sabato 14 dicembre 2019

Quando manca anche il minimo sindacale

Da piccolo sono stato qualche volta dispettoso e arrogante, venendo generalmente ripagato con fior di mazzate (e anche col sarcasmo, perché il colpire l'amor proprio a volte fa più male delle mazzate). Qualche annetto dopo ho finalmente capito che c'è un "minimo sindacale" al di sotto del quale non esistono giustificazioni per ammorbidire una severa punizione (come la pena di morte, che ha senso perché chi ha compiuto qualcosa che gli farebbe perdere molto più che la dignità di uomo non può recuperarla altrimenti). Successivamente, l'approfondire la conoscenza della fede e della morale cristiana mi ha consolidato tale convinzione: cioè normalità la legge naturale, minimo sindacale il civile buonsenso. Ossia quanto basta per distinguere tra il cristiano porger l'altra guancia dal perdonismo idiota che consiste nel vigliacchissimo farsi zerbini di tutto e di tutti.

Così, anche di fronte a casi che reclamano una punizione severa e per nulla ammorbidita (come ad esempio il vandalismo, letteralmente e figurativamente inteso) cerco di essere almeno un po' distaccato, di concentrare le mie energie mentali nel cercare una soluzione al danno prima che una giustizia o una vendetta. Cioè tentare di risolvere l'impossibile problema dell'architettare una soluzione "tecnica" per risolvere un problema di "capricci da sociopatico" o di altra forma di odio gratuito e immotivato. Ma non per questo smetto di sperare che il soggetto riceva quel che di durissimo merita (il perdonare i propri nemici non attenua la necessità di perseguire la giustizia del far aver loro ciò che si meritano).

Per quanto ai non addetti ai lavori possa sembrare incredibile (pur sapendo che la Chiesa è sorprendentemente piena di pessimi soggetti), nel postconcilio è stato statisticamente assai più facile ordinare al sacerdozio (o fargli solennemente emettere voti perpetui) un soggetto mentalmente o sessualmente squilibrato, a stento capace di rispettare quel minimo sindacale del non creare volontariamente e studiosamente pasticci da titolone in prima pagina. Sacerdoti affetti dalla triade oscura (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e magari anche da una radicata omosessualità, intenti a calpestare le anime loro affidate e, specialmente, le vocazioni.

Ogni volta che mi è stato assegnato un incarico - "pastorale" o meno - ho cercato di non affezionarmi a quel che facevo. Fosse anche soltanto una lavata di pavimento. Ma quando cominci a investirci tempo, pazienza, risorse, per far bene quel che esige di essere fatto bene, inevitabilmente cominci a considerare un pochino anche "tuo" il risultato (che è lo stesso meccanismo mentale del pastore che cerca la pecorella smarrita). Lo sai già che prima o poi il pavimento verrà sporcato da qualcosa di più che il semplice transito e sosta di normali soggetti umani, ma che lo scempio avvenga per motivi non accidentali poche ore dopo averlo pulito, ti tocca aver pazienza, già mezz'ora dopo, una seccatura, vederlo deliberatamente vandalizzato dal presbitero due minuti dopo che sei andato via, eh, devi investire una considerevole quantità di energie per non infuriarti. La via verso il sacerdozio è di questi tempi una lunghissima guerra di nervi condotta da estenuatori professionisti contro di te.

Ed è anche peggio, molto peggio, quando si tratta di conquiste più consistenti che mentalmente, quasi soltanto con pensiero laterale, avevi già consacrato a Dio. È deprimente scoprire che il parroco ha stabilito di segarti fuori da qualsiasi incarico non di intrattenimento ludico perché ai ragazzi dell'Azione Cattolica, come preghiera prima dei giochi, avevi fatto dire l'Ave Maria anziché l'abituale Padre Nostro (non sia mai che una minima traccia di devozione mariana inquini l'ACR). Ripensi al vispo ragazzino della parrocchia, col quale avevi parlato quasi esclusivamente con gesti "lontani" (servendo Messa, riparando una presa elettrica, spazzando via la neve). Veder devastare con foga (e per stupidissima invidia) tutto il "lavoro" di "pastorale vocazionale" che avevi fatto, non è stato bello, né ti può rincuorare il fatto che la grazia di Dio troverà il modo di passare (non raccontiamoci favolette: la grazia di Dio non ha bisogno dei vandalismi per essere efficace, e Nostro Signore non ha bisogno di cattiverie come precondizione per farsi riconoscere meglio). È doloroso scoprire che alla coppia di aspiranti sposi, che avevi attirato verso poche precise verità essenziali con la pazienza di uno che trascina una barca a riva usando solo un filo di cotone, è stato insinuato in maniera brillante che il sottoscritto fosse poco meno che un borderline su una nuvoletta, un soggetto che fa discorsi bizzarri da dimenticare (non venitemi a dire che quando seminate delle piante delicate occorre che qualcuno ne calpesti il terriccio a pallonate altrimenti non crescono bene). A volte invece ti toccava accogliere con un sorriso tali preteschi getti di odio vomitati in tua stessa presenza proprio per sterilizzare e cancellare il "lavoro" fatto - puntigliosamente pianificati, calcolati, architettati, messi in opera, con uno zelo di cui solo dei chierici sociopatici sono capaci. E in quel momento la fitta di dolore era non più per il tuo lavoro devastato lì per crudeltà gratuita, ma per tutta la Chiesa santa, che veniva calpestata da uno dei suoi uomini - un mezzo uomo, un pretino grasso come una botte, con enorme dimestichezza nel selezionare parole e gesti per massacrare con maggior efficienza coloro che in quel momento non riteneva simpatici).

La cosa che mi strazia di più l'animo è che tali soggetti si esibiscono in Comunione quotidiana e breviario ostentato, più una collaudatissima recita da santarellini credibili. Come il prepuzio preposito, che si è fatto letteralmente sfondare il buco del culo - al punto da farsi rimbrottare bonariamente dal suo proctologo perché non si può ricostruire l'ano una seconda volta - e che in tutto il tempo che sono stato lì non l'ho mai visto sorridere o almeno ridere, tranne quella volta che mi vide piegato in modo strano a trasportare un aggeggio pesante sulle scale. Avanti, nel girone dei ricchioni c'è posto anche per i preti, specialmente quelli letteralmente capaci di banalizzare il Sacramento pur di intascare i trenta denari (e se ne vantava perfino: "pagano bene"), di architettare tutta una complicata strategia per farmi fuori (solo perché non ero gradito al suo frocetto preferito), di avermi mentito non con monosillabi difensivi ma con elaborati discorsoni (somministratimi a puntate perché troppo lunghi, lunghi anche da preparare), di aver accuratamente cancellato le tracce di tutto ciò che avevo fatto di buono (un nemico giurato di Nostro Signore è capacissimo di riconoscere quel che fai a favore di quest'ultimo, anche se ti fosse capitato distrattamente, proprio perché ossessionato dal dover distruggere tutto ciò che non rende gloria a sé stesso e alla sua finocchieria congenita).

Anche in assenza di altri indizi, tutto ciò mi fa dedurre che il castigo imminente sulla Chiesa - mazzate e persecuzioni - è meritato e inevitabile. A noialtri tocca solo salvare i semi per dopo l'alluvione.

venerdì 13 dicembre 2019

L'assegno del dottore

Avevo cominciato a lavorare a diciott'anni, ancor prima di iscrivermi all'università. Lavorare - cioè avere responsabilità, orari da rispettare, scadenze da onorare, e perfino uno stipendio - è particolarmente educativo. Al punto che quando entrai in seminario riconobbi subito i commilitoni e i pretazzi che non avevano mai lavorato in vita loro: erano quelli che si comportavano come bambini capricciosi, sebbene con apparente garbo e astute capriole dialettiche, e soprattutto ottima memoria (e quindi collaudata vendicatività). Un'altra loro caratteristica fondamentale era quell'attitudine a desiderare di essere serviti e pagati. Si aspettano che il fedele molli la grana e non si interrogano minimamente sui loro meriti che dovrebbero indurlo a mollarla.

Un chierico che non ha mai lavorato parla dei soldi dei fedeli così come il mafioso parla distrattamente delle quote che deve intascare col pizzo. "È ricco e quindi deve sganciare gli sghei", mi diceva con malcelata avidità il parroco a cui ero soggetto all'epoca. "Sì, guadagna molto", annuivo io tentando di non fargli notare il mio disappunto per quell'affermazione comunista nemica della proprietà privata. E lui: "non solo il lavoro: è ricco anche di famiglia, quindi se sgancia tremila, quattromila euro non gli cambia niente!" Ero in imbarazzo perché non trovavo motivo di chiedere anche un singolo centesimo senza averne effettivo bisogno, nemmeno se si tratta di un ricco.

In paese il ricco in questione lo chiamavano "il dottore", ma sembrava piuttosto un titolo onorifico. È molto probabile che il parroco avesse incautamente contratto tutti quei debiti proprio perché contava di fargli sganciare "gli sghei". Sottolineo "incautamente", come un giocatore d'azzardo. Il dottore sganciò ben più di quattromila, firmando un assegno che non solo copriva tutti i debiti di quell'inutile e ridicolo centro giovanile ma pareva poter coprire anche un anno di bollette. "Il Signore ci aiuta sempre", mi disse ipocritamente il parroco mentre lo accompagnavo in banca a depositare. La banca gli aveva ingiunto di rientrare al più presto, entro tot settimane, e dopo tot più uno settimane il parroco era riuscito a convincere con chissà che enfatiche parole il benefattore. Che in cambio aveva chiesto solo di rimanere assolutamente anonimo. Talmente anonimo che ne ero già al corrente anch'io, l'ultimo degli arrivati in parrocchia. "La provvidenza ci aiuta", insisteva il parroco esigendo un mio commento. "È vero", aggiunsi, "nemmeno io avrei immaginato che sarebbe finita così bene" (ci vuole un'enorme fatica per rispondere a modo, dicendo la verità senza urtare suscettibilità, senza firmare cambiali in bianco agli amici del demonio e senza combinare occasioni di peccato mortale).

La piazzetta è deserta, c'è un sole tiepido. Mentre scendiamo dalla macchina qualcosa mi dice che dietro le finestre alcuni parrocchiani ci stanno osservando. Sanno cosa andiamo a fare, il paese è piccolo, le voci corrono veloci. "Aspetterò in macchina", dico al parroco per togliergli l'eventuale imbarazzo di dirmi che sarebbe entrato da solo. Invece insiste a volermi presente. "Qui nessuno fa la multa al parroco", dice pieno di sé, tanto per ricordarmi che non ha mai lavorato in vita sua, trasformando la gentilezza dei vigili in un dovuto ossequio all'inesistente titolo nobiliare di parroco. Entriamo nel grigiore della mini-filiale, in quella specie di sportello-ufficio-archivio che è una selva di carte accatastate in faldoni, volumetti, scatoloni, che lasciano spazio solo a poster pubblicitari con attempate donne bionde in abiti da ufficio sorridenti accanto a riquadri zeppi di numeretti e percentuali e rate.

L'impiegato, apparentemente la sola persona presente nella banca, ci accoglie calorosamente. Gli è bastato guardare la faccia del parroco per capire che è entrato per rientrare. All'impiegato non importerebbe un fico secco del rientro, ma è addestrato a ubbidire agli ordini ricevuti dal computer centrale, e ad elargire sorrisi di circostanza su misura delle operazioni del cliente. Dopo un po' di rituali chiacchiere sul maltempo e sul festival parrocchiale finalmente ci chiede il motivo della visita, come se non lo conoscesse. Il parroco gli porge l'assegno per rientrare e contestualmente gli dice di voler ritirare anche un po' di contante. Con una faccia inespressiva da giocatore di poker l'impiegato snocciola un po' di latinorum bancario per dirgli che può anche ritirare contanti ma tornerebbe in rosso, perché tra interessi supplementari sul debito, varie piccole operazioni già effettuate e altre minuscole faccenduole l'assegno è appena sufficiente a tappare l'enorme buco. In quel momento mi rendo conto che il medico avrà informalmente chiesto all'impiegato il valore esatto del debito da coprire e avrà arrotondato ai cento euro successivi: è un paesetto piccolo, e tra uomini seri le norme bancarie sulla privacy possono anche essere messe da parte un momento. Del resto al posto del medico io avrei fatto lo stesso: dare una mano alla provvidenza sì, ma senza invogliare gli scialacquatori. Uno che non ha mai lavorato in vita sua non riuscirebbe ad architettare qualcosa del genere.

L'impiegato osserva l'assegno, smette di sorridere e chiede al parroco con voce molto bancaria: "si rende conto di chi è la firma su questo assegno?" Abituato dagli anni di seminario a trasmettere il minor numero possibile di emozioni resto fermo come una statua. Magari lo ha chiesto perché c'ero io presente. Il parroco dice di sì e spiega che il generoso benefattore intende coprire i costi intrapresi dalla pastorale giovanile (verbo impersonale e soggetto intraprendente fumoso e impersonale). L'impiegato lo lascia parlare per alcuni istanti, come se volesse davvero accertarsi di qualcosa. Quindi, quando finalmente comincia a diventare un pochino percettibile l'imbarazzo del parroco, sorprendentemente lo interrompe e soggiunge: "è bene che non si sappia in giro chi ha fatto quest'assegno, sapete, è una somma non indifferente". Il parroco, visibilmente sollevato, annuisce. Pochi minuti dopo siamo già in macchina e finalmente il parroco mi raccomanda caldamente di non far sapere in giro dell'assegno. Ma non gli è difficile capire che non parlerò, visto che già in altre occasioni ho saputo tacere su qualche sua magagna.