mercoledì 6 luglio 2016

Il supplizio vocazionale di Tantalo

Per chi ancora non lo avesse capito, da tantissimi anni sono convinto di essere chiamato al sacerdozio ma sono stato ripetutamente bocciato da una masnada di frocioni.

Eh, sì, perché la pia credenza che uno chiamato al sacerdozio prima o poi per intervento divino vi acceda è contraddetta da quel passo del Vangelo in cui gli apostoli gonfi di sé scacciarono via uno che esorcizzava efficacemente ma non apparteneva al loro club. Vennero rampognati da Nostro Signore, ma ormai il precedente l'avevano creato.

Ho una vasta collezione di "non posso aiutarti", "non possiamo prenderti", "non devi rivolgerti a me", "vedremo cosa si può fare", "qui non prendiamo seminaristi già adulti o mandati via da altre diocesi", ecc., in tutte le salse.

Già, perché la diocesi di origine mi ha tenuto in caldo per tanti anni, dimettendomi per imprecisate incapacità di dialogo. Magari c'entra qualcosa il rettore che aveva sculettato in mia presenza come una checca scafata, oppure il fatto che non riuscivano a trasformarmi in un gaio clown da parrocchia, o magari il fatto che mi inginocchiavo alla consacrazione, oppure il fatto che nessuno dei parroci ultrà sessantottini riusciva a trasformarmi in un suo clone...

La congregazione, come già detto, mi mandò via perché non avevo pagato le migliaia di euro della tassa retroattiva sul noviziato, ma magari c'entra qualcosa il fatto che il superiore (che si era fatto letteralmente sfondare il culo nelle dark room romane, venendone ammonito dal proctologo di fiducia) era un emerito frocio che non vedeva l'ora di assecondare le piccinerie del suo amato novizio-figliuolo prediletto, in onore del quale raccontava a tavola i propri sogni omosessuali.

E l'altra comunità, invece, andò a farsi friggere perché il superiore, tutto intento a incensare il suo seminarista-figliuolo prediletto, calamitava guai dalla curia a profusione. Quando dalla curia dissero a quella checca repressa che il sottoscritto non poteva avere il tipico avanzamento di carriera, mi tenne nascosta la cosa fino a due settimane prima, notificandomela appena fabbricò una scusa per coprire la propria magagna.

I missionari, al secondo colloquio conoscitivo, mi dissero che non potevano proprio prendermi, neppure ricominciando da zero la formazione, perché nelle carte provenienti dalla mia diocesi di origine c'erano tante di quelle cattiverie - pur riconoscibili come tali - che era chiaro che intendevano farmi terra bruciata. E i missionari di tutto avevano bisogno tranne che di qualche nuovo nemico in zucchetto paonazzo.

Nel carnet ho perfino un prete arcisicuro della propria imminente nomina a vescovo, e la sua faccia quando all'ultimo momento elessero invece un professorino isterico al suo posto (capita ovunque: "indagate pure sul candidato X, tanto poi la Congregazione farà passare comunque il candidato Y"). Non sapendo come scusarsi - e non era mica colpa sua - mi portò a conoscere i monaci che da decenni non vedevano vocazioni. E no, non mi sento chiamato al monastero, tanto meno a fare il badante di un certo numero di vecchi, alcuni dei quali con seri problemi di (omo)sessualità.

Ho un comico elenco di pretini (più o meno frou-frou) desiderosi di fondare una nuova comunità, ma terrorizzati dalle reazioni dei vescovi, perché se hai intenzione di fondare vuol dire che hai le idee chiare su qualcosa, e gli uomini con le idee chiare fanno paura a questa generazione di Don Abbondio con mitria e pastorale orridi come loro. Nessuna di quelle comunità è stata mai fondata, e da giugno 2016 è in vigore un nuovo cavillo per bloccarle preventivamente. (Per reazioni si intende anche il talvolta malcelato desiderio di far carriera: e la paura di vedersi bloccato l'accesso all'ambita parrocchia o al corridoio per l'episcopato erano incluse nell'elenco).

E infine ho anche in lista un patetico elenco di vescovi che hanno promesso per poi non mantenere. Come quello che diceva "aspetta che a breve apro un seminario per vocazioni adulte", dopo dieci anni ancora non ha aperto nemmeno il pacco di biscotti. Un altro disse "fammi contattare dal sacerdote che ti segue" (che conosceva personalmente), e si è sempre fatto negare al telefono (sì, un vescovo che dice alla segretaria "se chiama il tal prete di' sempre che non ci sono"). Un altro ancora che nel fissare un appuntamento mi disse che "non prendo seminaristi da altre diocesi". E poi quello che in macchina (guidava lui) mi promise mari e monti, per poi concludere che tutta la mia formazione sarebbe stata affidata al rettore del seminario (un ricchione isterico che mi accolse dicendo che non si sa se cominciavo, non si sa se continuavo, non si sa se finivo, e se proprio tutto fosse andato bene per tanti anni non si sa se davvero accedevo al sacerdozio).

Ora, in seminario o in una casa di formazione, può ben succedere che un candidato venga verificato come definitivamente inadatto al sacerdozio. E può anche darsi che sia utile, per evitare scandali e strascichi, evitare di precisare pubblicamente i motivi per cui è stato dimesso. Solo che quando quest'ultimo metodo viene applicato per coprire le antipatie, le gelosie, le porcherie dei formatori, si compiono le peggiori ingiustizie.

Ci sono andato dritto con tutte le mie forze (non solo spirituali) in seminario, in congregazione, in comunità, anche macinando chilometri, anche sputando letteralmente sangue, spendendo i migliori anni della mia vita, investendovi una quantità immane di soldi guadagnati lavorando, fidandomi più di quanto mi venisse chiesto. Ho sorriso filialmente quando avrei dovuto randellarli nelle gengive, ho ubbidito con prontezza quando avrei dovuto impalarli con un lampione (qualcuno avrebbe gradito), ho finto di non vedere - quando non esplicitamente coperto - le loro piccinerie, ho incensato con studiata attenzione i loro rispettivi figliuoli prediletti, sono uscito in punta di piedi laddove avrei dovuto sbattere la porta dopo averli accuratamente malmenati... So bene che tutto questo, alla fine della fiera, non importa granché: sono i formatori che ho avuto, il problema, non i miei limiti.

Davanti a Dio, conscio pure di tutti i miei peccati, sono definitivamente sicuro di aver dato tutto il possibile ma di essere incappato ogni volta in qualche esponente della parte più marcia della Chiesa. Un Don Abbondio merita critiche, ma in fondo in fondo la paura gliela perdoniamo. Ma un formatore gay più o meno latente, che ha tutto un particolarissimo metro di giudizio sulle vocazioni (cioè un figliuolo prediletto e tutti gli altri devono esser per forza figliastri invidiosi gelosi pelandroni da far rigare dritto), non può essere dimenticato o perdonato. Sarebbe una buona pastorale vocazionale ridurre allo stato laicale simili soggetti, ricordando che le vocazioni vanno selezionate fra i viri probati, non tra le checche.

sabato 2 luglio 2016

Esercizi: l'episodio dei finti diaconi

Ogni anno di seminario iniziava con una settimana di esercizi spirituali. Che consistevano in una gran quantità di prediche alternate a lungaggini in cappella. Il predicatore era invariabilmente un esperto divulgatore di aria fritta, per cui per non annoiarsi era opportuno portarsi di nascosto qualche buon libro da leggere - non necessariamente di spiritualità.

Siccome negli esercizi Tutto Deve Essere Più Speciale, il predicatore pretese per ogni messa due seminaristi chierichetti che al momento della Comunione trattava col riguardo che liturgicamente spetta ai diaconi. Cioè dava loro la particola (una parte dell'ostia appena consacrata) e pretendeva che facessero la Comunione insieme a lui, dopodiché passava alla distribuzione della comunione agli altri. Un abuso liturgico come tanti altri: nei seminari l'unica cosa che non manca mai è la voglia di Fare Qualcosa Di Speciale, cioè la noia e il disappunto per le cose normali.

Fui selezionato anch'io per servirgli Messa e mi diedi subito da fare per convincere il commilitone a chiedere al predicatore di amministrarci la Comunione normalmente, non come i diaconi. Con mia sorpresa fu subito d'accordo e andammo a parlargli. Il prete predicatore, colto di sorpresa poco prima di celebrare, farfugliò un "va bene" pensando, lungo tutta la Messa, al modo in cui potesse più crudelmente vendicarsi. I seminaristi si accorsero che proprio quel giorno non c'era stata la pagliacciata usuale, e uno di loro - quello che nella sua parrocchia di origine era soprannominato La Checca - mi chiese come mai il predicatore avesse fatto così. Feci il finto tonto. Non avvenne nient'altro di notevole, e l'episodio sembrò essere seppellito nell'oblìo.

Un po' di settimane dopo ci fu una Tregiorni dei seminaristi. Il vescovo celebrò la Messa e distribuì la Comunione. Mi presentai in fila come al solito, a mani giunte. Dopo avermi detto «il Corpo di Cristo», il vescovo si bloccò e aggiunse: «no, voglio darteLo nelle mani». Misi subito le mani a coppa, perché istintivamente a un ordine del vescovo si può solo ubbidire. «Le mani», ripeté sottovoce il vescovo, come se fosse stupito di vedermi ubbidire. Fu una delle rarissime volte in cui ho fatto la Comunione "con le mani". Tornai al posto, senza perdere la compostezza, e dopo aver ispezionato con la massima discrezione palmo e dita per possibili frammenti, mi inginocchiai per il ringraziamento.

Quell'episodio durante gli esercizi del seminario doveva aver fatto il giro del mondo a velocità supersonica, venendo gonfiato ad ogni rimbalzo. Ero passato per quello lì che aveva paura di fare la Comunione "con le mani". Il vescovo si era allarmato e si era personalmente autoincaricato di controllare questo Ribelle al Superdogma del Postconcilio, adoperando il Santissimo Sacramento come strumento utile a trarre elementi conclusivi per l'indagine.

Il mattino dopo il vescovo mi convocò con una scusa per farmi tutto un panegirico sulla Comunione "sulle mani" e sulla assoluta problematicità dell'ostacolare tale attività, così salutare e necessaria nelle parrocchie. Lo ascoltai come al solito, cioè annuendo con calibrato entusiasmo e in attesa del termine della predica personalizzata. Non sembrava una richiesta di perdono, ma solo il voler dar soddisfazione alla propria insicurezza mentre era roso dal tarlo del dubbio e del timore di allevare una serpe in seno, cioè un seminarista che si rifiuta di fare la Comunione sulle Mani! (non gli passerà nemmeno per la testa di averlo compiuto lui, l'abuso liturgico e l'insulto al Signore, rifiutandomi la Comunione "alla bocca" ed esigendola "alle mani").

Finalmente il vescovo arrivò al dunque: mi chiese cos'era successo quando ho servito messa durante gli esercizi. Gli dissi candidamente che in coscienza non me la sentivo di partecipare a quell'abuso e che lo avevamo chiesto in due al predicatore e che eravamo stati accontentati. Dissi "abuso" anziché "abuso liturgico", per non sembrare un professorino con la matita rossa (ma pensate un po' come occorre calibrare accuratamente le parole quando si parla col proprio superiore). Il vescovo, visibilmente imbarazzato, replicò mischiando insieme una considerazione sul dover seguire il Messale, una sul non essere troppo rubricisti, e una sull'ubbidire sempre al celebrante. Dopodiché mi congedò, senza però togliermi dalla lista dei sospetti criptolefebvriani, e senza apparentemente rendersi conto della sua personalità bipolare: da un lato, vescovo che non concede nessun permesso che non sia stato già concesso a tutta la Chiesa, dall'altro, vescovo che non vede l'ora di accontentare i suoi preti più facinorosi in termini di progressismo liturgico, chiesastico e dottrinale.