venerdì 31 ottobre 2014

Via la vocazione, via la fede?

Molti pii preti sanno che quando un giovane viene ingiustamente espulso dal seminario, rischia poi anche di perdere la fede (gli altri, meno pii, semplicemente abbandonano di punto in bianco la pratica della fede).

"Ingiustamente" significa che i motivi della dimissione non riguardano né la vocazione, né la vita morale, né la salute fisica/mentale.

Le cose vanno sempre allo stesso modo: i formatori del seminario prima cominciano sottilmente a farti capire che vogliono espellerti, poi tu ti umili in ogni modo per rabbonirli, ma loro continuano ad alzare il prezzo e a farti capire che la tua fine è vicina, tu ti umilii ancora di più per salvare il salvabile, e in ogni caso alla fine trovano una scusa ridicola e assurda per mandarti via. Col benestare del vescovo, anzi, con la sua connivenza (garantisco che sono parole scelte con carità). Risultato inevitabile: con tutta la buona volontà, non riesci più a fidarti dell'autorità della Chiesa.

Non riesci più a fidarti dell'autorità della Chiesa perché a poco a poco scopri tutta la meschina disonestà con cui ti hanno spazzato via. Vedi tutti gli inganni che hanno messo in azione contro di te, tutte le mezze verità e le totali menzogne, tutti i sotterfugi, i legalismi, le nuove regole retroattive su misura per inguaiarti... Vedi che coloro che ti dovevano proteggere si sono accordati per distruggerti e hanno proseguito ad ogni costo sino alla fine: come fidarsi di loro? Come fidarsi di gente che ti sorride, che ti predica il Vangelo, che ogni giorno ti amministra la santa Comunione, e contemporaneamente lavora per metterti nei guai? Come fidarsi ancora di chi nella stessa ora con una mano ti amministra la Comunione e con l'altra mette per iscritto calunnie sul tuo conto? (non è un eufemismo)

Non riesci più a fidarti dell'intera Chiesa perché vedi che tutta la mafia clericale, quando si tratta di sopprimere una vocazione, agisce come un sol uomo (è una indiretta dimostrazione dell'esistenza e dell'opera del demonio). Dovunque vai a chiedere aiuto, trovi solo dei don Abbondio che in privato magari si stracciano le vesti per l'ingiustizia e ti sommergono di parole di conforto e di promesse, ma in pubblico non ce la fanno nemmeno a emettere un sommesso belato. Loro per primi si rendono conto che la cricca dei formatori di seminario, la casta curiale, i miniclub preteschi, al pari dei clan mafiosi evitano di pestarsi i piedi a vicenda e - quel che è peggio - il vescovo non ha alcuna intenzione di contraddirli.

Non riesci più a fidarti della Chiesa perché ovunque vai - altra diocesi o altra congregazione - la prima cosa che fanno è informarsi su di te facendosi riportare per iscritto le idiozie che i tuoi ex formatori hanno vergato contro di te: lo sanno bene che sono idiozie, ma «scripta manent», e per questo ti tocca sostanzialmente ricominciare daccapo la formazione, perché tu - imputato di crimini inesistenti - devi dimostrare di essere innocente di quei crimini. E devi dimostrarlo a dei soggetti non dissimili da quelli che ti hanno annichilito. Così ricomincia tutto il supplizio di Tantalo perché i nuovi formatori, grazie a quelle vecchie carte, sanno di potersi lavare le mani di qualsiasi cosa faranno contro di te.

Una grande fortuna è di venir espulsi dal seminario (o meglio: aver motivazione e coraggio di abbandonarlo, in modo da non farsi troppi nemici) verso il primo o secondo anno, in modo da poter andare a piagnucolare presso un'altra diocesi - o anche una congregazione religiosa o di vita apostolica - con più speranza di convincere gli interlocutori che ci sono state "gravi ma superabili incomprensioni" (eufemismo per dire che quel vecchio branco di coglioni pretendeva di misurare la tua vocazione al sacerdozio a partire da cose come il femmineo servilismo dei loro figliuoli prediletti). Sicuramente è dura ricominciare tutto daccapo, ma almeno hai perso solo qualche anno.

Il guaio è quando hai fatto già tre o quattro anni di seminario: più passa il tempo e meno diventi convincente. Uno che venisse espulso al quinto anno, farebbe sollevare più di un sopracciglio curiale: ti guarderanno pensando: «ma sei un pedofilo? uno stupratore seriale? un assassino nazista? è altrimenti impossibile che qualcuno venga dimesso dopo così tanti anni di seminario... come può mai essere che un vescovo si liberi di un seminarista dopo così tanta formazione già fatta?»

Di fronte alle ingiustizie accanitamente perpetrate contro di te dagli uomini di Chiesa (e tanto più quando riguardano la tua vocazione - contro la quale possono commettere ingiustizie restando impuniti, poiché è l'autorità della Chiesa a vagliare la tua vocazione, non tu), rischi davvero di abbandonare la Chiesa.

Episodio 1.

Dopo che il vescovo ingiustamente interruppe la mia formazione (ne pagherà salatissimo conto al Signore, e per sua gigantesca fortuna ha già cominciato con la prima rata), un pio sacerdote mi organizzò d'urgenza un colloquio con certi tizi dediti al formare laici consacrati.

Con evangelica decenza gli risposi: «'sto cazzo!» Se avverto la chiamata al sacerdozio, significa che mi sento chiamato al sacerdozio, non a fare il mestiere di "diacono [con la] permanente" e tanto meno il laico consacrato. Non ho bisogno del contentino.

Se la futura sposa ingiustamente ti manda a quel paese, tu non riuscirai mai a consolarti vita natural durante con una bambola gonfiabile.

Episodio 2.

Il vescovo, dopo che avevo obiettato alle false accuse contro di me, mi rispose che non dovevo criticare i formatori del seminario, che sono coloro che Dio ha stabilito per vagliare la mia vocazione. Quindi proseguì la lettura della relazione che avevano scritto. Nella frase successiva c'era l'ennesima stangata.

"Eccellenza, siamo a luglio: come mai quest'accusa a mio carico che riguarda presunti fatti di dicembre scorso la veniamo a sapere soltanto adesso e soltanto per iscritto?"

Episodio 3.

Al telefono rispose direttamente sua eccellenza. Mi disse: «sì, ti dico subito che per ordine della CEI io non prendo seminaristi da fuori diocesi, ma se vuoi venire a parlare con me ci possiamo incontrare ugualmente».

A che serve incontrarmi se hai già detto che non vuoi accogliermi?

martedì 28 ottobre 2014

Quando valgono solo le mazzate

Contra negantem principia fustibus est argumentandum. (san Tommaso d'Aquino)

Contro chi nega i più elementari princìpi, si può argomentare solo a randellate.

lunedì 27 ottobre 2014

Turni e scansafatiche

E così ci dividemmo i turni. Ma naturalmente il superiore era sempre fuori per impegni pastorali. Il suo prediletto, per imprecisati motivi di salute, scansava tutte le fatiche e faceva male quelle che non gli piacevano. Noialtri ci dovevamo dividere gli assegni mancati.

Uno dei giovani preti era pure impegnato negli studi, per cui cominciò a saltare i suoi turni. La prima volta ne fui seccato: la seccatura però mi fece riflettere e perciò cominciai spontaneamente a impegnarmi al posto suo. Non so se si sia mai veramente accorto del mio gesto, poiché il chiedermi spiegazioni sarebbe stato un autoaccusarsi. Quando avrebbe potuto darci una mano per le pulizie, gli dicevo: no, ci penso io, no, siamo già organizzati, non preoccuparti, torna pure a studiare. Feci perfino un po' di fatica a fargli capire che ero sincero. Volevo contemporaneamente liberare di un inutile peso un sacerdote e nel frattempo creare abbastanza "incidenti di percorso" per far notare al superiore che erano più i privilegiati esonerati (chi per un valido motivo, chi no), che gli effettivi impegnati.

Naturalmente il superiore stesso, tutto preso nel concedere favori e privilegi al suo prediletto, fece finta di niente. Troppo comodo farci sgobbare come schiavi ostentando perfino l'alibi di credere che i turni venissero rispettati. In nome del suo giovanotto prediletto era disposto a chiudere non uno ma due occhi sul fatto che anche il giovane prete (che non godeva certo delle sue simpatie) scansasse i turni di servizio.

Contrariamente a quanto recitano gli untuosi libretti devozionali settecenteschi, la Chiesa non ha bisogno di superiori sadici. Riescono non solo a devastare le comunità, ma anche ad insegnare i peggiori vizi: come quello di fare strettamente ed esclusivamente (e ostentatamente) il proprio dovere. Per di più, quando un superiore interpreta la carità come debolezza, a lungo andare non riesci più ad essere caritatevole: diventi un burocrate come gli altri. Il superiore cala la mannaia dei turni di servizio, e gli inferiori rispettano il minimo indispensabile facendo notare tutte le volte che per colpa di "qualcuno" sono costretti a faticar di più. Proprio come nei tempi d'oro dell'Unione Sovietica.

domenica 26 ottobre 2014

Il telefono è pubblico

Prima della diffusione dei telefonini, nei seminari c'era una cabina telefonica a gettone. Racconto un episodio della fine degli anni '90 occorso ad un seminarista che era dotato di telefonino ma si guardava bene dall'utilizzarlo in camera perché "anche i muri hanno orecchie" e perché per le telefonate urbane era più conveniente andare a gettoni.

L'episodio: un seminarista grande e grosso picchiò col pugno sulla cabina telefonica gridando: "il telefono è pubblico!" poiché il malcapitato era giunto già al quinto minuto di telefonata. Il malcapitato era del primo anno, e perciò non conosceva ancora i nomi del centinaio di seminaristi: per denunciare l'accaduto al rettore avrebbe dovuto chiedere aiuto, cioè vincere il muro di omertà (solo dopo avrebbe scoperto che quel ragazzone alto e grosso era il responsabile dei turni, capace di piantarti in servizio liturgico in tutte le occasioni più rognose, come le fastidiose celebrazioni solenni in tempo di esami o a ridosso delle vacanze).

L'aria di seminario è come quella delle caserme militari poco prima che i generali chiedessero l'abolizione della leva obbligatoria: episodi di nonnismo, di mobbing, di dispettini e vendettine infantili, di omertà... il seminario a prima vista sembra solo un college di ragazzini (età anagrafica: adulti e magari anche sopra i trent'anni; età mentale: tredicenni; dose di malizia: da alcolisti cinquantenni navigati).

Si entra in seminario tutti pieni di belle speranze, e poi l'ossessiva necessità di non sfigurare coi superiori genera il circolo vizioso: tutti nemici di tutti, tutti controllori di tutti, tutti a fingere devozione ed entusiasmo per ciò che va di moda al momento... e così il seminario diventa un casermone di apparenza sdolcinata.

Vita liturgica in seminario

Oh, no! Il momento più tragico della settimana: la domenica pomeriggio, l'ora di rientrare in seminario.

Si ricomincia con quei vespri trascinati e interminabili... domattina le lodi altrettanto lente e la meditazione obbligatoria (cioè permanere in cappella sotto lo sguardo vigile e pignolo dell'animatore: e guai se scorge una tua espressione del volto che non sia di feconda spiritualità sospirante e riflessiva)... alle 12:30 l'ora media col freno a mano innestato... la preghiera prima del pasto con l'omelia del rettore... l'incontrino per "preparare" la liturgia solenne della sera (solenne, cioè al rallentatore: guai se dura meno di un'ora e mezza, perché deve contenere anche i vespri), ovviamente obbligatorio per tutti, perché bisogna distribuire quanti più incarichi è possibile e bisogna fare qualche "prova di canto" di quelle sbobbe parrocchiarde inascoltabili... e quindi la messa alla moviola, con i canti fracassoni e svogliati, con la sfilata di moda dei doni all'altare, con l'incaricato dei "segni" (cioè cartelloni e idiozie varie), l'incaricato della sagrestia, l'incaricato del coro, l'incaricato della processione d'ingresso... e per non farci mancare nulla, anche la compieta diocesana, affinché fuori si sappia che noialtri siam bravi ragazzi che «curiamo anche la diocesanità» (un gesto ipocrita perché tutti ne faremmo volentieri a meno, ma nessuno è così autolesionista da farlo notare)...

Sembra che tutti i nostri formatori vogliano che si pensi che in seminario le giornate durano davvero 48 ore ciascuna. La breve liturgia delle lodi (due salmi e un cantico) si riesce a farla durare normalmente 50 minuti, cantando e cantillando in slow motion i salmi, aggiungendo le "invocazioni" personali (trasformandole in "preghiere dei fedeli", ossia in omelie personali: e guai se non ci sono almeno cinque o sei volontari a sciorinare qualche trita banalità politically correct nominando "il Signore" alla fine), facendo una considerevole pausa di meditazione silenziosa dopo la lettura del versetto, e concludendo con un supplemento di preghierine "invocatorie" (cioè un'altra razione di banalità clerically correct), e guai a chi esce subito dalla cappella.

La stessa scena fantozziana si ripete all'ora della celebrazione dei vespri: e pensare che la riforma liturgica aveva drasticamente ridotto la liturgia delle ore da nove salmi a due salmi (opportunamente accorciati) e un cantico, proprio perché i novatori non avevano più voglia di pregare. In seminario la liturgia farraginosa ottiene solo due risultati: da un lato ti fanno odiare il breviario, dall'altro ti insegnano l'ipocrisia (pregare da soli i vespri in cinque o sei minuti, e però se si è in compagnia li si trascina per almeno mezz'ora per sentirsi poi dire: "ma come sei frettoloso").

L'altra bislacca invenzione è la messa con le lodi incorporate: dopo il segno della croce si attacca coi salmi per poi proseguire con le letture della messa, le invocazioni diventano la preghiera dei fedeli, il Benedictus o il Magnificat cantato prima della benedizione, un guazzabuglio liturgico non autorizzato da nessuno, che consolida l'idea che i futuri preti possono sperimentare e inventare: se in seminario si faceva così, perché mai non dovremmo fare cosà?

Tutto questo avviene ogni santo giorno: i giorni "feriali" trasformati in "feste" liturgiche - per un santo di cui si apprende l'esistenza solo scavando nella sezione apposita del breviario, all'improvviso si organizza una liturgia obesa e gonfiata: paramenti bianchi (in seminario i preti metterebbero il bianco 365 giorni l'anno, il bianco te lo fanno odiare - e comunque "paramenti", in seminario, significa "tendaggi economici riciclati a mo' di poncho messicano, ossia casula postconciliare), fiori, "segni", gesti, cartelloni, illuminazione soffusa, seduti a terra sulla moquette disposti in cerchio, canti speciali provati per l'occasione (con ulteriori 30-40 minuti di perdita supplementare per "impararli" e provarli), il responsabile delle fotocopie che si affanna a tagliare i fogli appena fotocopiati (sgrigiati dall'eccessivo uso della fotocopiatrice: a fine anno in camera occorrerà liberarsi di un mare di cartacce), anzi, sforacchiati per poterli inserire nel proprio libretto dei canti personale... affinché lo spettacolo liturgico sembri "partecipato", ognuno deve dare il suo contributo (talvolta anche economico: c'è da comprare i fiori, c'è da comprare un "segno", c'è da pagare non si sa cosa)...

mercoledì 22 ottobre 2014

La vocazione a fare gli sguatteri?

Ogni volta che entravo in una comunità mi proponevo di mettere subito al corrente i miei superiori del mio stato di salute e del mio livello culturale, in modo da essere il più utile possibile fin dal primo giorno. Credevo che tutti sapessero che certe combinazioni di fisico e intelletto fossero inadatte a certi obiettivi e adattissime ad altri. Mi illudevo che per le attività comunitarie bastasse il "si fa quel che si può", ringraziando la Provvidenza per i singoli doni ricevuti. Se tutti sono diabetici, allora non c'è bisogno di comprar zucchero, no?

Invece, in ogni comunità, vigeva la fissazione delle caserme: «faccia un passo avanti chi tra voi è esperto di computer... OK: andate a lavare i cessi!» Cioè la necessità di appiattire tutti sulle stesse mansioni, e in particolar modo di umiliare inutilmente le reclute col falsissimo alibi dell'addestrarle e -peggio- di insegnar loro l'umiltà. Gradassi e arroganti che pretendono di insegnare l'umiltà (e poi ci si lamenta della tracotanza e dell'ipocrisia dei preti giovani: se per anni e anni di seminario hanno sempre avuto solo quegli esempi...) Tutto questo dietro l'alibi della necessità di un po' di lavoro manuale.

Episodio 1.

Quando mi presentai al primo colloquio di ammissione per il seminario maggiore, nel raccontare la mia vita dissi che ero laureato. Il gesuitico gesuitante che conduceva il colloquio-interrogatorio mi chiese, con aria da vipera pronta a mordere la preda, se io fossi disponibile anche a lavare i piatti. Risposi con naturalezza: «se lo fanno gli altri, non vedo perché non dovrei farlo anch'io». Il gesuitante gesuitico smorzò il sorrisetto ma evidentemente la risposta era sufficiente per passare il test. E pensare che era già sicuro di avermi colto in castagna...

Episodio 2.

Con un sorriso incredibilmente ampio mi segnalarono un giovane aspirante che era capace di rammendare e risistemare paramenti liturgici. "E' capace perfino di confezionarti una talare", disse il pretonzolo con sguardo giulivo e filo di bava che gli pendeva da un angolo della bocca. Capii subito che per entrare in certe comunità (come ad esempio quella lì) non c'è bisogno della vocazione: basta solo saper dimostrare di voler lavorare gratis in mansioni utili a preti sfaticati. Ossia cuciniere-lavapiatti-sarto-pulitore.

domenica 19 ottobre 2014

Quello che si sentiva sporco dentro

Mi disse di spazzare il pavimento del refettorio. Risposi «sì» e mi avviai a prendere la scopa, ma lui proseguì come se io avessi detto "è inutile". Disse: «ci sono le briciole, c'è tutto sporco». Il pavimento invece era già pulito.

Con pazienza certosina spazzai con cura ogni angolo, lottando contro la stanchezza, a caccia dello sporco invisibile. Appena ebbi terminato, il soggetto di cui sopra tornò imperioso: «ma non hai spazzato niente! c'è ancora sporco, lì sotto quella sedia! ripulisci per bene tutta quella parte». Nemmeno con un binocolo al laser si riuscirebbe a vedere una briciola a sette metri di distanza, ma per spirito di ubbidienza e di penitenza tornai ugualmente a ripulire quello sporco immaginario, sperando di notare almeno una briciola di polvere.

Sotto la scopa non restò nulla. Naturalmente il kapò tornò per lamentarsi che avevo pulito male. Non aggiunsi nulla e mi sforzai di rimanere il più possibile naturale. Qualsiasi cosa avrebbe potuto essere usata contro di me. Un sorriso sarebbe stato interpretato come sarcasmo. Un'espressione qualsiasi sarebbe stata interpretata come dispetto e disubbidienza. Mi sforzai di somigliare alla mia ombra inespressiva sul muro. Finalmente il preposito mi congedò, continuando a lamentarsi in corridoio. Aspettai ancora qualche attimo in silenzio, dandomi un'aria indaffarata per evitare guai in caso di suoi dietrofront improvvisi, e mi avviai compostamente a posare scopa e paletta.

Quello era il suo modo di mettere alla prova la mia pazienza e la mia obbedienza. Era convinto che la vita comunitaria non dovesse essere "rose e fiori" e perciò di proposito si comportava come un sadico (cosa che gli riusciva sorprendentemente bene). Era evidentemente la sua personalissima interpretazione dei libretti devozionali sette-ottocenteschi, dove per dare idea di fatiche e sacrifici i superiori delle comunità venivano descritti come sadici instancabili nel creare nuove forme di tortura per il santo di turno.

Ci volle un po' di tempo per realizzare che quel suo "mettermi alla prova" era in realtà il risultato di suoi problemi personali. Si sentiva sporco dentro e perciò era igienista fuori. Si sentiva debole dentro e perciò era prepotente fuori. Si sentiva indeciso dentro e perciò odiava chiunque avesse le idee chiare sulla propria vita. Si sentiva sporco dentro - maledettamente sporco, tremendamente sporco - e di conseguenza esigeva il pulito più brillante e candido: via! pulizie, contro-pulizie, ri-pulizie, eterne pulizie! Che naturalmente delegava ai sottoposti che non gli andavano a genio. A cominciare dal sottoscritto.

"Spazzare!" mi diceva imperiosamente, indicando con quel dito da Rasputin il refettorio lindo e pulito. Si sentiva sporco dentro e comandava continuamente pulizie fuori.

mercoledì 15 ottobre 2014

Come per esempio certe donne...

Nella nostra epoca il lavoro è inteso come la misura di produttività di una macchina... umana.

Solo il clero non lo sa.

Episodio.

Messa del mattino alle otto. È una messa feriale ma il parroco fa anche l'omelia (pure dilungandosi parecchi minuti, e sempre per ripetere le solite trite banalità) e pretende perfino qualche canto.

Ogni santa mattina feriale, una donna, seduta sempre negli ultimi banchi, alle otto e quindici in punto si alza silenziosamente e sgattaiola via.

Ci sono poche persone alla messa feriale, per cui il parroco non tarda a notare lo strano fenomeno: nel bel mezzo dell'omelia (alle otto e quindici si è sempre in piena omelia) la donna se ne va.

Così un bel mattino, alle otto e quattordici in punto, durante l'omelia il parroco avvia una lunga divagazione staliniana contro le persone che vengono a messa ma se ne vanno senza gustarsela tutta, "come per esempio certe donne".

La donna contro cui il parroco sta tenendo la severa omelia, alle otto e quindici in punto, visibilmente arrossita, si alza e va via (mentre il parroco continua a lanciarle invettive anche dopo che è uscita) e nessuno l'ha più vista in quella chiesa.

Si trattava di una insegnante. Con un orario di lavoro preciso. Con preside e colleghi fiscali e pronti a ogni dispettino e vendettina. Circondata da gente che la considera una "macchina da insegnamento", per lei era già un gran risultato poter alzarsi un quarto d'ora prima per partecipare ad un po' di Messa prima di andare a lavorare nell'istituto là di fronte.

Non so se qualcuno lo abbia mai fatto sapere al parroco - che nel frattempo è stato promosso a parroco della cattedrale. Ma sono sicuro che quella testa pelata avrebbe risposto con impudenza: beh? non può andare ad una messa prima in un'altra parrocchia? i conventuali celebrano alle sette e trenta...

Sì, anticipare la sveglia di ulteriori cinquanta minuti (i conventuali sono a dieci minuti a piedi dalla scuola). Si fa presto a dire agli altri di rinunciare ad una preziosa ora di riposo al mattino. Si fa presto a lamentarsi di chi desidera passare un po' di tempo in chiesa prima di andare a lavorare.

venerdì 10 ottobre 2014

Il prediletto

Le disfatte dell'esercito austro-ungarico furono precedute da un fenomeno particolare: la vasta diffusione del peccato di sodomia fra le truppe e perfino fra gli ufficiali.

La disfatta delle divisioni del Papa è attualmente in corso grazie allo stesso fenomeno, con una leggera variante: l'altrettanto diffusa sodomia repressa, di tanti preti che magari non commettono mai materialmente un atto contro natura ma si comportano come se fosse l'ineluttabile obiettivo da conseguire un lontano giorno.

Nel mio itinerario di formazione al sacerdozio ho notato numerose volte tale fenomeno. Per anni l'ho chiamato "la sindrome del prediletto", finché non mi sono arreso all'evidenza. Con questi miei stessi occhi ho visto che ognuno dei formatori di seminari e comunità religiose ha sempre un allievo prediletto al quale perdona anticipatamente ogni marachella, e in nome del quale è disposto a sacrificare persino la propria dignità.

Episodio 1.

Quella volta i commilitoni l'avevano proprio combinata grossa. Tremavo anch'io per l'imminente punizione generale. Il superiore si avvicinò con aria minacciosa, eravamo presso la cabina telefonica. Nel gruppo dei colpevoli c'era il suo prediletto, che prese subito la parola con un piagnucoloso: "ma padre..."

In quel momento intuii tutto - come intuirono anche gli altri - ed ebbi perfino la prontezza di tirar fuori il cellulare e scattare una foto ricordo. Nella foto si vede il superiore con un sorriso mattacchione, il prediletto con un sorriso smagliante, e i commilitoni con un'espressione stupita come a dire: "possibile? l'abbiamo davvero scampata?"

Episodio 2.

Andammo dal preposito a riportare la grave malefatta del suo prediletto. Ce n'era abbastanza per espellerlo dalla comunità non una ma quattro volte. Il superiore ascoltò in silenzio, con gli occhi bassi, per tutto il tempo, forse pregando il suo Dio che la denuncia continuasse ad esprimersi in modo caritatevole e possibilista. Alla fine ci congedò senza dir nulla.

Il prediletto fu mandato a casa per pochissimi giorni. Ricomparì dopo la vacanzina allegro e pimpante.

Quattro mesi dopo il superiore trovò delle scuse per espellere dalla comunità colui che aveva denunciato il suo prediletto.

lunedì 6 ottobre 2014

Sterilità vocazionale

I preti non generano vocazioni; al più si limitano ad aspettare che arrivino, e quando ne piove una la spediscono all'ufficio competente.

Non le generano perché non le desiderano. Non ho mai visto un prete sinceramente fiero di ciò che è. Mai visto un prete che dica qualcosa tipo: la mia vita è così speciale che vorrei consigliarla a tutti i ragazzi che conosco.

Don Bosco diceva che la vocazione al sacerdozio ce l'ha un ragazzo su tre. Don Bosco se ne intendeva di vocazioni: alla sua morte, la sua opera aveva dato alla Chiesa oltre seimila vocazioni sacerdotali (senza conteggiare quelle "indirettamente" procurate).

Molti sono i chiamati (uno su tre!) ma pochi sono gli eletti. Solo che questo "pochi" si esprime con una percentuale desolante: tra i maschi italiani, solo un italiano su 650 è sacerdote. Al tempo di don Bosco la media era quasi il quadruplo (c'erano oltre 103.000 sacerdoti attivi in un'Italia di quaranta milioni di anime).

La vita sacerdotale è diventata insipida. Come si fa a pensare al sacerdozio vedendo la patetica monotonia della vita clericale? Riunioni, cartelloni, omelie insignificanti, abito e atteggiamenti da pensionato stufo della vita (specialmente tra i preti giovani!) e liturgia ridotta ad un noioso cerimoniale del buonismo.

La sterilità vocazionale è uno dei peggiori tumori della Chiesa postconciliare.

domenica 5 ottobre 2014

Quel rettore sculettante

Vidi il padre rettore entrare nella saletta comune. Vide il giornale aperto sul tavolo. Trotterellando si avvicinò, sculettò (sculettò sul serio) canticchiando, girò una pagina di giornale e andò via tutto giulivo.

Il fatto è che un incarico importante (come l'essere per diversi anni rettore di un seminario) prelude di solito ad una promozione a vescovo. Chissà, magari qualcuno gli aveva detto qualcosa.

Se i miei avessero visto ciò che i miei occhi videro, mi avrebbero chiesto severamente: ma in che razza di chiesa-dei-ricchioni ti sei andato a infilare? non aspiravi al sacerdozio cattolico?

giovedì 2 ottobre 2014

Danza moderna

Il parroco più importante della zona ci portò in seminario un gruppo di ragazzi che avrebbero fatto una danza moderna.

Lo spettacolo era obbligatorio per tutti i seminaristi. Appuntamento subito dopo cena nella grande sala al pianterreno.

Trovammo le luci soffuse e le sedie disposte in ovale. Prendemmo posto. Il parroco spese due parole per dire quanto bravi fossero questi ragazzi, si sedette, e dalle casse audio cominciò una musica stranissima, senza filo conduttore, ed entrarono a piedi nudi questi cinque ragazzi fra i venti e i trent'anni, con addosso solo uno strano pantalone formato pigiamone del nonno che li copriva da poco sotto l'ombelico a poco sopra le caviglie.

I cinque si agitarono come dei mamelucchi col ballo di san Vito, e in certi stacchi della strana musica si bloccavano come statue. Dopo una mezz'oretta di agitazione, la musica improvvisamente terminò e i cinque, di nuovo fermi come statue, furono illuminati con l'accensione improvvisa di tutte le luci.

Il rettore del seminario cominciò ad applaudire, scrutando uno per uno tutti i seminaristi. Dall'altra parte il parroco grassone ugualmente scrutava. Eravamo sotto fuoco incrociato. Bisognava applaudire. Non avevamo scelta. Mi figurai mentalmente Ayrton Senna vincere il gran premio del Giappone davanti a quello sbruffone di Prost e riuscii a scaricare una lunga e convinta salva di applausi. Come in Arcipelago GULag, il rettore e il parroco annotarono coloro che applaudirono scarsamente e coloro che terminarono di applaudire per primi. Finalmente si capì che non c'era più l'obbligo di applaudire.

Il parroco, con un ghigno, mi scrutò più a lungo. Mi ero preparato la formuletta di circostanza («inusuale ma bello, interessante») nel caso mi avesse interrogato; per fortuna incrociò un altro seminarista e si intrattenne a scambiare elogi per i giovanotti danzerini che stavano andando a vestirsi. Una volta rientrato in camera, mi distesi sul letto supino, e con la faccia affondata nel cuscino (per attutire il rumore delle parole) dissi finalmente: «una cagata pazzesca».

Lo spettacolo era stato sicuramente pagato dal seminario. Pagato profumatamente, vista l'insistenza del parroco e l'obbligo di presenza. Non fui il solo - e neppure il primo - a sospettare che il parroco e altri (penso anche il rettore) provassero un piacere insano a vedere dei ragazzi seminudi "danzare". Per cautela evitai sempre di nominare l'evento, fino alla fine del seminario.