollio, risorsa disperata necessaria ad esibire prontamente un sorriso diplomatico nei momenti più complicati. Rintracciavi mentalmente tutti gli episodi secondari della vita di seminario che lì in sede di colloquio avresti potuto vantare come un "curare la diocesanità" (a cui tanto tenevano ufficialmente), o come dei "momenti fraterni", e altre emerite cazzate obbligatorie. Costruivi letteralmente uno scenario mentale ideale a minimizzare i danni in quella specie di convocazione staliniana, scenario in cui stemperare pazientemente ogni obiezione e ammorbidire ogni spigolo. Ma non serviva a nulla perché quando risulti antipatico ai superiori, la tua carriera è irrimediabilmente compromessa. Ed è fin troppo facile che una vocazione vera risulti antipatica ad una vocazione falsa incaricata di vagliare le nuove leve.

Non era servito fottutamente a niente essere uscito di sabato sera con altri tre seminaristi "dopo la pastorale" (era stato sottilmente comandato dai superiori) per andare ad una merda di pizzeria-karaoke (i superiori esigevano che socializzassimo, e un paio di seminaristi spioni erano lì a misurare il nostro impegno) proprio all'ora in cui avresti voluto cenare in silenzio per poi spalmarti sul letto addormentandoti col rosario tra le dita (ché alle sei suona la sveglia). Non serviva a niente raccontargli dei momenti di "àgape fraterna" (pur avendo organizzato con pignoleria il modo apparentemente spontaneo di andare a prendere un caffè insieme a qualcuno di quei froci seminaristi chiacchieroni, sapendo benissimo che lo avrebbe subito raccontato al rettore, ai commilitoni e al parroco). Eri sempre quello in debito formativo, eri sempre quello che dialoga poco, sempre quello che in parrocchia "non si vede in giro", sempre quello che al momento di darsi da fare non è subito reperibile...

E mentre esibivi un generoso sorriso (non troppo marcato, per evitare sospetti) pensavi a venti strategie diverse, come un professionista degli scacchi in una partita-lampo, e l'allenamento mentale ti consentiva guizzi spettacolari di cui poi ti saresti congratulato con te stesso. Ma sterilizzare il venti per cento di quelle accuse non ti ha cambiato il destino. Il tuo destino era già scritto. Quel maledetto stronzo, in quell'ultimo colloquio, aveva in serbo l'ultima e più micidiale pallottola: trasformare seduta stante tutte le proprie precedenti ambiguità in dubbi sulla tua situazione, e dunque immediatamente i dubbi in condanna.

"Ho detto al vescovo che se fosse per me non ti farei andare avanti, ma l'ultima parola spetta a lui", mi dice il don Pilato. Sua Eccellenza il Vescovo mi dirà: "ma il rettore mi ha dato responso negativo e io non posso andare contro di lui". Quel frocio del parroco mi aveva detto: "ma io non ho detto nulla su di te, e comunque il mio parere non conta niente in quella sede". In quella sede il rettore disse: "il parere del parroco però è negativo, e io devo tenerne conto". Il Vescovo soggiungerà: "c'è poi anche il parere del tutto negativo del parroco, e questo è molto importante"... A completare il quadro, la kafkiana accusa del non aver migliorato nel dialogo, che è un po' come quando in Unione Sovietica ti davano del trotzkista senza sapere nemmeno cosa significasse esattamente (ad eccezione del garantirti la massima pena possibile e un marchio d'infamia fino alla morte).

Ora, io sarei il primo ad usare quei vergognosi metodi, se fossero l'unico modo efficace per sbarazzarsi di un pedofilo o di un massone che avessero brigato per non farsi scoprire apparendo con le carte in regola. Il problema è che quegli sporchi metodi sono stati usati contro di me senza alcun motivo riguardante la fede, la vita morale, la chiamata al sacerdozio. Non vogliono uno con la vocazione al sacerdozio. Vogliono invece un clown, un finocchio, un travet, un frocetto, un impiegatuccio del sacro che non puzzi di Tradizione e che sia dottrinalmente e liturgicamente elastico. Infatti hanno cacciato via me e quelli come me, e hanno ordinato al sacerdozio un esercito di ricchioni e di pagliacci, alcuni dei quali spretati nel giro di pochi anni, senza contare quelli finiti sui giornali per questioni di rilevanza penale.

Quando il rettore mi congedò non avevo più il sorriso d'ordinanza, ma un'espressione di inossidabile perplessità. Uscendo da quella Stanza 101, guardai per un'ultima volta quella porta e gli augurai di ricevere adeguata ricompensa.