Ne doveva esser sicuro anche il gaio aspirante che si presentò in comunità con un sottinteso. Ogni volta che ci veniva a far visita la sua testa pelata sembrava sempre più lucida e le mani sempre meno vuote. Una volta la torta, una volta i dolci, una volta un arrosto, una volta un intera spesa per un pranzo luculliano... Il
Nel mio interminabile gioco dell'oca vocazionale, a dispetto del fatto che mi capitava sempre la penalità del "Riparti dal Via!", ho in diverse occasioni messo mano alla carta bancomat. Gesti che consideravo un investimento - come quando ad esempio pagare un conto altrui significò non far perdere al prete alcuni preziosi minuti che servivano al colloquio con me. O come una gratitudine - non scrocco un pranzo andando a mani vuote. O come carità - una volta sospettavo che uno dei presenti era in difficoltà economiche e perciò pagai per tutti (guadagnandomi un gratuito sarcasmo da un altro dei presenti che, come me, pure aveva il bancomat).
Non ero ricco. Non lo sono mai stato. Ho solo investito quel poco che avevo e nei momenti in cui lo ritenevo utile. Anche rischiando. Qualche anno prima, in una diversa comunità in cui ero postulante sentii il superiore lamentarsi di un diluvio di imminenti e inevitabili spese. Sembrava sincero e preoccupato. Gli dissi che potevo mettergli a disposizione tutto quel che avevo sul mio conto bancario. Ero sincero (e avventato). Per mia immensa fortuna, il superiore colto alla sprovvista ringraziò e disse che non era necessario e tornò in sagrestia (solo qualche attimo dopo realizzai di essere stato troppo avventato... mentre lui realizzava di essere stato a sua volta troppo avventato nel non lasciarsi aperto nemmeno uno spiraglio).
Tranne rarissimi esemplari, i preti non hanno mai lavorato in vita loro. Mai guadagnato uno stipendio, nel senso di guadagnarselo a suon di serietà, responsabilità, puntualità. Questo genere di preti considera le offerte dei fedeli un atto dovuto anziché un dono inatteso. Considerano la ricchezza altrui come un'ingiustizia fino a che gran parte di quella ricchezza non trasloca nelle loro tasche (sì, proprio come i comunisti). Svalutano o dimenticano rapidamente cosa hanno ricevuto, ricordano (e rivalutano) molto largamente ciò che hanno dato. Come facilmente immaginabile, anche in ambiente tradizionalista vale il sottinteso: senza soldi non si cantano messe (tanto meno si accettano vocazioni, si considerano anime in difficoltà spirituale, si prendono sul serio richieste che dovrebbero essere prese a prescindere a causa dei doveri sacerdotali, eccetera), talvolta persino con la scusa ufficiale che non sguazzano nell'oro.
Nel proporgli di mettere subito a disposizione tutto ciò che avevo, il mio orizzonte era la comunità. Mi ero avvicinato alla comunità da pochi mesi ma ero già piuttosto certo di volervi rimanere a vita, per cui anche nell'ipotesi che quei soldi non mi sarebbero mai stati più restituiti restava inteso che da sacerdote di quella comunità la prima beneficiaria delle mie donazioni sarebbe stata la comunità stessa. Povero ingenuo! A creare il buco nero nei conti non erano state le spese e le bollette, ma i malriusciti intrallazzi del superiore e le regalie ai seminaristi frocetti (povero me illuso, che mi illudevo che questi ultimi si potevano in qualche modo tenere a distanza di sicurezza, incensarli quel tanto che basta da renderli inoffensivi, e magari assistere alla loro dipartita dalla comunità alla prima gelosia trasversale).
Piaccia o non piaccia, i costi essenziali della formazione di un seminarista devono essere a carico della comunità che li accetta, per evitare che il seminarista non ricco (cioè quasi qualunque seminarista) possa anche soltanto essere sfiorato per un attimo dalla mentalità del "ho pagato ma non ho ricevuto". Mentalità pericolosa perché i soggetti meglio armati (in senso economico e sociopatico e possibilmente omosessuale) ultimamente riescono nel loro intento (e no, non era un'ipotesi).
Torniamo al
Un ultimo aneddoto. Un commilitone si era vantato che un lontano parente aveva destinato in eredità un grosso immobile al primo fra nipoti e pronipoti che fosse stato ordinato al sacerdozio. E lui era l'unico seminarista di tutta la famiglia allargata. Gli dissi che su quella faccenda sarebbe stata necessaria la massima discrezione, e gli garantii che non ne avrei fatto parola. Ma lui mi guardò con quell'espressione con cui si commiserano gli inguaribili ingenui. Fece un'allusione per dirmi di procurarmi una "dote" da adoperare insieme agli altri mezzucci per convincere i superiori a ordinarmi. Ovviamente un poveraccio come me non poteva procurarsi qualche immobile come dote. Finì esattamente come previsto: il sottoscritto fu scacciato via, lui fu ordinato.