giovedì 27 novembre 2014

Di quando riportai (due volte in tutto) i vasi sacri in sagrestia

Avvenne nella parrocchia del vicario generale (eh, già, qui i preti amano cumulare gli incarichi).

Il vicario mi disse di sentirmi libero di collaborare alla liturgia (tradotto dal linguaggio clerico-stalinista, l'espressione suona così: "guai se non mostri almeno una qualche collaborazione, non so che tipo di collaborazione, invèntati tu qualcosa per mostrare a tutti - me compreso - che stai collaborando: altrimenti... guai").

Per la cronaca, almeno fino all'accolitato non c'è nulla che un seminarista possa fare al posto di un qualsiasi altro laico, e io ero ancora ben lontano dall'accolitato... Avendo notato che al termine della Messa si ritirava in sagrestia, mi feci vedere che sparecchiavo l'altare dopo che lui era rientrato.

Solo che commisi un piccolo errore di ingenuità. Con devozione raccoglievo calice, patena e tutto e li portavo in sagrestia con una mano sotto il calice e una allo stelo. Come nelle immaginette di tanti santi sacerdoti. Lo feci istintivamente, senza aver deliberatamente deciso di farlo. Dopo aver visto un'immaginetta di un sacerdote tanti anni addietro (e che non ricordavo più), avevo appreso senza ombra di dubbio come vanno trattati i vasi sacri che fino a pochi minuti prima hanno ospitato il Corpo e il Sangue di Cristo.

La devozione interiore viene notata più velocemente di quella affettata e ostentata. Dopo la seconda o terza volta qualcuno dovette denunciarmi al parroco-vicario per lesa maestà dello spirito del Concilio. Fu così che dopo una Messa il parroco, un attimo prima di rientrare in sagrestia, tornò indietro - mentre io già mi avviavo all'altare - per dirmi: lascia, lascia, ci penso io. Da allora in poi ci ha sempre pensato lui. Naturalmente non con devozione, ma con l'aria di chi raccoglie le proprie vecchie carabattole.

Hanno talmente in odio il sacerdozio preconciliare che sono disposti perfino a rinunciare ai loro tipici gesti di pigrizia liturgica.

sabato 22 novembre 2014

Ministri straordinari

Tanti preti andrebbero arrestati e incarcerati perché si rifiutano di compiere il loro dovere principale: amministrare i sacramenti.

Per esempio si stufano di distribuire l'Eucarestia nella Messa. Celebrano a velocità di moviola la liturgia della Parola e poi a velocità bi-turbo la liturgia eucaristica. Al momento della comunione dei fedeli, fanno intervenire strana gente a distribuire le particole. C'è la vecchia suora. C'è il pensionato incravattato. C'è il giovanotto tuttofare. C'è la casalinga di carriera (carriera parrocchiale). E infine c'è anche il seminarista.

Quando venni mandato dal parroco ciccione, appena dopo le presentazioni lui dichiarò gli incarichi che voleva affidarmi. Aggiunse subito: "e poi c'è da dare una mano con la Comunione".

Avrei voluto prenderlo a pedate, sonore pedate. Invece, sorridente e delicatamente gli dissi quasi belando: "ma il vescovo non vuole". Mentre lo dicevo mi resi conto che non gliene importava niente e che la lancetta della pressione nella caldaia già era in rosso, così aggiunsi subito: "non me la sento di prendere un altro cazziatone dal vescovo". Lui rispose con un "va bene", tentando di nascondere la seccatura, e non riuscì a trattenersi dal dire che quando me la sarei sentita di farla, la cosa sarebbe stata la benvenuta.

Benvenuti nel postconcilio: epoca in cui i preti si stufano di fare i preti e demanderebbero volentieri ai laici di fare tutto ma proprio tutto, tranne l'omelia (e a volte, stufi della vita, rinunciano anche a quella). Arriva il seminarista? Lo faccio agire da diacono: così ottengo il triplice scopo di tenere un po' sulle spine i ministri straordinari (comodi ma invadenti), di lusingarlo facendolo giocare a fare il prete, e di liberarmi della seccatura di amministrare il Santissimo Sacramento ai fedeli.

lunedì 17 novembre 2014

Chi è avido di significati e chi pretende di assegnarli

La ragione per cui in seminario ero detestato (per dirla con termini gentili) era la mia invincibile passione per le verità di fede e i loro inevitabili effetti. Mi aveva appassionato una conferenza di Filippetti su Giotto, al punto che avevo comprato più copie del catalogo della sua mostra allo scopo di regalarle a chi le avesse potuto almeno apprezzare. Infatti quelle copie restarono nella mia cameretta per tutto l'anno di seminario e tornarono tristemente a casa: la prima copia, quella che mostravo ai seminaristi, non sollevava più di qualche "ah, uhm, bravo, bene".

I seminaristi avevano un'agghiacciante insensibilità verso la bellezza. Erano magari perfino capaci di citare e lodare l'espressione "il bello è lo splendore del vero", ma non scorgevano alcuna differenza fra un canto gregoriano e un Symbolum '77, non trovavano nessun motivo per preferire una Natività di Giotto ad uno scarabocchio di un bambino capriccioso, non ci trovavano niente di strano ad usare come spunto di preghiera e riflessione una scultura più simile a una cagata di cammello che ad una Pietà di Michelangelo. Ed infatti erano capaci di inginocchiarsi davanti a tutto e di dimenticare sistematicamente di inginocchiarsi davanti al Santissimo.

La differenza tra me e loro era proprio in questo: loro erano abituati ad assegnare significati all'arte "sacra" (addirittura a caso e al limite del frivolo), laddove io ero abituato a cercare i significati (sorprendendomi ogni volta che scoprivo qualcosa della fede tradizionale, e sorprendendomi ancora di più quando nelle opere "moderne" trovavo o il vuoto, o l'aberrante). Non a caso le poche amicizie che avevo in seminario erano inevitabilmente coi figuri che avevano ancora un minimo di sensibilità al bello, ed era una vera vittoria ascoltare da qualcuno di loro espressioni come: «però in fondo hai ragione, sarebbe più bello se facessimo la meditazione su questa Natività di Giotto». Cioè augurarsi che la spiritualità del seminario si rifacesse a qualcosa che già contiene il bello, piuttosto che da un'«opera» pescata a caso ed a cui veniva assegnato d'imperio il significato che noialtri dovevamo ubbidientemente percepire.

giovedì 13 novembre 2014

Quando ci mandarono l'esperta di celibato

Una volta in seminario una giovane suora (munita di chitarra) venne invitata a tenerci una lezione sul celibato - e no, non parlò di come star lontani dalle tentazioni del corpo e dell'anima, ma dei tecnicismi sentimentaloidi che aveva scritto nella sua tesi di dottorato teologico - e la chitarra le era necessaria perché alcune cose le avrebbe espresse cantando e facendoci cantare.

Quando un prete "cade" (cioè si stufa del sacerdozio perché vorrebbe vivere con una donna), i suoi confratelli si lamentano: "andava aiutato, bisognava aiutarlo prima, si capiva bene che era in crisi sacerdotale e non si è fatto nulla per aiutarlo" (notare l'uso spasmodico di verbi in forma impersonale: nessuno si prende responsabilità, tutti se ne lavano le mani).

E dunque, come misura preventiva, si invita un'esperta di celibato a spiegare che tal sconosciuto teologo e tale autoimprovvisato mistico hanno detto che il celibato è sublimazione di non si sa cosa ed è libertà da non si sa che. Perbacco, una donna in seminario (benché suora), giovane (beh, sulla trentina abbondante)... ma no, i seminaristi non stanno coltivando pensieri cattivi: i più tra loro non provano attrazione per le donne, la maggioranza è impegnata a simulare un'espressione attenta, a cercare di prendere appunti per porre una "domanda intelligente", a farsi notare dall'animatore nella speranza che quest'ultimo scriva nella relazione di fine anno: "il seminarista ha partecipato con interesse a tutte le iniziative previste dal seminario".

martedì 11 novembre 2014

Per la barba del profeta!

In seminario c'era un mingherlino con una barbetta stile Ramsete II, un paio di occhialini stile fondo di bottiglia e una dedizione inossidabile al dialogo con l'islam. Al vederlo si direbbe che avrebbe preferito rinnegare Gesù piuttosto che Maometto: ma alla fine della giostra lui è stato ordinato sacerdote e io no.

Quasi prevedendo questa evenienza mi permisi uno scherzettino innocentino. Presi un'immaginetta di Bin Laden e ci appiccicai su la sua faccia. Con un po' di photoshop il lavoretto venne alla perfezione. Al posto di "Laden" scrissi il suo cognome (con una splendida assonanza).

Seduto nell'ultima fila dell'aula, in attesa del professore di Pastorale Giovanile perennemente ritardatario, chiamai a me il seminarista più ciarliero del seminario e gli dissi: ti fo vedere una cosa sul mio computer portatile ma devi mantenere il segreto...

Pochissimi istanti dopo una folla di seminaristi accalcati dietro di me condividevano le grasse risate: uàh, uàh, uàh! - tanto che il professionista del dialogo con l'islam dovette far fatica per scrutare almeno da lontano l'opera d'arte.

Quando il professore entrò sbraitando per il chiasso chiusi immediatamente il computer. Ci volle qualche minuto prima che le risate e i complimenti cedessero il posto alla lezione.

Il dileggiato in cuor suo meditò le più feroci vendette, e al termine della lezione  corse dal rettore e dall'animatore a denunciare il terribile misfatto. La sua foga però dovette costargli in credibilità, perché la faccenda non mi fu mai obiettata - a quanto pare nemmeno nelle sovietiche "relazioni di fine d'anno". Può darsi che al suo fallimento abbia contribuito molto la sua notoria profonda empatia verso l'islam.

Aveva sulla scrivania il Corano accanto alla Bibbia. Gli si accendeva una strana luce negli occhi quando si parlava dell'islam. Spesso nella "preghiera dei fedeli" - cioè nelle omelie spontanee obbligatorie durante le liturgie delle ore e della Messa - tirava fuori qualche concetto musulmano sotto le mentite spoglie del "ieri al gruppo ecumenico..."

Il seminario è un ambiente talmente chiuso e soffocante che al puro scopo di gridare "ehi, esisto anch'io!" tanti seminaristi si inventano qualche bizzarra peculiarità per distinguersi dagli altri: e costui si era autoinvestito del compito di spacciarsi per professionista del dialogo con un islam immaginario.

sabato 8 novembre 2014

Anche il sangue

Quando un seminarista si lamenta della vita di seminario o addirittura dei superiori, la prima tipica reazione è quella di qualificarlo come un pigro lavativo scansafatiche che si rifiuta di obbedire. Per mia colossale fortuna assistei in diretta a questo fenomeno il primissimo giorno di pre-seminario e quindi mi imposi di ubbidire sempre e a qualunque costo.

Una volta il superiore della casa mi comandò dei lavori pesanti nonostante io fossi visibilmente abbattuto da altri lavori pesanti. Da fare prima della preghiera. Andai lesto a fare quel che mi era comandato. Senza attrezzi e col fiato del superiore sul collo, mi ferii fino a sanguinare. Il superiore era imbestialito per la fretta e quindi non potendo fermare per medicarmi, mi leccai di nascosto le ferite per evitare di sembrargli uno scansafatiche pigro lavativo ritardatario disubbidiente (posso assicurare che non avevo altra scelta).

Ma è giunta l'ora della preghiera! Presto, presto, corri, corri, in camera, il breviario, giù di corsa in cappella. Il superiore aveva cominciato la preghiera con un minuto di anticipo, in modo da farmi risultare in ritardo (il Signore saprà come premiarlo per questo episodio e per tutti gli altri dello stesso genere).

In tutta sincerità posso dunque dire che per la mia vocazione ho dato anche un po' del mio sangue, e non è servito a niente.

Gli ostacoli sul mio percorso vocazionale sono stati infatti i formatori con le loro peculiari idee sul sacerdozio, sulla formazione, sulla spiritualità sacerdotale, ecc.

mercoledì 5 novembre 2014

Incidente liturgico

Una volta diedi un'occhiataccia feroce a un commilitone. "Vino?" gli chiesi ripetendo la sua ultima parola, "vino?!" E lui finalmente capì e si corresse: "sì, il Sangue di Cristo, sì".

Questo commilitone aveva capito bene l'andazzo e per mettersi in mostra... imitava i preti che intuiva desiderosi di essere imitati (in compenso chiamava "vino" il Vino consacrato). Una delle prime pessime abitudini - con soddisfazione del parroco isterico - fu quella di comunicarsi "come i diaconi": ricevere il Corpo di Cristo dopo la frazione del pane (prima della distribuzione ai fedeli) e poi anche comunicarsi al calice (mentre i "ministri" straordinari si preparavano a distribuire al popolo).

Sennonché una volta avvenne un piccolo incidente liturgico. Durante una concelebrazione un concelebrante si attardò e il commilitone mise mano al calice, poi si girò verso di me e porgendomi il calice mi disse di consumare quel che restava. Preso di sorpresa e ignorante per la giovane età ubbidii, quindi deposi il calice con la massima devozione, e tornai verso il mio posto un paio di metri più in là. Ma ancor prima di sedermi il concelebrante ritardatario, trovato il calice vuoto, mi stava fulminando coi suoi occhi infuocati. Dev'essere alquanto imbarazzante per un prete concelebrare e poi fare la Comunione solo sotto le specie del pane.

A suo tempo ne fui particolarmente dispiaciuto (e mi confermò nel proposito di non fare nella liturgia ciò che non è assolutamente certo che sia da fare). Oggi invece racconto l'episodio con un sorriso amaro, pensando che i preti deficienti prima vogliono che i seminaristi siano loro cloni nelle pagliacciate e poi quando ne pagano lo scotto si infuriano contro un innocente.