giovedì 14 settembre 2023

Quando chiami il taxi non gradiresti per tassinaro un ragazzino senza patente

Una delle più memorabili scene della mia vita vocazionale: siamo in macchina, io e il pretonzolo a cui ero stato affidato, comincia a grandinarmi addosso una serie di accuse solidamente campate in aria. Inizia con la cazziata proibendomi l'hobby della fotografia (proprio quell'hobby che aveva consentito di creare il sito web per mettere lui e la sua opera in bella mostra), quindi altre accuse insulse che servivano solo a preparare la stangata finale del "non sei andato a dire il rosario in casa del morto", col sottinteso che alla successiva tornata di ministeri non avrei ricevuto l'accolitato che mi era stato promesso.

Mi divenne rapidamente chiaro che era una decisione già presa altrove e che gli occorreva fingere che fosse almeno un pochino motivata e che l'unica pezza d'appoggio fosse quell'episodio di un paio di giorni prima. Sto elencando questi dettagli apparentemente secondari solo per descrivere quel meccanismo perverso generalmente etichettato come clericalismo, che contiene quell'attitudine clericale a fabbricare accuse al momento del bisogno, come esemplarmente descritto nel Vangelo ("prima arrestiamo Gesù, poi dopo troveremo una scusa per giustificare l'arresto"). Non si lasci prendere dalla pigrizia mentale il lettore stanco: il contesto non è "il rosario dal caro estinto", ma il metodo pretesco di adoperare un evento del tutto casuale come pezza d'appoggio per fabbricare una scusa con cui giustificare una decisione ingiustificabile.

Dunque si trattava di un defunto della parrocchia e né il pretonzolo né il diacono avevano voglia di andar lì. Come da già inveterata abitudine, il pretonzolo rimbalza il cerino acceso nelle mani dell'ultimo seminarista arrivato, cioè il sottoscritto, giacché l'altro seminarista - essendo il figliuolo prediletto del pretonzolo - non era disposto a compiti che non gloriassero il proprio presuntamente elevatissimo pedigree ecclesiale. Cioè un emerito sconosciuto ultimo arrivato - il sottoscritto - avrebbe dovuto presentarsi in casa del defunto e dire paciosamente a tutti: salve, diciamo un rosario per il caro estinto, sperando che fra gli astanti ci fosse almeno qualcuno che sapesse recitarlo e accettasse.

Fermo restando che la cosa non mi era stata chiesta per ubbidienza e neanche ventilata come possibilità ma era solo stata distrattamente accennata in termini impersonali ("bisognerebbe che qualcuno vada a casa del defunto": il classico discorso di un don Abbondio qualsiasi che riflette ad alta voce per darsi una scusa per non andarci, come se fosse già convintissimo che ai parenti del defunto non interessasse), sarebbe stato piuttosto bizzarro presentarmi lì in abiti civili, da seminarista postulante che ha solo il lettorato, preso non lì ma a centinaia di chilometri di distanza (e ricevuto da un vescovo che per tutto il tempo della formazione aveva cercato un alibi per dimettermi), e organizzare una scenetta religiosa di ossequio alla confusa religiosità degli autoctoni, per poi tornare in sede e farmi cazziare dal prete perché all'eventuale offerta avrei certamente risposto "fatela in segreto in chiesa quando solo Dio vi vede" anziché portare qualche bel bigliettone al pretonzolo sfaticato e avido.

L'ho imparato a mie spese - e troppo tardi - che quando un pretino comincia a cercare scuse per ostacolarti la "carriera", e lo sa benissimo che tu sai benissimo che lui sta cercando scuse, non ti resta che sbaraccare e andar via senza salutare, perché non solo è diventato tuo nemico, ma pretende pure che tu finga di non accorgertene, perché vuole pilatescamente uscirsene con le mani lavate: per chi disprezza le vocazioni, la maggior soddisfazione possibile è togliersele dai piedi potendo accampare una o più delle solite scuse ("se ne è andato spontaneamente, si è preso un periodo di riflessione, ha ritenuto che non fosse la sua strada, non si trovava bene, ha sbroccato senza motivo..."), proprio come quelli che credono che ingannando gli uomini riuscirebbero poi ad ingannare anche il Signore.

Quando mi scaricò addosso come fulmine a ciel sereno quella ridicola scaletta accusatoria, l'istinto mi diceva di aprire la portiera, uscire dalla macchina e tornare a piedi (anche se erano parecchi chilometri) a far le valigie e sbaraccare. Ma lì sulla statale a cinquanta all'ora non era il caso. Mi difesi per quanto ragionevolmente e cautamente possibile, tacendo quando mi resi conto che i giochi erano già fatti, e a poco a poco mi convinsi (madornale errore!) che forse sarebbe bastato pazientare un anno in più, due anni in più del previsto, mi convinsi (ingenuità giovanile!) che continuando col fair play, con quella correttezza che dovrebbe positivamente stupire i diffidenti, qualcosa poteva migliorare, mi convinsi nella speranza di non lasciare nulla di intentato... pur sapendo che i preti sufficientemente virili da apprezzare quel fair play sono una minoranza assoluta. Ma neanche quando io e gli altri acquisimmo il "diritto" di vestire la talare tutto il giorno sarebbe stato il caso di mandarci "dilettanti allo sbaraglio" a "celebrare" un rosario a casa di un defunto. Fino al diaconato sei un emerito signor nessuno e la scusa dell'esercitarsi nel ministero è solo uno squallido accettare di fare un po' di teatrino religioso perché qualche prete si stufa dei suoi sacri doveri o qualche laico vuol essere intrattenuto.

A tutti quelli che pateticamente mi chiedevano se non sarebbe stato meglio andar davvero a casa del defunto ho dovuto ricordare sia la necessità di considerare aria fritta le espressioni in forma impersonale - se mi comandi qualcosa dev'essere chiaro che me lo stai comandando, perché se accetto ambiguità ti sto invogliando a chiedermi in modo ambiguo qualsiasi cosa che non hai il diritto di chiedermi per ubbidienza -, sia il fatto che il seminarista è solo uno studentello qualsiasi (anche quando indossa talare, fascia e saturno), dopotutto quando chiami un taxi ti aspetti che alla guida ci sia proprio il tassinaro, non un ragazzino senza patente. Davanti alla Chiesa avevo solo l'ammissione fra i candidati all'ordine sacro (che si dà in genere dopo il secondo anno di seminario maggiore, e di fatto significa solo che il vescovo ufficialmente sa che tu esisti) e il lettorato (cioè il diritto/privilegio/incarico di leggere la prima o seconda lettura durante la Messa Novus Ordo... cosa che può fare un qualsiasi laico). E all'obiezione che anche un laico può guidare un rosario occorreva rispondere sgarbatamente: e allora mandaci un laico, incarica uno dei parenti del defunto, manda qualcuno che adori far teatrino e che non sia un emerito sconosciuto in quella casa.

Ma tanto è inutile. Per quel pretino - come per tanti altri pretini - i seminaristi sono solo dei camerieri, sguatteri, autisti, stiratori, rammendatori, pulitori del bagno. In tal caso, davanti a loro non è un padre e una guida, ma solo un caporale che li divide fra buoni e cattivi, tra il gaio Figliuolo Prediletto - col quale si attarda in tanto amorevoli quanto sterili conversazioni solitarie nella camera dell'uno o dell'altro fino in piena notte - e gli altri seminaristi che invece devono sgobbare e devono essere rimproverati anche ingiustamente in modo che il Prediletto possa continuare a sentirsi il migliore, l'unico che non viene mai sgridato. (E infatti già sgobbavano: mentre il Prediletto proseguiva a tavola vuote conversazioni a base di pizzi, merletti e peccati solitari, anziché lavare i piatti che era suo turno, il sottoscritto, seccato - ma guai a mostrarlo! - di aver già perso quell'oretta di prezioso riposo pomeridiano, si mise a lavare i piatti, ma neppure eventi come questo mi salvarono dalla condanna già scritta nei primissimi giorni). Lo ripeto, qualora un lettore distratto continui a pensare: "ma non si poteva ubbidire alla faccenda rosario dal morto?" No: non era una richiesta per ubbidienza, e no, non era un comando dato personalmente, e no, non era nemmeno specificato che ci dovessi andare proprio io, e no, il dare eccessiva importanza alle frasette ambigue ed impersonali creerà "il precedente" per farsi trattare in modo disonesto, e no, se proprio è tanto necessario il rosario a casa del defunto ci deve andare il sacerdote o il diacono transeunte (e che quest'ultimo si presenti dicendo subito che fra pochi mesi sarà sacerdote), perché non è compito dei seminaristi scimmiottare i preti facendo le cose che i preti si stufano di fare, così come il tassinaro non dà le chiavi a un ragazzetto qualsiasi dicendo "fattelo tu il giro di clienti oggi (e non fare il furbo coi soldi, anche le mance spettano a me)".

Dopo tanti anni mi giunge notizia che il sullodato pretonzolo era stato abbastanza maneggione da procacciarsi un'imminente consacrazione episcopale, per grazia di Dio probabilmente rinviata alle calende greche.

A meno di un'improbabile conversione infuocata sulla via di Damasco, devo etichettarlo maneggione, perché così l'ho conosciuto, così l'ho visto in azione, così mi si è giustificato per cose che diceva e faceva in mia presenza, e pur sapendo che nel corso di tanti anni la gente può talvolta cambiare abitudini e orizzonte di vita (io stesso sono cambiato rispetto a quegli anni), ritengo spettacolarmente improbabile tale sua conversione. E dunque, ricevuta l'anticipazione, mi torna in mente l'assoluta scorrettezza con cui mi trattò a suo tempo, non solo quanto alla clericalata dell'innominato defunto ma anche quanto al compiacere il suo frù-frù preferito, un seminarista col quale aveva un rapporto ambiguo, per dire il meno, più la nomea che si portava per lo stesso motivo (e verso altri giovani frù-frù accolti nelle sue comunità) negli anni precedenti. (Ironia della sorte, non glielo feci mai pesare)

A veder gente così che fa carriera sale un po' il magone (che merda di Chiesa si configura con soggetti del genere?), specie quando si tratta esattamente di quelli che fecero di tutto per calpestare la tua vocazione. Certe scenette, pur avendone viste tante, fanno sempre male. Il vescovo che riguardo al mio caso si faceva negare al telefono ordinò al sacerdozio lo scimmione del Borneo. Soggetti con seri problemi mentali venivano fatti andare avanti in seminario da un vescovo, portati al diaconato da un vescovo successivo, e infine al sacerdozio da un altro, ognuno a lasciare il fiammifero acceso fra le dita del successore, mentre contro di me cercavano il pelo nell'uovo. Venivano poi ordinati con tutti gli onori soggetti che nel giro di sei-dodici mesi chiedevano la riduzione allo stato laicale e su cui i loro stessi compagni di corso scommettevano che sarebbe durata poco. E nel frattempo salivano all'episcopato soggetti che come unico merito avevano un'elevatissima mediocrità. Con tutte le conseguenze che ne pagheranno i fedeli.

Fin da bambino ho avuto il dente avvelenato contro quei mezzi uomini che per inseguire le loro piccinerie sono prontissimi a venir meno alle regole da loro stessi stabilite. Come quel cretino che nella partitella a pallone aveva deciso che una certa cosa dovesse chiamarsi non rigore ma ri-goal, cioè da ripetere in caso di palo, fuoricampo o parata, finché non avesse raggiunto il goal che desiderava. O il cuginetto che si inventava nuove mosse negli scacchi più il privilegio (solo per lui) di tornare indietro sulle sue mosse sbagliate. O come quando mi venne detto che non c'erano più merendine, proprio mentre stavo per aprire il mobile che le conteneva: testardamente aprii e scoprii che perfino un fratello o una sorella, sull'onda dell'ingordigia e dell'avarizia, può mentirmi.

Avevo sempre pensato che certe piccinerie non potessero avvenire nel clero: è gente che ha nelle proprie mani ogni santo giorno il Corpo e Sangue di Cristo, è gente abituata a dispensare assoluzioni dai peccati più assurdi ai soggetti più recidivi, è gente che per forza di cose deve compulsare continuamente il Vangelo... e che se proprio ne combinano una, dev'essere per forza un caso isolato dovuto all'eccessivo stress. Pia illusione! Fin dai primi giorni del pre-seminario scoprii che non era così e che nel seminario maggiore - dove c'erano preti che almeno in teoria avrebbero avuto poco interesse a tartassare seminaristi che nel giro di qualche anno non avrebbero più rivisto - fu molto, molto peggio. Ancor oggi, quando riaffiorano certi ricordi, torna sempre quell'amaro in bocca per la totale disonestà con cui puntualmente venni trattato da preti e vescovi, gente che ogni santo giorno si cibava di quel Pane di Vita Eterna, e nelle domeniche e altre occasioni anche più volte al giorno.

La delusione venne anche da quelli etichettati come tradizionalisti, come il maneggione di cui sopra, e quelli di robotica militanza pluridecennale e certificata -, anch'essi affetti dalla sindrome di don Abbondio, in teoria pronti a farsi crocifiggere sottosopra per difendere un qualcosina della fede, in pratica più lesti di un topo di fogna a scappare di fronte a un minimo impegno di carità nei confronti di una vocazione. Avrei volentieri giustificato uno che si tira indietro nove volte ma alla decima fa almeno il minimo di quello che deve fare. Invece il meglio che ho trovato fu un prete sufficientemente virile da dirmi subito: non possiamo fare nulla per te, sottinteso, non perdiamo tempo per una cosa che se pure andasse in porto ci inimicherebbe vescovi.

Nemmeno i pretastri che a suo tempo avevano passato i miei stessi guai (quelli che avevano assaggiato lo stesso ostracismo clericale!) si lasciarono almeno minimamente impietosire. Avevano vissuto sulla loro stessa pelle quel che stavo vivendo io, eppure non lo ricordavano più: si erano trasformati, erano divenuti identici a quelli da cui erano stati ingiustamente calpestati. Ora che avevano fatto carriera erano leoni pronti a ruggire su temi poco impegnativi, ma pecore impaurite quando c'era il minimo rischio per le loro comodità Terrorizzati dal veder scalfiti i loro privilegi, i loro pranzetti, le loro prebende, avevano già dimenticato ciò che a suo tempo toccò loro subire. E quando anche la situazione era cambiata a sufficienza da dar loro un ricco alibi per telefonarmi e dirmi "dai, proviamo a riparlarne che magari adesso si può sistemare qualcosa", non lo fecero, non ricordavano più, avevano altre priorità, avevano un posticino in seminario solo per il giovincello di bell'aspetto. Qualcun altro, nel corso di tanti anni, è morto, portandosi davanti al Creatore anche le responsabilità sul mio caso.

Quando mi presentai con degli amici a far presente a Sua Eccellenza Reverendissima che noialtri si partecipava alla liturgia tridentina come gruppo stabile, incontrai nel cortile un vecchio commilitone del seminario - che nel frattempo era diventato prete - che mi annunciò tutto pimpante che erano in corso i saldi di fine stagione, incoraggiandomi ad andare tranquillo e deciso. Credeva davvero che ero lì per recitare la parte piagnucolosa di colui che vorrebbe rientrare in seminario, e mi disse di due o tre nomi - che a suo tempo erano stati defenestrati per fidanzamenti o grossa indecisione - erano rientrati con tutti gli onori e qualcuno già diventato prete. Fu inutile tentar di dire a tal pretino il vero motivo dell'udienza dal vescovo, e non avevo certo il tempo di chiarirgli cosa ne penso della vita diocesana, tanto più nell'infelice epoca bergogliona, dove il "corpo sociale" - cioè le lamentele degli autoimpegnati parrocchiardi - val più del "corpo mistico".

Mendicare l'accesso al sacerdozio non è servito. Scendere a ogni ragionevole compromesso non è servito. I veri nemici del sacerdozio sono interni alla Chiesa - e sono anche tra quelli che sembrano tradizionalisti. Hanno in mente un incarico, non una vocazione, anche se facessero mille omelie per spiegare che la vocazione non è un incarico. È come se credessero che la loro stessa vocazione non sarebbe una vocazione ma un incarico. Pretastri che si stufano di confessare, e che volentieri eviterebbero di dir Messa.

Soprattutto, non credono che una vocazione - in senso tale, cioè il sacerdote che celebra non per dovere ma perché la vive, perché sa degli infiniti effetti soprannaturali di ogni Messa - meriti di essere promossa se non ha evidenti "bonus" collaterali. Vogliono le vocazioni come il pacco di merendine: se non ci esce la figurina in omaggio non le comprano. Vogliono il prete-robot celebramesse, perché loro si stufano di celebrare; vogliono il seminarista con l'auto per scarrozzarli in giro, il seminarista-cameriere che cucini, che serva a tavola, lavi i piatti, e tiri fuori anche la bottiglia di buon vino "regalata dai nonni", vogliono il seminarista dal bel faccino e che sia sufficientemente frù-frù da dilettare le loro omofantasie e i loro sogni omoerotici... Sì, perfino i tradizionalisti e sedicenti tali hanno gli stessi vizietti.

lunedì 28 agosto 2023

ACCLAMATE!!!!!!¡!!

Intervista ad un seminarista diocesano

[Intervistatore] Benvenuto, Camillo! Al termine di questo primo anno di seminario, cosa ci puoi dire del tuo cammino verso il sacerdozio?
[Seminarista] [alza le mani come se fosse minacciato di rapina, guarda verso l'alto e dice:] "ACCLAMATE!"

[i] Come, scusa?
[s] "Acclamate!" Cioè, sai, quando ti svegli al mattino con qualche canzonetta che ti ronza nella testa, e ogni tanto, così, di punto in bianco, ne canti un versetto, o solo qualche parola. Non so, hai presente i giovani? La canzonetta del momento è un tizio che dice nel ritornello: "ai wanna go, yea", e i giovani ogni tanto tirano fuori, come se fosse uno starnuto, un "wannagò" oppure "yea". Ecco, dopo un anno di seminario, uno si sveglia al mattino e gli vien voglia di dire: "ACCLAMATE!" che poi è il ritornello di "Acclamate al Signoure, voi tutti nella gioia".

[i] Vuoi dire che i canti del seminario ti sono rimasti impressi?
[s] Altroché! Ci fanno cantare, cantare e ancora cantare, tutte quelle canzonette parrocchiali, anche quelle che non avevamo mai usato. Cosa che normalmente va benissimo alla maggioranza dei seminaristi, che quando tornano in parrocchia alla fine della settimana possono vantarsi: sapete, ora vi insegno un bel canto nuovo, sapete, lo facciamo in seminario, sapete, noi l'ultima strofa la facciamo diversamente. Pensa che il primo momento comune, il primo giorno in seminario, ci portarono tutti in cappella e -indovina?- ci fecero cantare e cantare e poi ancora cantare...

[i] E ricordi anche cosa ti hanno fatto cantare il primo giorno di seminario?
[s] Non ricordo la scaletta di canti, però fu una cosa interminabile. Sai, uno arriva lì col cuore che gli scoppia di gioia: sono in seminario, comincio il mio percorso verso il sacerdozio, è un momento storico della mia vita, in paradiso ci sarà una folla di sacerdoti emozionati nel vedere me e i miei compagni di cammino... e invece quelli del seminario mi smorzano ogni entusiasmo con quei sorrisetti cretini e facendomi cantare le solite rabberciatissime e noiosissime canzonette di parrocchia. Ah, sì, ricordo l'ultimo canto, era il Salve Regina.

[i] Il luminoso canto del Salve Regina! Come fai a dire che i canti parrocchiali sono noiosi?
[s] Ma che luminoso! Fu una cosa suonata alla moviola, trascinata belando, dopo un'ora di canti non se ne poteva più e questi t'infilano pure un Salve Regina col bis dei versetti. Alla fine infatti sbagliammo tutti a cantare il bis, e il rettore del seminario ci degnò del suo finto perdono sorridendoci come un venditore di assicurazioni e dicendoci: beh, qui in seminario alla fine del canto spariamo sempre una salve in più. Si direbbe che ce l'aveva fatta cantare solo per poterci somministrare quella miserabile battutina.

[i] Quindi il problema non è il canto in sé ma il modo in cui si canta. Ma cos'hai contro il canto parrocchiale? Da prete avrai bisogno che i fedeli cantino...
[s] Guarda, forse ancora non lo hai capito: da prete dovrò cantare solo le parti della Messa, e spesso nemmeno quelle, non devo mica cantare quelle cringiate tipo "Acqua siamo noi" o "Vocazione". Sai una cosa? In seminario non insegnano né a celebrare la liturgia, né a cantare le parti proprie della Messa. L'ho saputo dai ragazzi del quinto anno. Che poi cantano anche loro "Acqua siamo noi" e "Vocazione", imperterriti, fino al quinto anno. Insomma, in seminario ci fanno cantare, cantare e cantare canti di parrocchia, e tutto questo serve solo per intrattenerci in cappella e far sembrare "partecipati" i momenti liturgici e le assemblee. Ti sgridano pure! "E che fai, non canti?" Pensa, si cantano quelle canzonette perfino in sala comune come se non gli bastasse cantarle nelle liturgie e nelle grandi occasioni...

[i] Sala comune?
[s] La sala comune è uno spazio "ricreativo", diciamo così (una stanza con due poltrone, qualche sedia, un tavolino, una caffettiera, un mobiletto con suppellettili liturgiche) utilizzata anche come sagrestia della cappella adiacente. La partecipazione alla sala comune fa curriculum. Il primo giorno, dopo pranzo, tornai in camera per sistemare le mie cose e già accorse un commilitone trafelato a reclamare la mia tassativa presenza in sala comune: "altrimenti l'animatore ti farà una pessima relazione!" Uomo avvisato, mezzo salvato...

[i] Animatore?
[s] È il termine con cui si indica il prete responsabile di una comunità del seminario (comunità composta da una ventina di seminaristi). Animatore, proprio come nei villaggi vacanze: incaricato di animare qualcosa che non ha anima... Ma oltre a fare un po' di vita comunitaria con loro (invadente quanto basta, controllore spietato, celebratore di carnevalate), è incaricato anche di redigere a fine anno una relazione su ognuno che verrà utilizzata per dare parere positivo o negativo sul proseguimento del percorso di formazione in seminario, mettendoci così letteralmente alla mercé delle antipatie di un pretino che è stato spedito in seminario per punizione (in diocesi stava combinando grossi guai, e allora il suo vescovo lo tolse per qualche annetto dalla circolazione spedendolo a fare l'animatore).

[i] Torniamo a noi: ma se non ti piacciono i canti della parrocchia perché vuoi essere prete diocesano?
[s] Una cosa alla volta. Non è che quei canti non mi piacciono. Sono brutti, sono brutti e basta. Infatti li si canta solo in parrocchia, cioè dove nessuno conosce il buon gusto. Tu sul tuo posto di lavoro canteresti più "Yu wanna gò" oppure "Tu sei la mia vita altro io non ho"? Mentre lavori ti vergogneresti a cantare i Matia Bazar o un Pierangelo Sequeri? I canti sono brutti e basta: ma guai a lamentarsene! Ci vuol poco a farsi cacciare dal seminario! "Accla-mate al Signòòòòò-re! (ta-pum, ta-pum) voi tutti della teeeee-rrà! (pim-pum, pim-pum)" E guai se non canti.

Poi una volta prete le cose cambiano. Si può gentilmente chiedere di sopprimere qualche canto, di introdurne qualche altro, e di evitare di trascinare i canti come se fossero un cadavere con le mosche intorno. Io ho già deciso il mio motto sacerdotale: "poco ma bene". Vale anche per il canto. Cantare poco (molto poco) ma cantare bene (ma molto bene). Guarda, è stato proprio questo zecchino d'oro seminaristico durato tutto l'anno a convincermene. Quando entrai in seminario non la pensavo così, mi illudevo che almeno sul canto si facesse poco e bene, che ci si distinguesse dal tipico marasma parrocchiale. E invece, che delusione. Ora dopo aver cantato per un anno quelle emerite stupidaggini, mi sono venute a nausea (mi vennero a nausea il primo giorno!) e penso che di fronte a Dio sia mio impellente dovere evitare di farGli sentire quelle patetiche canzoncine...

[i] Insomma, non ti piacciono né i canti della parrocchia né il modo in cui vengono cantati.
[s] Esatto. Sono strumenti per deturpare la liturgia, un modo per ridurre la liturgia a una cosa insopportabile. La cosa terribile in seminario è che la maggioranza dei seminaristi al momento del canto si comportano come dei robot. Mettono il pilota automatico e cantano quelle sbobbe e non se ne stancano mai. E quindi al mattino in corridoio senti uno che grida: "Acclamate!" o uno che canta: "Mille e mille grani nelle spighe d'or!" come se stesse recitando la parte del pirla nel film-documentario Scemo e più scemo.
Quel repertorio di canti è di una stupidità mostruosa, una cringiata pazzesca. Sono tutti stati composti da emeriti dilettanti nei primi anni '70, e poi non si è più riusciti a spazzarli via perché intere generazioni di cristiani hanno dovuto cantarli per decenni. Pensa che ancor oggi si canta quell'orrore di "Symbolum '77" o quel canto perfettamente agnostico di "Risposta non c'è o forse chi lo sa". L'abbiamo cantata perfino in seminario, e sai perché? per "variare". Già. Per "variare" il nostro già noioso repertorio abbiamo cantato un canto dichiaratamente agnostico rinnegato perfino dal suo stesso autore quando si convertì (al protestantesimo). Per non parlare dei canti comunisti ("Lotta per un mondo nuovo!").

[i] Ma non vorrai dire che il seminario, per preparare un prete alla diocesi, fa solo cantare?
[s] Non solo lo vorrei dire, ma lo vorrei gridare. Però guai a criticare, guai a fare osservazioni, anche innocenti: si passa subito per i bastian contrari che credono di saper meglio di vescovi e rettori come si fa a gestire un seminario. E per nemici del canto liturgico ("chi prega cantando prega tre volte!", sì, certo, ma valeva per il gregoriano, mica esigeva di trascinarsi su canzoncine imbecilli e teologicamente discutibili). Quindi, il massimo che ho potuto fare, è tentare di far entrare sottobanco qualche canto meno patetico rispetto alla media. Missione quasi completamente fallita, per cui ogni volta che mi è stato possibile ho evitato di cantare o... cantato in play-back. Muovendo solo la bocca e stando attento a non "centrare" le parole.

[i] Eeeh, canti in play-back!?!?! Solo perché non si canta quel che piace a te?
[s] Quando i seminaristi cantano rumorosamente puoi anche fingere di muovere solo le labbra e sforzarti di pensare ad altro, perché poi quelle canzonette ti trapanano il cervello: "Ho bisogno di incontrarTi nel mio cuore": come sarebbe a dire "nel mio cuore"? Allora i sacramenti a che servono? Ma di che stiamo parlando? Di un'entità astratta? Di un sentimento? E allora veramente ci vuole il play-back: ci vuole perché tutti controllano tutti, e io già dopo due settimane sono stato rimproverato dall'animatore perché non cantavo (cioè non aveva sentito abbastanza decibel fuoriuscire dalla mia bocca). All'inizio il rimprovero è dolcino e delicatino, per cui non ci avevo fatto caso. Ma uno dei miei compagni di classe mi ha avvisato di nascosto: attento che se lo segnano, e te lo ritrovi nella relazione di fine anno, e ti fanno storie, un sacco di storie! Così, per non passare per disubbidiente, fingo di cantare ogni volta che posso fingere. Vorrei anche dire che faccio di tutto per scansarmi i canti, però raramente ci sono riuscito. Il controllo è ferreo. Il primo anno di seminario passato praticamente cantando, anzi, peggio, tutti e cinque gli anni di seminario son da passare cantando, visto che quelli che finivano il quinto anno stavano ancora a cantare quelle robacce: "ho bisogno di incontrarTi nel mio cuore".

[i] Allora dimmi cosa ti piacerebbe che si cantasse in seminario.
[s] A sant'Agostino attribuiscono il detto che chi canta bene (e sottolineo bene) prega tre volte (visto che in seminario cantavamo trascinati, non abbiamo cantato bene, vuol dire che abbiamo pregato almeno il novanta per cento in meno di quel che c'è scritto nell'annuario del seminario).
Io vorrei che in seminario si cantasse pochissimo. Vorrei anche che al quinto anno si dedicasse tempo per esercitarsi a cantare il proprio della Messa. Ma non posso assolutamente parlarne, se non con i compagni di seminario più fidati e più discreti in assoluto (sperando che restino tali). Infatti ci vuol poco a passare per bigotto. Se in sala comune canti canzoni laiche ti sopportano (ma non ti cacciano dal seminario). Se nomini anche solo la possibilità di imparare a cantare il proprio della Messa, sei "uno che già si sente prete" (cioè sei un ribelle da cacciar via), sei un bigotto (cioè sei un tipo pericoloso da cacciar via), forse sei addirittura un tradizionalista (cioè sei un tipo pericolosissimo da cacciar via subito). Se invece canti "servo per amore" in cappella, in sala comune, nei corridoi, nessuno protesta, anche se quel canto dice che devi essere "sacerdote per l'umanità" (che è una cosa assurda: io voglio essere sacerdote per Cristo, e che poi questo fatto implichi un vantaggio per l'umanità, tanto meglio, ma io voglio essere per Cristo, non "per l'umanità", che sa tanto di assistente sociale. Ecco, a furia di cantare canzonette "vocazionali" cretinissime, uno finisce per credervi ciecamente, finisce per credere che il sacerdozio sia l'impiego in una ONG come assistente sociale, finisce per trovar normale che l'incarico di formatore di seminaristi venga chiamato "animatore").

[i] Praticamente nessuno in seminario sarà d'accordo con te...
[s] Purtroppo è vero. La domenica sera, di ritorno dalle parrocchie, li senti parlarne, li senti che dicono: eeeh, io al gruppo giovani ho fatto fare questo canto e quest'altro, oooh, io al gruppo cresimandi ho fatto fare quest'altro canto e quell'altro pure, iiih, io al gruppo dei bambini li ho costretti a cantare due volte "Acqua siamo noi" perché sbagliavano a dire "da un'antica sorgente veniamo"...
Sono seminaristi perfettamente inseriti nel "sistema". Non so come facciano (secondo me manca loro qualche rotella) perché uno sano di mente non saprebbe essere così passivamente meccanico. Cantano e contemporaneamente ti controllano perché, indovina un po', mors tua vita mea: quando il branco identifica il soggetto debole, lo punta e lo indica al sadico capobranco, che quindi per un pochino lascia in pace i fedeli delatori...

[i] Dai, esagerato...
[s] Fammi finire. Io ho parlato di seminaristi, ma la cosa è ancora più terribile se pensi agli animatori e al rettore. Non si stancano mai di sentir biascicare quelle canzonette, sempre le stesse, sempre più trascinate. Anzi: ci tengono! Ci tengono a vedere esibita in cappella la lavagnetta con i numeri dei canti da eseguire: I (introduzione), O (offertorio), F (finale), eccetera. Sei canti per ogni Messa. E magari qualche stachanovista dei canti che al momento della Comunione (dai, il momento più importante, quello che hai il cuore in lacrime di gioia e di desiderio) annunciano: "Canto Di Comunione: 'Ci' Trentuno: Ti Seguirò".
E così fino alla fine del quinto anno dovrò cantare quel "t'inseguirò" a velocità di moviola, come oche ubriache: "queee-queee-quequeee", per evitare qualche noticina in rosso nella relazione di fine anno che mi azzeri la carriera. I vescovi sono assetati di preti ma non vogliono essere responsabili della scelta di un pessimo candidato, per cui delegano tutto al seminario e proprio per questo i formatori hanno ampio potere discrezionale... e possono rovinare per sempre un seminarista semplicemente obiettandogli che non canta con entusiasmo le squallide canzonette parrocchiali.

lunedì 27 marzo 2023

Grammatica da seminario - forma "indicativo di condanna" e forma "impersonale di giustificazione".

Sono reduce da un incidente stradale di quelli che non dovevano accadere, per fortuna senza conseguenze gravi, ma ancora dolorante. A letto, quando faticavo a prender sonno (e a trovare una posizione non dolorosa), mi tornavano in mente tante cose da aggiungere su questo blog. Tra cui questo dialogo, avvenuto davvero, ma che riporto in prosa più estesa altrimenti risulterebbe incomprensibile:

"Dove vai?"
"A far colazione che fra 20 minuti c'è lezione..."
"Non puoi, dobbiamo recitare le $Preci $Bislacche"
"Ma l'ora di preghiera è già finita (e abbiamo pure fatto gli straordinari coi canti)..."
"Non è finita, perché ancora non abbiamo recitato le $Bislacche"
"Non sapevo..."
"La comunità ha deciso che vanno recitate comunitariamente"
"La comunità? Cioè? Io non sono comunità? Chi l'ha deciso?"
"Si è presa la decisione tutti insieme, è una decisione comunitaria, perciò tutti insieme dobbiamo..."
"Un momento: anch'io faccio parte della comunità ed è stato deciso tutto senza di me"
"È una decisione della comunità"
"La comunità 'chi'?"
"L'ho deciso io per la comunità"
"Bastava dirlo subito..."
"Da oggi non si può uscire più dalla cappella senza aver prima recitato le $Bislacche, se non ti va bene puoi rimanere in silenzio durante le $Bislacche, ma non puoi uscire dalla cappella finché non sono state completate"
"Va bene"

E fu così che mi toccò sopportare il Prolungamento del Prolungamento dell'ora di preghiera, inteso a ridurci il più possibile il tempo per la colazione, e a fomentare la sindrome di Stoccolma nei miei commilitoni.