venerdì 15 dicembre 2017

Quel Te Deum vietato

Un certo anno, negli ultimi giorni di seminario a giugno, per tramite di uno dei seminaristi più impiccioni e meglio ammanigliati con qualche prete curiale, arrivò la segretissima notizia che il nostro perfido formatore prete animatore aveva appena ricevuto la nomina a parroco. Si toglieva finalmente dalle balle! Da settembre non lo avremmo più visto!

La notizia e il tripudio divamparono come un fiammifero acceso in un lago di benzina, lasciando intristiti solo i pochi seminaristi che a suon di ipocrisie e delazioni avevano costruito i loro piccoli imperi personali. Uno dei commilitoni più entusiasti arrivò a cantare due righe del Te Deum Laudamus: non so dove avvenne ma sono certo che non fu in pubblico, fu quasi certamente nella camera di qualche seminarista, forse davanti a non più di due o tre commilitoni, perché era davvero troppo pericoloso esporsi (era come se in un Gulag nel 1953 fosse giunta la notizia della morte di Stalin: in cuor proprio ognuno sperò che il sistema crollasse, e invece...)

Quando il fracasso entusiasta in corridoio toccò vertici inusitati - eravamo dopotutto in periodo d'esami - mi affacciai dalla porta della mia camera per chiedere cosa fosse successo. Il cantore del Te Deum mi riferì sottovoce la bella notizia, e rispose più volte che era verificata e confermata e assicurata. (Non fui preso da eccessivo entusiasmo non è mai detto che il successore sia meno perfido. E comunque mi conveniva rimanere in camera perché il perfido animatore di sicuro doveva aver già notato che la notizia era inopportunamente trapelata).

Qualche ora dopo il perfido rettore convocò tutta la comunità d'urgenza in sala comunitaria per una "comunicazione". Elencò subito cinque nomi, incluso il sottoscritto, dichiarandoli dimessi dal seminario a partire dal giorno successivo, perché avrebbero cantato tutti insieme e pubblicamente quel Te Deum dimostrando così una inaccettabile mancanza di rispetto verso i formatori.

Il sottoscritto fu sorpreso ma non reagì (tanto più che qualsiasi mossa, anche un tremito del mignolo del piede, sarebbe stata interpretata come inaccettabile ribellione e insubordinazione), e del resto quando una menzogna è così grossa non vale la pena sprecare microcalorie per ribattere. Lo show della "comunicazione", infatti, era inteso non solo a umiliare nel peggior modo possibile coloro che l'animatore promosso a parroco riteneva responsabili, ma anche ad estrarne qualche possibile parola fuori posto o altra mossa avventata da adoperare contro di loro in opportuna sede (relazione di fine anno).

Gli altri quattro seminaristi, di scarsa esperienza di vita, andarono subito in panico e lo pregarono - ognuno a modo suo, chi tra le lacrime, chi col solito gergo politically correct, chi gridandosi innocente (sottinteso: pronto a denunciare i compagni pur di salvare la pelle), ecc. - di rivedere la sua decisione.


Il perfido rettore insistette più volte a dire che quella era "una comunicazione", non "un'udienza", e andò via facendosi largo tra i quattro disperati più o meno in lacrime, uno già in ginocchio. Proprio il metodo terroristico del colpirne uno per educarne cento: fare barbara strage di qualche innocente in modo da mantenere tutti gli altri nel terrore, poco importa che il mezzo scelto sia la menzogna (il rettore e l'animatore infuriato sono pur sempre preti, che celebrano Messa ogni giorno, che mangiano il Pane di Vita Eterna ogni giorno... mangiano e bevono la loro condanna quotidianamente). Ed infatti, il resto della comunità, salvo rari casi, esibì la tipica ipocrisia, vestì la tipica faccia del "non sapevo nulla", si preparò mentalmente ad approvare la decisione del rettore (magari con l'alibi del meglio che vengano colpiti loro che io).

Durante l'estate ce la cavammo tutti e cinque - alcuni, come me e il vero cantore, fummo spediti dal vescovo in un altro seminario, altri ebbero da sudare cubetti di ghiaccio per convincere il proprio vescovo di essere innocenti.

Neanche tre mesi dopo, a settembre, per caso incrociai per strada il rettore, che non vedevo da quando si esibì nella "comunicazione". Tentai di cambiar strada ma lui, giovialmente, come se nulla fosse accaduto, come se quella terribile menzogna (che pure aveva raggiunto lo scopo di togliermi da quel seminario) non fosse mai esistita, mi tese la mano.

Mi rifiutai di stringergli la mano, limitandomi a dire: "dopo quello che ha fatto?", e me ne andai. Quella stretta di mano gli serviva per autoassolversi, e istintivamente non volli essere complice di quella autoassoluzione.

Non avendo ricevuto la stretta di mano, il perfido rettore immediatamente si diede da fare per far conoscere l'increscioso episodio al mio vescovo e al mio nuovo rettore. Quest'ultimo, a cui non sono mai andato a genio, fu molto soddisfatto della cosa (aveva anche lui bisogno di trovare il pelo nell'uovo), ed infatti me la rinfacciò appena possibile, in privato, durante il periodico colloquio, e fu inutile ripetergli tutta questa storia. Ma ne parlerò in un altro momento.

giovedì 14 dicembre 2017

Quel formatore dei miei stivali

Quando un vescovo decide di subappaltare la verifica delle vocazioni ad un seminario, teoricamente dovrebbe anche assicurarsi che i formatori siano uomini seri, con la testa sulle spalle, di provata fede, zelatori della santità della Chiesa. Magari potrebbe anche scegliere il miglior prete del suo clero e assegnargli tale delicato compito. Magari!

In realtà le diocesi sono a corto di preti. Troppi fannulloni, troppi incarichi, troppe parrocchie e... troppo scarse (di quantità e di qualità) le nuove vocazioni. Così, se proprio gli accordi interdiocesani richiedono che la tua diocesi debba mandar lì uno a fare il formatore per qualche anno, tu vescovo cosa fai? Prendi la peggior scartina, il più incompetente e avido, il più chiacchierato della diocesi, e gli fai un discorsone in privato per fargli sembrare che l'esilio sia in realtà un premio ambitissimo e una promozione invidiabile. E magari ci infili il sottinteso che se si rifiuta, il vescovo porgerà finalmente orecchio a certe strane voci sul conto del pretino.

E così l'incompetente chiacchierato avido idiota si ritrova improvvisamente formatore di seminario, con una comunità di ragazzi talvolta più anziani e più titolati di lui, sui quali ha diritto di vita e di morte vocazionale.

Il prete in questione era chiacchierato perché dicevano che se l'intendesse con una certa parrocchiana che lo invitava continuamente a pranzo. E lui, avido di mangiare e di essere al centro dell'attenzione, ci andava molto volentieri. Non credo ci fosse qualcosa di sessuale, visto che il soggetto era alquanto frocetto. Fatto sta che il vescovo trovò comodo prendere vari piccioni con una fava.

Fin dal primo giorno di seminario tale pretino fece tutta una serie di strambi discorsi sulla diocesanità, sulla comunità, sulla condivisione, insomma dichiarò pressoché apertamente che desiderava essere circondato da un branco di ipocriti adulatori perennemente intenti a blandirlo e incensarlo, e che avrebbe minuziosamente preso nota - a caratteri rossi cubitali - di chi non gli sembrava abbastanza "comunitario".

Toccò anche a me pagare il quotidiano pizzo di marcar presenza nella sala comunitaria, presenza obbligatoria in diversi momenti della giornata (dopo pranzo, tardo pomeriggio, dopo cena, prima delle liturgie... ogni santo giorno), presenza debitamente segnalatagli dai suoi delatori preferiti quando lui si assentava, che aggiungevano (a volte persino spontaneamente) la ripetuta presenza in camera sua a chiacchierar di parroci, di vescovi e di seminari per ore intere, a volte anche passata la mezzanotte. Quando un prete formatore-animatore di seminario dice con voce melliflua "la mia porta è sempre aperta", significa "guai a chi non viene regolarmente a pascolare in camera mia".

Per cui, guai a me.

Durante una tornata di esercizi spirituali il soggetto, preso da un momento poetico, arrivò a teorizzarci la necessità di un prete di trovarsi una «casa amica», nella quale riparare quando le fatiche pastorali della parrocchia estenuassero il fisico e lo spirito. Evidentemente parlava delle sue «case amiche», di cui una era stata il motivo del suo esilio in seminario, nelle quali lui volontariamente andava a farsi mangiate e dormite con la scusa di venir continuamente invitato (questo genere di debolezze ha due risultati immediati: qualche laico che vanta una specie di diritto di prelazione sul tuo tempo e sulle tue attività di parrocchia, e l'immediata proliferazione delle chiacchiere di paese, a volte persino con ottimo fondamento).

Naturalmente le antipatie che lui maturò il primo giorno di seminario, nessun seminarista se le schiodò più. Incluso il sottoscritto. Che non era stato avvisato dell'obbligo tassativo di marcar presenza dopo pranzo in sala comunitaria per l'obbligatorio cazzeggio idiota da esibirgli insieme all'adulazione. Un paio di seminaristi furono incaricati (o forse caritatevolmente si autoincaricarono) di correre a chiamare subito a raccolta immediata tutti gli assenti, ma ormai il danno era fatto. «Non cura molto l'aspetto comunitario», si ritroveranno nella fatidica relazione di fine anno. La "formazione sacerdotale", per un discreto numero di ore della giornata, consisteva nel simulare entusiasmo e condivisione fraterna. Poi uno si chiede come mai i preti generalmente siano profondamente ipocriti, specialmente quelli ordinati negli ultimi decenni.

E così, quella stessa mano che alle 8:15 mi amministrava la Comunione, venti minuti dopo vergava contro di me nero su bianco generiche ma infamanti accuse sulla mia relazione. Non ho mai potuto leggere il testo di quelle maledette relazioni. Ma ogni anno, quando il vescovo mi chiamava a colloquio, era un camminare sui carboni ardenti.

mercoledì 13 dicembre 2017

Delazioni, cioè il metodo del seminario

L'arma più terribile contro ogni seminarista è la relazione di fine anno, compilata dalla così detta equipe formativa (composta dai preti animatori e dal rettore del seminario) e inviata al vescovo senza che il seminarista ne conosca i contenuti (a meno che non sia un notorio leccapiedi della summenzionata equipe al punto da farsi anticipare i contenuti). Il vescovo, naturalmente, se la leggerà estraendone solo i punti negativi da rinfacciare al malcapitato seminarista.

Vediamo alcuni esempi di cosa i formatori ci scrivono dentro.

Alla disperata ricerca di un pelo nell'uovo, in quella di Augusto scrissero che vestiva sempre orride magliette. Che quelle magliette fossero di colore da pensionato arreso e annoiato (o da prete cinquantenne, che è la stessa cosa), è vero. Ma che ciò intaccasse minimamente la fede o la vocazione, è del tutto discutibile. Il vescovo di Augusto, tutto pensoso, comandò a quest'ultimo di cambiare vestiario, col sottinteso che altrimenti erano guai seri.

In quella di Alfonso scrissero che non si era presentato alla novena intercomunitaria dell'Immacolata (consistente in trenta minuti di canti idioti e un paio di salmi, una delle tipiche paraliturgie inventate dagli annoiati formatori del seminario). In effetti il soggetto si era assentato ben due volte in quella settimana, osservando che almeno metà della comunità - incluso il prete che guidava la comunità - era assente. Quando il vescovo tutto pensoso gli chiese come mai questo punto negativo nella sua relazione, cascò dalle nuvole e rispose: beh, come mai mi contestano per iscritto a giugno una cosa avvenuta a inizio dicembre? in sei mesi non hanno trovato tempo di confrontarsi?

In quella di Domenico addirittura scrissero testualmente: «è stato sentito dire da un seminarista...» Cascò dalle nuvole e chiese al vescovo come mai un generico sentito dire fosse parte integrante della relazione e come mai l'anonimo e innominato delatore meritasse tanta fiducia.

Il fatto è che i vescovi italiani subappaltano uno dei loro compiti più delicati - la verifica delle vocazioni - ad un ente "seminario" incaricato di dare un sì o un no per l'ordinazione sacerdotale, col risultato che i formatori hanno letteralmente il privilegio di distruggere le vocazioni che non vanno loro a genio, ciò che scatena tutta la ridda di ipocrisie e la gara alla mediocrità: il più mediocre e insignificante seminarista, esperto nel docile lecchinaggio senza strafare, abile a fingere moderato entusiasmo per ogni stronzata proposta dai formatori lungo tutti gli anni di formazione, capace di impersonare al di sopra di ogni dubbio la figura del clown parrocchiale, otterrà relazioni entusiaste a fine anno.

Chi invece indossa una maglietta sgradita al formatore, oppure «è stato sentito dire» da uno dei lecchini del formatore, è spacciato.

Il vescovo ha formalmente subappaltato la formazione, per cui se ne infischia di tutti i passaggi intermedi (salvo le fatidiche relazioni). Dunque nel prepararsi al sacerdozio non vale la fede ma la finzione della fede in formato adeguato alla falsa fede dei formatori; non vale la vocazione ma la finzione della vocazione secondo le paturnie dei formatori; non valgono le caratteristiche umane ma solo la mediocrità più assoluta. La maledetta relazione di fine anno può rovinare un seminarista a causa della sua maglietta, o addirittura soltanto con un'accusa generica (tipo: non è aperto al dialogo: che diavolo significa? con "chi" non è stato aperto? con "chi" non ha dialogato?), ed è quella - più che il giudizio di Dio - che i seminaristi devono temere e temono.

Episodio. Il formatore e il rettore si recarono in gran segreto nella seconda metà del mese di luglio dal mio vescovo (oltre trenta chilometri di macchina) per consegnargli la relazione scritta contro di me e aggiustargliela verbalmente (in senso ulteriormente negativo, s'intende). Avevano scelto tale strategia perché non mi volevano in seminario a settembre successivo, e volevano assicurarsi che il vescovo si convincesse a dimettermi.

Quei due mentitori professionisti dell'ipocrisia, appena un mese prima mi avevano salutato con calorose strette di mano e un menzognero ci vediamo a settembre. Sono preti, cioè gente abituata ogni santo giorno a celebrare l'Eucarestia. Mangiando la propria condanna ogni santo giorno. E garantendo che la Chiesa venga rifornita dei peggiori operai per la Messe, i peggiori possibili.

sabato 9 dicembre 2017

Quel rinnegamento si avvicina

E va bene. Stiamo rapidamente raggiungendo il punto in cui il successore di Pietro imita Simon Pietro nel momento in cui quest'ultimo rinnega il Signore.


Intanto le potenze di questo mondo continuano alacremente a preparare a Gerusalemme il trono per l'anticristo.


giovedì 7 dicembre 2017

«Si è preso un periodo di riflessione»

Sicché c'era questo bravo ragazzo con cui in meno di un paio di battutacce sul postconcilio ci ritrovammo grandi amici. Aveva maturato la sua vocazione in uno sconosciuto movimento ecclesiale che tutto sommato non sembrava insegnare stronzate. Lontano da casa e destinato a tornarvi solo a Natale e Pasqua, si era portato nelle valigie le fotocopie delle catechesi del suo movimento, così da studiarsele nel presunto tempo libero. In tre anni riuscì nell'intento almeno una mezza dozzina di volte, visto che il seminario organizza le attività in modo da non lasciarti libero nemmeno il tempo in cui fai la cacca.

Tra grandi amici allergici al frociume culattonio tipico dei seminari si instaura quel rapporto cameratesco definitivamente estintosi dalle caserme militari negli anni '70 e '80. Con l'aria nauseante che si respirava in seminario era un piacere (di più, una liberazione) poter nominare sottovoce qualche patetico episodio della cronaca ecclesiale o della vita di seminario e contornarlo del sacrosanto e meritato turpiloquio. In clandestinità, naturalmente: guai a turbare la quiete del clerically correct del seminario. Ce l'avrebbero fatta pagare cara.

Inutile dire che lo fecero presto esaurire, facendogli pesare ogni più piccola cosa come se fosse una grave disobbedienza. I ministri di satana conoscono bene questa debolezza delle persone devote (e, in quanto tali, sostanzialmente incapaci di ipocrisia): basta agitare lo spettro della disubbidienza e queste si mettono in riga, con fatica oggi, con più fatica domani, con estrema fatica dopodomani, per infine sbroccare estenuate dando loro l'opportunità di scacciarti via restandone con le mani pulite. Non a caso, già dal primo anno, avevamo capito - ironizzandoci quotidianamente, consci che era quello il principale ostacolo da schivare - che nel gergo seminaristico l'espressione «si è preso un periodo di riflessione» significava invece «lo hanno fatto fuori».

Verso il terzo anno non ne poté più. Si arrese e annunciò - di punto in bianco durante una riunione di preghiera del seminario - di aver deciso di lasciare, di prendersi «un periodo di riflessione». Avvenne in primavera, gli sarebbe bastato resistere altri due mesi, ma lui non ce la faceva più nemmeno a resistere due ore. La gioia dei capicosca della mafia clericale era palpabile, perché anziché piantare un casino il giovanotto si era spontaneamente dichiarato in "periodo di riflessione", cosa che ufficialmente li assolveva poiché se la vittima non ha il coraggio di dire che i suoi carnefici lo hanno massacrato in ogni modo fin dal secondo giorno, significa che i carnefici possono sentirsi lindi e candidi e con un buon alibi da esibire agli uomini (illudendosi che valga anche davanti a Dio... qualora credano davvero in Dio).

Ci ripromettemmo di sentirci telefonicamente di tanto in tanto, anche se già sospettavo che appena messo piede fuori avrebbe voltato pagina e seppellito ogni ricordo. Gli feci anche promettere di non mettere da parte il desiderio di vivere il sacerdozio perché da qualche parte il suo percorso avrebbe potuto continuare senza la torchia della mafia pretesca, ma mi disse di sì solo per accontentarmi.

Ad essere del tutto sorpreso fu il suo vescovo, al quale appena pochi mesi prima lui aveva detto che tutto sommato le cose andavano bene (le relazioni sul suo conto erano meno acide delle mie). Il panciuto vescovo avrà avuto un sussulto: "ohibò, ha deciso che non era la sua strada? E non poteva avvisarmi? Le vocazioni oggi sfumano in un nonnulla... magari chiedo a qualche parroco di fare qualche veglia vocazionale".

No, caro monsignor Snorlax, sei tu ad aver torto marcio su tutta la tua donabbondiana linea. Prima di tutto avresti dovuto tu correre da lui, da quel povero giovane, quantomeno per dirgli le cose che invece gli ho detto solo io. Sei tu il vescovo, dunque hai un dovere di "paternità" nei suoi confronti, qualunque sia l'esito del suo percorso vocazionale - e ce l'avevi fin dal momento in cui lo hai accolto, e ce l'avevi ancor di più quando lo hai rifilato ad una struttura aspettandoti una relazione finale "ordinabile / non ordinabile", come se la formazione al sacerdozio fosse un semilavorato industriale.

Dovevi esser tu a rintracciare la pecorella che è a rischio di perdersi, e specialmente alla luce del fatto che fino a quel momento te ne eri infischiato di ciò che avveniva in quella catena di (s)montaggio dovevi assolutamente capire personalmente cosa si è inceppato. Due minuti in privato con lui ti avrebbero fatto capire che il seminario gesuitante gesuitogeno a cui lo avevi affidato ha lo scopo diabolico di distruggere le vocazioni sane, e di far andare avanti quelle false e ipocrite, mezzi uomini campioni di mediocrità e che considerano il sacerdozio un mestiere e la fede un elenco di discorsetti mielosi. Invece no, le tue auguste chiappe continuavano a scaldare quella sedia, in attesa della megacelebrazione domenicale dove avresti esalato i soliti luoghi comuni politically correct per mettere a posto la tua coscienza e illuderti di avere un buon alibi per il giudizio finale (qualora tu ci creda davvero, nel giudizio finale).

Sono anni che non ho più avuto notizie di quel caro vecchio amico, del quale mi rimane solo qualche simpatico episodio da raccontare e due numeri di cellulari tristemente obsoleti. In compenso grazie a wikipedia conosco il deprecabile nome di quel vescovo, chiedendomi se in punto di morte capirà di aver letteralmente sbagliato tutto per una vita intera.

venerdì 1 dicembre 2017

Quale esagerazione?

Sempre la solita domanda retorica: ma non ti sembra di essere esagerato?

No.

Ho colto il vescovo a mentirmi. Sapeva che io sapevo. Gliel'ho fatto notare e sono stato persino gentile con lui - ed è questa l'unica cosa di cui dovrei pentirmi. Avrei dovuto battere sul ferro finché è caldo, e dirgli: eccellenza, lei è il mio vescovo, lei mi è padre, lei è la prima persona al mondo che dovrebbe avere a cuore la mia vocazione e la mia fede: perché mi sta mentendo?

Anche il rettore del seminario, che mi diluviò di paroloni insignificanti per non dare a vedere di aver mentito e di essersi puntualmente, sistematicamente, continuamente rimangiato ogni parola data, si tirò indietro. Per esempio, dopo che inventa regole per rinfacciarmi di non averle seguite glielo faccio notare con gentilezza insieme alla sorprendente differenza di trattamento subita da me rispetto agli altri, svicola: eh, no, ora non "giuridicizzare". Anche lì, per lo stesso malinteso ingenuo spirito di ubbidienza, non ho alzato la posta. Ma come? Se si tratta di mettermi nei guai, lui "giuridicizza", e quando gli faccio notare qualcosa, mi accusa di "giuridicizzare"? (il caso in questione: di me si diceva che andava pressoché tutto bene, ma trovavano sempre il pelo nell'uovo per bloccarmi il percorso, mentre di altri - che avrebbero dovuto cacciare a pedate il primo giorno - dicevano "crescerà". Dunque se non hai fede, se la tua vocazione consiste solo nell'aristocratica brama di prestigio dei tuoi familiari, se sei ignorante e scansafatiche, se sei arrogante e capace di grandi e numerose piccinerie, se sei tutte queste cose, beh, sei buono per il sacerdozio, perché si presume automagicamente che "crescerai").

Alla lista devo aggiungere anche il parroco a cui ufficialmente avevano chiesto un ultimo parere su di me. Costui dopo avermi rassicurato per tutto un anno che le cose andavano bene e che avrebbe speso una buona parola per me, alla fine della giostra si tira fuori dicendomi - mentendo - che il suo parere non era vincolante.

Questa Chiesa ha deciso di castrarsi, espellendo gli unici seminaristi che domandavano il sacerdozio a causa del fatto che desideravano vivere la vita sacerdotale, e tenendosi invece quelli con esaurimento nervoso, problemi di alcolismo, frocerie, culattonerie e ricchionerie più o meno represse, incapacità intellettuali e umane preoccupanti, e soprattutto l'idea - straordinariamente diffusa - che il sacerdozio consistesse nel mestiere di parroco. Col risultato che per tutti gli anni del pre-seminario e del seminario e del post-seminario, il discorso che non mancava mai ogni giorno, ogni mattina a colazione, ogni pranzo, ogni cena, ogni dopocena, ogni intervallo tra due ore di lezione, ogni minuto di attesa di inizio di celebrazione, tollerato e talvolta addirittura incoraggiato dalli superiori, era sempre lo stesso: quando mi fanno parroco, io poi faccio qui, faccio lì, poi se le cose vanno bene chiedo di essere mandato in una parrocchia più grande, poi se mi danno un incarico in curia, ma io vorrei anche insegnare oltre a fare il parroco, poi, se mi fanno vescovo, quando mi fanno vescovo, io da vescovo farei così, se io fossi il vescovo farei cosà...

Tutto un fare, fare, fare. Un mestiere. Ero tra i pochi - quando non l'unico poveraccio - in seminario (e in preseminario e in postseminario), a pregustare il momento in cui i cieli e la terra si sarebbero toccati per quella formula di consacrazione dalla mia semplice voce. Ero l'unico a immaginarmi alle 23 seduto in confessionale a leggere qualcosa, e arriva per caso uno che le circostanze della vita lo hanno indotto a fare il gesto del figliuol prodigo. Ero l'unico a pregustare i momenti in cui avrei sparso a piene mani (mani sacerdotali) benedizioni anche su gente distratta. Ed ovviamente ne parlavo poco o nulla coi miei compagni, perché non si potevano dare perle ai porci, perché erano infinitamente più contenti quando tiravo fuori qualche seriosa espressione - per lo più intesa solo a spercularli - del tipo: un parroco non può stare in mezzo alla gente se ha l'incarico di insegnare all'Istituto di Scienze Religiose, tuttavia l'insegnamento nell'ISR è comunque un modo di fare pastorale... E loro, che non amavano la ragione ma solo i costrutti semantici A-B/B-A, gioivano e riprendevano i loro mielosi discorsetti: è vero, quando sarò parroco - spero presto - cercherò, farò, vedrò, bilancerò la pastorale, saprò regolarmi, curerò la diocesanità... (e per la cronaca, una volta divenuti parroci, al di là del rifilare prediche non hanno fatto altro: "armiamoci e andate" è il loro motto, ognuno scegliendosi qualche hobby piccino piccino con cui spendere il proprio tempo perché il mestiere del parroco si è rivelato terribilmente noioso e irto di rogne).

Le miserabili scuse con cui il vescovo, rettori, formatori, fino agli ultimi incaricati di dare un parere, hanno abortito la mia vocazione, sono sempre state una maledizione contro di loro, andata ben al di là del tasso ridicolo di abbandoni, infedeltà, pasticci, disubbidienze, guerre, e altri abbandoni, commessi dai miei compagni di seminario che a furia di "crescerà" sono stati portati al sacerdozio.

Ma il saperlo non mi ricompensa per nulla, perché anche qualora questa Chiesa "postconciliare" sprofondasse, non mi sentirei per nulla risarcito o giovato.