venerdì 15 dicembre 2017

Quel Te Deum vietato

Un certo anno, negli ultimi giorni di seminario a giugno, per tramite di uno dei seminaristi più impiccioni e meglio ammanigliati con qualche prete curiale, arrivò la segretissima notizia che il nostro perfido formatore prete animatore aveva appena ricevuto la nomina a parroco. Si toglieva finalmente dalle balle! Da settembre non lo avremmo più visto!

La notizia e il tripudio divamparono come un fiammifero acceso in un lago di benzina, lasciando intristiti solo i pochi seminaristi che a suon di ipocrisie e delazioni avevano costruito i loro piccoli imperi personali. Uno dei commilitoni più entusiasti arrivò a cantare due righe del Te Deum Laudamus: non so dove avvenne ma sono certo che non fu in pubblico, fu quasi certamente nella camera di qualche seminarista, forse davanti a non più di due o tre commilitoni, perché era davvero troppo pericoloso esporsi (era come se in un Gulag nel 1953 fosse giunta la notizia della morte di Stalin: in cuor proprio ognuno sperò che il sistema crollasse, e invece...)

Quando il fracasso entusiasta in corridoio toccò vertici inusitati - eravamo dopotutto in periodo d'esami - mi affacciai dalla porta della mia camera per chiedere cosa fosse successo. Il cantore del Te Deum mi riferì sottovoce la bella notizia, e rispose più volte che era verificata e confermata e assicurata. (Non fui preso da eccessivo entusiasmo non è mai detto che il successore sia meno perfido. E comunque mi conveniva rimanere in camera perché il perfido animatore di sicuro doveva aver già notato che la notizia era inopportunamente trapelata).

Qualche ora dopo il perfido rettore convocò tutta la comunità d'urgenza in sala comunitaria per una "comunicazione". Elencò subito cinque nomi, incluso il sottoscritto, dichiarandoli dimessi dal seminario a partire dal giorno successivo, perché avrebbero cantato tutti insieme e pubblicamente quel Te Deum dimostrando così una inaccettabile mancanza di rispetto verso i formatori.

Il sottoscritto fu sorpreso ma non reagì (tanto più che qualsiasi mossa, anche un tremito del mignolo del piede, sarebbe stata interpretata come inaccettabile ribellione e insubordinazione), e del resto quando una menzogna è così grossa non vale la pena sprecare microcalorie per ribattere. Lo show della "comunicazione", infatti, era inteso non solo a umiliare nel peggior modo possibile coloro che l'animatore promosso a parroco riteneva responsabili, ma anche ad estrarne qualche possibile parola fuori posto o altra mossa avventata da adoperare contro di loro in opportuna sede (relazione di fine anno).

Gli altri quattro seminaristi, di scarsa esperienza di vita, andarono subito in panico e lo pregarono - ognuno a modo suo, chi tra le lacrime, chi col solito gergo politically correct, chi gridandosi innocente (sottinteso: pronto a denunciare i compagni pur di salvare la pelle), ecc. - di rivedere la sua decisione.


Il perfido rettore insistette più volte a dire che quella era "una comunicazione", non "un'udienza", e andò via facendosi largo tra i quattro disperati più o meno in lacrime, uno già in ginocchio. Proprio il metodo terroristico del colpirne uno per educarne cento: fare barbara strage di qualche innocente in modo da mantenere tutti gli altri nel terrore, poco importa che il mezzo scelto sia la menzogna (il rettore e l'animatore infuriato sono pur sempre preti, che celebrano Messa ogni giorno, che mangiano il Pane di Vita Eterna ogni giorno... mangiano e bevono la loro condanna quotidianamente). Ed infatti, il resto della comunità, salvo rari casi, esibì la tipica ipocrisia, vestì la tipica faccia del "non sapevo nulla", si preparò mentalmente ad approvare la decisione del rettore (magari con l'alibi del meglio che vengano colpiti loro che io).

Durante l'estate ce la cavammo tutti e cinque - alcuni, come me e il vero cantore, fummo spediti dal vescovo in un altro seminario, altri ebbero da sudare cubetti di ghiaccio per convincere il proprio vescovo di essere innocenti.

Neanche tre mesi dopo, a settembre, per caso incrociai per strada il rettore, che non vedevo da quando si esibì nella "comunicazione". Tentai di cambiar strada ma lui, giovialmente, come se nulla fosse accaduto, come se quella terribile menzogna (che pure aveva raggiunto lo scopo di togliermi da quel seminario) non fosse mai esistita, mi tese la mano.

Mi rifiutai di stringergli la mano, limitandomi a dire: "dopo quello che ha fatto?", e me ne andai. Quella stretta di mano gli serviva per autoassolversi, e istintivamente non volli essere complice di quella autoassoluzione.

Non avendo ricevuto la stretta di mano, il perfido rettore immediatamente si diede da fare per far conoscere l'increscioso episodio al mio vescovo e al mio nuovo rettore. Quest'ultimo, a cui non sono mai andato a genio, fu molto soddisfatto della cosa (aveva anche lui bisogno di trovare il pelo nell'uovo), ed infatti me la rinfacciò appena possibile, in privato, durante il periodico colloquio, e fu inutile ripetergli tutta questa storia. Ma ne parlerò in un altro momento.

giovedì 14 dicembre 2017

Quel formatore dei miei stivali

Quando un vescovo decide di subappaltare la verifica delle vocazioni ad un seminario, teoricamente dovrebbe anche assicurarsi che i formatori siano uomini seri, con la testa sulle spalle, di provata fede, zelatori della santità della Chiesa. Magari potrebbe anche scegliere il miglior prete del suo clero e assegnargli tale delicato compito. Magari!

In realtà le diocesi sono a corto di preti. Troppi fannulloni, troppi incarichi, troppe parrocchie e... troppo scarse (di quantità e di qualità) le nuove vocazioni. Così, se proprio gli accordi interdiocesani richiedono che la tua diocesi debba mandar lì uno a fare il formatore per qualche anno, tu vescovo cosa fai? Prendi la peggior scartina, il più incompetente e avido, il più chiacchierato della diocesi, e gli fai un discorsone in privato per fargli sembrare che l'esilio sia in realtà un premio ambitissimo e una promozione invidiabile. E magari ci infili il sottinteso che se si rifiuta, il vescovo porgerà finalmente orecchio a certe strane voci sul conto del pretino.

E così l'incompetente chiacchierato avido idiota si ritrova improvvisamente formatore di seminario, con una comunità di ragazzi talvolta più anziani e più titolati di lui, sui quali ha diritto di vita e di morte vocazionale.

Il prete in questione era chiacchierato perché dicevano che se l'intendesse con una certa parrocchiana che lo invitava continuamente a pranzo. E lui, avido di mangiare e di essere al centro dell'attenzione, ci andava molto volentieri. Non credo ci fosse qualcosa di sessuale, visto che il soggetto era alquanto frocetto. Fatto sta che il vescovo trovò comodo prendere vari piccioni con una fava.

Fin dal primo giorno di seminario tale pretino fece tutta una serie di strambi discorsi sulla diocesanità, sulla comunità, sulla condivisione, insomma dichiarò pressoché apertamente che desiderava essere circondato da un branco di ipocriti adulatori perennemente intenti a blandirlo e incensarlo, e che avrebbe minuziosamente preso nota - a caratteri rossi cubitali - di chi non gli sembrava abbastanza "comunitario".

Toccò anche a me pagare il quotidiano pizzo di marcar presenza nella sala comunitaria, presenza obbligatoria in diversi momenti della giornata (dopo pranzo, tardo pomeriggio, dopo cena, prima delle liturgie... ogni santo giorno), presenza debitamente segnalatagli dai suoi delatori preferiti quando lui si assentava, che aggiungevano (a volte persino spontaneamente) la ripetuta presenza in camera sua a chiacchierar di parroci, di vescovi e di seminari per ore intere, a volte anche passata la mezzanotte. Quando un prete formatore-animatore di seminario dice con voce melliflua "la mia porta è sempre aperta", significa "guai a chi non viene regolarmente a pascolare in camera mia".

Per cui, guai a me.

Durante una tornata di esercizi spirituali il soggetto, preso da un momento poetico, arrivò a teorizzarci la necessità di un prete di trovarsi una «casa amica», nella quale riparare quando le fatiche pastorali della parrocchia estenuassero il fisico e lo spirito. Evidentemente parlava delle sue «case amiche», di cui una era stata il motivo del suo esilio in seminario, nelle quali lui volontariamente andava a farsi mangiate e dormite con la scusa di venir continuamente invitato (questo genere di debolezze ha due risultati immediati: qualche laico che vanta una specie di diritto di prelazione sul tuo tempo e sulle tue attività di parrocchia, e l'immediata proliferazione delle chiacchiere di paese, a volte persino con ottimo fondamento).

Naturalmente le antipatie che lui maturò il primo giorno di seminario, nessun seminarista se le schiodò più. Incluso il sottoscritto. Che non era stato avvisato dell'obbligo tassativo di marcar presenza dopo pranzo in sala comunitaria per l'obbligatorio cazzeggio idiota da esibirgli insieme all'adulazione. Un paio di seminaristi furono incaricati (o forse caritatevolmente si autoincaricarono) di correre a chiamare subito a raccolta immediata tutti gli assenti, ma ormai il danno era fatto. «Non cura molto l'aspetto comunitario», si ritroveranno nella fatidica relazione di fine anno. La "formazione sacerdotale", per un discreto numero di ore della giornata, consisteva nel simulare entusiasmo e condivisione fraterna. Poi uno si chiede come mai i preti generalmente siano profondamente ipocriti, specialmente quelli ordinati negli ultimi decenni.

E così, quella stessa mano che alle 8:15 mi amministrava la Comunione, venti minuti dopo vergava contro di me nero su bianco generiche ma infamanti accuse sulla mia relazione. Non ho mai potuto leggere il testo di quelle maledette relazioni. Ma ogni anno, quando il vescovo mi chiamava a colloquio, era un camminare sui carboni ardenti.

mercoledì 13 dicembre 2017

Delazioni, cioè il metodo del seminario

L'arma più terribile contro ogni seminarista è la relazione di fine anno, compilata dalla così detta equipe formativa (composta dai preti animatori e dal rettore del seminario) e inviata al vescovo senza che il seminarista ne conosca i contenuti (a meno che non sia un notorio leccapiedi della summenzionata equipe al punto da farsi anticipare i contenuti). Il vescovo, naturalmente, se la leggerà estraendone solo i punti negativi da rinfacciare al malcapitato seminarista.

Vediamo alcuni esempi di cosa i formatori ci scrivono dentro.

Alla disperata ricerca di un pelo nell'uovo, in quella di Augusto scrissero che vestiva sempre orride magliette. Che quelle magliette fossero di colore da pensionato arreso e annoiato (o da prete cinquantenne, che è la stessa cosa), è vero. Ma che ciò intaccasse minimamente la fede o la vocazione, è del tutto discutibile. Il vescovo di Augusto, tutto pensoso, comandò a quest'ultimo di cambiare vestiario, col sottinteso che altrimenti erano guai seri.

In quella di Alfonso scrissero che non si era presentato alla novena intercomunitaria dell'Immacolata (consistente in trenta minuti di canti idioti e un paio di salmi, una delle tipiche paraliturgie inventate dagli annoiati formatori del seminario). In effetti il soggetto si era assentato ben due volte in quella settimana, osservando che almeno metà della comunità - incluso il prete che guidava la comunità - era assente. Quando il vescovo tutto pensoso gli chiese come mai questo punto negativo nella sua relazione, cascò dalle nuvole e rispose: beh, come mai mi contestano per iscritto a giugno una cosa avvenuta a inizio dicembre? in sei mesi non hanno trovato tempo di confrontarsi?

In quella di Domenico addirittura scrissero testualmente: «è stato sentito dire da un seminarista...» Cascò dalle nuvole e chiese al vescovo come mai un generico sentito dire fosse parte integrante della relazione e come mai l'anonimo e innominato delatore meritasse tanta fiducia.

Il fatto è che i vescovi italiani subappaltano uno dei loro compiti più delicati - la verifica delle vocazioni - ad un ente "seminario" incaricato di dare un sì o un no per l'ordinazione sacerdotale, col risultato che i formatori hanno letteralmente il privilegio di distruggere le vocazioni che non vanno loro a genio, ciò che scatena tutta la ridda di ipocrisie e la gara alla mediocrità: il più mediocre e insignificante seminarista, esperto nel docile lecchinaggio senza strafare, abile a fingere moderato entusiasmo per ogni stronzata proposta dai formatori lungo tutti gli anni di formazione, capace di impersonare al di sopra di ogni dubbio la figura del clown parrocchiale, otterrà relazioni entusiaste a fine anno.

Chi invece indossa una maglietta sgradita al formatore, oppure «è stato sentito dire» da uno dei lecchini del formatore, è spacciato.

Il vescovo ha formalmente subappaltato la formazione, per cui se ne infischia di tutti i passaggi intermedi (salvo le fatidiche relazioni). Dunque nel prepararsi al sacerdozio non vale la fede ma la finzione della fede in formato adeguato alla falsa fede dei formatori; non vale la vocazione ma la finzione della vocazione secondo le paturnie dei formatori; non valgono le caratteristiche umane ma solo la mediocrità più assoluta. La maledetta relazione di fine anno può rovinare un seminarista a causa della sua maglietta, o addirittura soltanto con un'accusa generica (tipo: non è aperto al dialogo: che diavolo significa? con "chi" non è stato aperto? con "chi" non ha dialogato?), ed è quella - più che il giudizio di Dio - che i seminaristi devono temere e temono.

Episodio. Il formatore e il rettore si recarono in gran segreto nella seconda metà del mese di luglio dal mio vescovo (oltre trenta chilometri di macchina) per consegnargli la relazione scritta contro di me e aggiustargliela verbalmente (in senso ulteriormente negativo, s'intende). Avevano scelto tale strategia perché non mi volevano in seminario a settembre successivo, e volevano assicurarsi che il vescovo si convincesse a dimettermi.

Quei due mentitori professionisti dell'ipocrisia, appena un mese prima mi avevano salutato con calorose strette di mano e un menzognero ci vediamo a settembre. Sono preti, cioè gente abituata ogni santo giorno a celebrare l'Eucarestia. Mangiando la propria condanna ogni santo giorno. E garantendo che la Chiesa venga rifornita dei peggiori operai per la Messe, i peggiori possibili.

sabato 9 dicembre 2017

Quel rinnegamento si avvicina

E va bene. Stiamo rapidamente raggiungendo il punto in cui il successore di Pietro imita Simon Pietro nel momento in cui quest'ultimo rinnega il Signore.


Intanto le potenze di questo mondo continuano alacremente a preparare a Gerusalemme il trono per l'anticristo.


giovedì 7 dicembre 2017

«Si è preso un periodo di riflessione»

Sicché c'era questo bravo ragazzo con cui in meno di un paio di battutacce sul postconcilio ci ritrovammo grandi amici. Aveva maturato la sua vocazione in uno sconosciuto movimento ecclesiale che tutto sommato non sembrava insegnare stronzate. Lontano da casa e destinato a tornarvi solo a Natale e Pasqua, si era portato nelle valigie le fotocopie delle catechesi del suo movimento, così da studiarsele nel presunto tempo libero. In tre anni riuscì nell'intento almeno una mezza dozzina di volte, visto che il seminario organizza le attività in modo da non lasciarti libero nemmeno il tempo in cui fai la cacca.

Tra grandi amici allergici al frociume culattonio tipico dei seminari si instaura quel rapporto cameratesco definitivamente estintosi dalle caserme militari negli anni '70 e '80. Con l'aria nauseante che si respirava in seminario era un piacere (di più, una liberazione) poter nominare sottovoce qualche patetico episodio della cronaca ecclesiale o della vita di seminario e contornarlo del sacrosanto e meritato turpiloquio. In clandestinità, naturalmente: guai a turbare la quiete del clerically correct del seminario. Ce l'avrebbero fatta pagare cara.

Inutile dire che lo fecero presto esaurire, facendogli pesare ogni più piccola cosa come se fosse una grave disobbedienza. I ministri di satana conoscono bene questa debolezza delle persone devote (e, in quanto tali, sostanzialmente incapaci di ipocrisia): basta agitare lo spettro della disubbidienza e queste si mettono in riga, con fatica oggi, con più fatica domani, con estrema fatica dopodomani, per infine sbroccare estenuate dando loro l'opportunità di scacciarti via restandone con le mani pulite. Non a caso, già dal primo anno, avevamo capito - ironizzandoci quotidianamente, consci che era quello il principale ostacolo da schivare - che nel gergo seminaristico l'espressione «si è preso un periodo di riflessione» significava invece «lo hanno fatto fuori».

Verso il terzo anno non ne poté più. Si arrese e annunciò - di punto in bianco durante una riunione di preghiera del seminario - di aver deciso di lasciare, di prendersi «un periodo di riflessione». Avvenne in primavera, gli sarebbe bastato resistere altri due mesi, ma lui non ce la faceva più nemmeno a resistere due ore. La gioia dei capicosca della mafia clericale era palpabile, perché anziché piantare un casino il giovanotto si era spontaneamente dichiarato in "periodo di riflessione", cosa che ufficialmente li assolveva poiché se la vittima non ha il coraggio di dire che i suoi carnefici lo hanno massacrato in ogni modo fin dal secondo giorno, significa che i carnefici possono sentirsi lindi e candidi e con un buon alibi da esibire agli uomini (illudendosi che valga anche davanti a Dio... qualora credano davvero in Dio).

Ci ripromettemmo di sentirci telefonicamente di tanto in tanto, anche se già sospettavo che appena messo piede fuori avrebbe voltato pagina e seppellito ogni ricordo. Gli feci anche promettere di non mettere da parte il desiderio di vivere il sacerdozio perché da qualche parte il suo percorso avrebbe potuto continuare senza la torchia della mafia pretesca, ma mi disse di sì solo per accontentarmi.

Ad essere del tutto sorpreso fu il suo vescovo, al quale appena pochi mesi prima lui aveva detto che tutto sommato le cose andavano bene (le relazioni sul suo conto erano meno acide delle mie). Il panciuto vescovo avrà avuto un sussulto: "ohibò, ha deciso che non era la sua strada? E non poteva avvisarmi? Le vocazioni oggi sfumano in un nonnulla... magari chiedo a qualche parroco di fare qualche veglia vocazionale".

No, caro monsignor Snorlax, sei tu ad aver torto marcio su tutta la tua donabbondiana linea. Prima di tutto avresti dovuto tu correre da lui, da quel povero giovane, quantomeno per dirgli le cose che invece gli ho detto solo io. Sei tu il vescovo, dunque hai un dovere di "paternità" nei suoi confronti, qualunque sia l'esito del suo percorso vocazionale - e ce l'avevi fin dal momento in cui lo hai accolto, e ce l'avevi ancor di più quando lo hai rifilato ad una struttura aspettandoti una relazione finale "ordinabile / non ordinabile", come se la formazione al sacerdozio fosse un semilavorato industriale.

Dovevi esser tu a rintracciare la pecorella che è a rischio di perdersi, e specialmente alla luce del fatto che fino a quel momento te ne eri infischiato di ciò che avveniva in quella catena di (s)montaggio dovevi assolutamente capire personalmente cosa si è inceppato. Due minuti in privato con lui ti avrebbero fatto capire che il seminario gesuitante gesuitogeno a cui lo avevi affidato ha lo scopo diabolico di distruggere le vocazioni sane, e di far andare avanti quelle false e ipocrite, mezzi uomini campioni di mediocrità e che considerano il sacerdozio un mestiere e la fede un elenco di discorsetti mielosi. Invece no, le tue auguste chiappe continuavano a scaldare quella sedia, in attesa della megacelebrazione domenicale dove avresti esalato i soliti luoghi comuni politically correct per mettere a posto la tua coscienza e illuderti di avere un buon alibi per il giudizio finale (qualora tu ci creda davvero, nel giudizio finale).

Sono anni che non ho più avuto notizie di quel caro vecchio amico, del quale mi rimane solo qualche simpatico episodio da raccontare e due numeri di cellulari tristemente obsoleti. In compenso grazie a wikipedia conosco il deprecabile nome di quel vescovo, chiedendomi se in punto di morte capirà di aver letteralmente sbagliato tutto per una vita intera.

venerdì 1 dicembre 2017

Quale esagerazione?

Sempre la solita domanda retorica: ma non ti sembra di essere esagerato?

No.

Ho colto il vescovo a mentirmi. Sapeva che io sapevo. Gliel'ho fatto notare e sono stato persino gentile con lui - ed è questa l'unica cosa di cui dovrei pentirmi. Avrei dovuto battere sul ferro finché è caldo, e dirgli: eccellenza, lei è il mio vescovo, lei mi è padre, lei è la prima persona al mondo che dovrebbe avere a cuore la mia vocazione e la mia fede: perché mi sta mentendo?

Anche il rettore del seminario, che mi diluviò di paroloni insignificanti per non dare a vedere di aver mentito e di essersi puntualmente, sistematicamente, continuamente rimangiato ogni parola data, si tirò indietro. Per esempio, dopo che inventa regole per rinfacciarmi di non averle seguite glielo faccio notare con gentilezza insieme alla sorprendente differenza di trattamento subita da me rispetto agli altri, svicola: eh, no, ora non "giuridicizzare". Anche lì, per lo stesso malinteso ingenuo spirito di ubbidienza, non ho alzato la posta. Ma come? Se si tratta di mettermi nei guai, lui "giuridicizza", e quando gli faccio notare qualcosa, mi accusa di "giuridicizzare"? (il caso in questione: di me si diceva che andava pressoché tutto bene, ma trovavano sempre il pelo nell'uovo per bloccarmi il percorso, mentre di altri - che avrebbero dovuto cacciare a pedate il primo giorno - dicevano "crescerà". Dunque se non hai fede, se la tua vocazione consiste solo nell'aristocratica brama di prestigio dei tuoi familiari, se sei ignorante e scansafatiche, se sei arrogante e capace di grandi e numerose piccinerie, se sei tutte queste cose, beh, sei buono per il sacerdozio, perché si presume automagicamente che "crescerai").

Alla lista devo aggiungere anche il parroco a cui ufficialmente avevano chiesto un ultimo parere su di me. Costui dopo avermi rassicurato per tutto un anno che le cose andavano bene e che avrebbe speso una buona parola per me, alla fine della giostra si tira fuori dicendomi - mentendo - che il suo parere non era vincolante.

Questa Chiesa ha deciso di castrarsi, espellendo gli unici seminaristi che domandavano il sacerdozio a causa del fatto che desideravano vivere la vita sacerdotale, e tenendosi invece quelli con esaurimento nervoso, problemi di alcolismo, frocerie, culattonerie e ricchionerie più o meno represse, incapacità intellettuali e umane preoccupanti, e soprattutto l'idea - straordinariamente diffusa - che il sacerdozio consistesse nel mestiere di parroco. Col risultato che per tutti gli anni del pre-seminario e del seminario e del post-seminario, il discorso che non mancava mai ogni giorno, ogni mattina a colazione, ogni pranzo, ogni cena, ogni dopocena, ogni intervallo tra due ore di lezione, ogni minuto di attesa di inizio di celebrazione, tollerato e talvolta addirittura incoraggiato dalli superiori, era sempre lo stesso: quando mi fanno parroco, io poi faccio qui, faccio lì, poi se le cose vanno bene chiedo di essere mandato in una parrocchia più grande, poi se mi danno un incarico in curia, ma io vorrei anche insegnare oltre a fare il parroco, poi, se mi fanno vescovo, quando mi fanno vescovo, io da vescovo farei così, se io fossi il vescovo farei cosà...

Tutto un fare, fare, fare. Un mestiere. Ero tra i pochi - quando non l'unico poveraccio - in seminario (e in preseminario e in postseminario), a pregustare il momento in cui i cieli e la terra si sarebbero toccati per quella formula di consacrazione dalla mia semplice voce. Ero l'unico a immaginarmi alle 23 seduto in confessionale a leggere qualcosa, e arriva per caso uno che le circostanze della vita lo hanno indotto a fare il gesto del figliuol prodigo. Ero l'unico a pregustare i momenti in cui avrei sparso a piene mani (mani sacerdotali) benedizioni anche su gente distratta. Ed ovviamente ne parlavo poco o nulla coi miei compagni, perché non si potevano dare perle ai porci, perché erano infinitamente più contenti quando tiravo fuori qualche seriosa espressione - per lo più intesa solo a spercularli - del tipo: un parroco non può stare in mezzo alla gente se ha l'incarico di insegnare all'Istituto di Scienze Religiose, tuttavia l'insegnamento nell'ISR è comunque un modo di fare pastorale... E loro, che non amavano la ragione ma solo i costrutti semantici A-B/B-A, gioivano e riprendevano i loro mielosi discorsetti: è vero, quando sarò parroco - spero presto - cercherò, farò, vedrò, bilancerò la pastorale, saprò regolarmi, curerò la diocesanità... (e per la cronaca, una volta divenuti parroci, al di là del rifilare prediche non hanno fatto altro: "armiamoci e andate" è il loro motto, ognuno scegliendosi qualche hobby piccino piccino con cui spendere il proprio tempo perché il mestiere del parroco si è rivelato terribilmente noioso e irto di rogne).

Le miserabili scuse con cui il vescovo, rettori, formatori, fino agli ultimi incaricati di dare un parere, hanno abortito la mia vocazione, sono sempre state una maledizione contro di loro, andata ben al di là del tasso ridicolo di abbandoni, infedeltà, pasticci, disubbidienze, guerre, e altri abbandoni, commessi dai miei compagni di seminario che a furia di "crescerà" sono stati portati al sacerdozio.

Ma il saperlo non mi ricompensa per nulla, perché anche qualora questa Chiesa "postconciliare" sprofondasse, non mi sentirei per nulla risarcito o giovato.

domenica 19 novembre 2017

Novità: "il manifesto" loda il Papa

Il manifesto, "Quotidiano Comunista" - così dice nella sua stessa testata - loda il Papa.


Bergoglio, il Papa di cui i cattolici non possono che vergognarsi.

venerdì 10 novembre 2017

Colpevolizzare le vittime

I cristiani in Asia appartengono per gran parte ad una triste categoria: "perseguitati".

Il Bergoglio, a causa del suo gesuitico DNA, avverte l'ineludibile bisogno di scaricare su di essi un nuovo fardello: "favorire il dialogo".

Davvero, questo è un papa di cui vergognarsi. E ce ne vergogneremo a lungo.

 

venerdì 29 settembre 2017

Quando il papa non si comporta da papa

Un'altra vittoria del laicismo: trasformare il successore di Pietro nel dittatorello del momento. "Cresce la fronda anti Bergoglio", titolava il Giornale un paio di giorni fa. Che idiozia. Come se contasse più la fronda che il motivo per cui si resiste a viso aperto al successore di pietro.

No, cari redattori del Giornale, non è una fronda: è un popolo che tiene più alla verità che all'esibirsi come tifosi del papa in carica.

Eravamo lo stesso popolo che in tempi di papato ratzingeriano difendevamo a spada tratta il papa. In realtà tenevamo - ieri come oggi - solo alla verità, e perciò parteggiavamo per il papa che la difendeva. Cioè per il papa che faceva tutto sommato il suo mestiere.
«Ora, riguardo alle cose di Chiesa qualcuno ha “imposto” una gabbia di interpretazione per cui tutto viene ridotto a “pro-Bergoglio” e “contro-Bergoglio”, e schiere di giornalisti vi si accodano volentieri. Così quando quattro cardinali hanno resi pubblici i Dubia presentati al Papa, in cui si ponevano questioni decisive per il contenuto della fede dei cattolici, sono stati immediatamente bollati – e da alcuni perfino sbeffeggiati – come “nemici” del Papa. Ottima tattica per evitare di discutere dei contenuti….».


Mi tornano in mente i tanti ricordi dell'epoca del seminario. Quando disprezzare Benedetto XVI era uno sport praticato quasi alla luce del sole. Quando non dimenticavano mai di aggiungere, ogni volta che si nominava il papa, che "morto un papa se ne fa un altro", che un successore potrebbe benissimo far piazza pulita del predecessore, che bisogna sempre adeguarsi al Vaticano II (cioè alla moda del momento nelle sagrestie), ossia avere il "coraggio" di fare un passo più avanti (nel senso di "in direzione opposta") rispetto a ciò che chiede il papa...

Mi torna in mente quel cretino di gesuita che contestò l'enciclica del papa dicendo, con una voce da frocio, "huuu, io non l'avrei scritta così, huuu, non andava scritta così, huuu".

lunedì 11 settembre 2017

Inginocchiarsi? chi, un gesuita?


Tutti in ginocchio, tranne il gesuita.

Sarebbe bello avere la Macchina del Tempo e tornare indietro a vent'anni fa, quando criticavo i gesuiti dicendo che non si inginocchiano davanti al Santissimo perché non credono nella presenza reale del Signore.

E direi a quel giovanotto che criticava i gesuiti: non puoi neppure immaginare quanto hai ragione, quanto ti dispiacerà aver criticato troppo poco il gesuitismo, e che faccia avrai quando ti ritroverai un pontefice gesuita.

venerdì 1 settembre 2017

La psicologa





Verso il quarto anno di seminario il rettore e la sua cricca, avendo difficoltà a trovare scuse per scacciarmi, decisero di noleggiare una psicologa. Lo scopo evidente era quello di rintracciare qualche miserabile pelo nell'uovo per costruire un impianto accusatorio tale da togliermi dalle balle. Per quanto può sembrare incredibile ai non addetti ai lavori, i preti - e specialmente i formatori di seminario - sono abilissimi nell'arte del costruire impianti accusatori campati totalmente in aria. Vi si impegnano per tempi anche molto lunghi, con un accanimento degno di miglior causa, a costo di coinvolgere numerose persone, a costo di far notare che lo stesso metodo condannerebbe ben altri. Se sul Titanic che affonda vedete uno lamentarsi della polvere sugli oblò e sgridare l'addetto alle pulizie di procedere immediatamente a spolverare, ebbene, avete identificato sia il cappellano della nave che il seminarista condannato a non diventare mai prete.

Dunque il rettore, a sorpresa, un giorno mi propose qualche incontro con la psicologa. Chiesi per quale strano motivo ce ne fosse bisogno: avevo mica dato di matto, o cos'altro? Mi disse che tali incontri sarebbero stati un bene per il mio discernimento, che avrei dovuto accettare, e che la Chiesa si serve anche di strumenti laici come quello che possono aiutare i formatori a discernere e a maturare un giudizio (notare i paroloni pomposi: il giudizio, in realtà, l'avevano già maturato: dovevo essere silurato a ogni costo).

Chiesi dunque quale problema c'era a farsi un giudizio su di me visto che erano diversi anni che mi conoscevano personalmente e che avevano potuto sentire più voci - dalle parrocchie, dal seminario, da preti - che li avevano messi in grado di verificarmi. Ma fu talmente fumoso nel rispondermi che mi sentii costretto a insistere con la domanda, e fu lì che svicolò ulteriormente e attuò il piano B, dicendomi che non sarei stato il solo e che la psicologa avrebbe incontrato tutti.

Cosa ci fosse da psicologizzare in un branco di seminaristi di diverse fasce di età dal primo all'ultimo anno di seminario, lo sapevano soltanto il rettore e il suo burattinaio. Stava diventando un segreto di pulcinella, anche i commilitoni sapevano che il mio nome era nella lista di proscrizione - e non per motivi di fede, morale, capacità intellettuali, relazionali, o che altro, no: ero semplicemente antipatico al burattinaio, che ammetteva al sacerdozio (cioè riusciva ad imporre al vescovo) solo i suoi clown-cloni. Non c'è niente di più stalinista di un chierico che teme la libertà altrui.

Facemmo dunque questi incontri settimanali con la psicologa - profumatamente pagata, a spese della diocesi, cioè dei fedeli, cioè anche soldi miei - che miscelò psicologismi d'accatto e paroloni importanti. Il rettore ebbe il suo momento di gloria quando intervenne con malcelato orgoglio per dire che si sentiva più junghiano che freudiano: la psicologa evitò di rispondere a una battuta che offendeva persino le brutte imitazioni della Settimana Enigmistica.

Nella più importante seduta di quelle terapie di gruppo, l'unica che non fosse una lezioncina con domande-trabocchetto, la cicciona virile disse di immaginarci davanti a un bel panorama e di immedesimarci in qualche elemento del paesaggio. Un commilitone prese la parola e si immedesimò in un sasso. Un altro nel mare. Un altro nella luce del sole. Io dissi il vento, cosa che fece mordere il labbro - in un misto di celato stupore e trattenuto furore - al rettore, anche perché in quel momento la psicologa soggiunse sottovoce "ah, un simbolo dello Spirito". Gli altri erano pietre e acqua ed elementi morti del paesaggio, salvo un paio di loro che erano bestie e piante - il sottoscritto era l'unico ad aver (addirittura involontariamente, visto il contesto) indovinato un simbolo teologico ineccepibile.

Lo scopo della virile psicologa era di concludere quella specie di giochino dicendo che ci eravamo allontanati dai simboli teologici, ma dovette smussare alquanto gli spigoli della sua omelia probabilmente confezionata insieme al rettore.

In più, la serie di sedute si concluse ovviamente con l'evidenza che gran parte dei commilitoni erano irrimediabilmente da cacciar via. Chi per crassa ignoranza, chi per manifesta stupidità, chi per invincibile irascibilità... Può in pochi anni un ragazzetto immaturo, chiassoso, ignorante, diventare un prete decente? (per pietà non menziono la loro fede, pressoché inesistente).

Come tutti gli altri ebbi anche il colloquio personale con la virile trippona (era quello lo scopo ultimo degli incontrini: mettermi nelle grinfie di una strizzacervelli per estrarre qualche argomentino sfruttabile contro di me e contro il quale né dal mio punto di vista né dal punto di vista del vescovo sarebbero valse obiezioni), incontro nel quale fui del tutto naturale e adulto - e persino sorridente, perché per un attimo immaginai le corbellerie che avrebbero detto i sunnominati commilitoni.

Benché avessi superato anche questa ridicola prova il rettore, il burattinaio e i loro cloni conservarono e tutto l'odio che avevano contro uno come me. Quella che nel periodo di pre-seminario era celata antipatia, divampò il primo anno come antipatia, e il secondo era già odio - perché ero lì per il secondo anno quando avevano deciso che non avrei dovuto neppure terminare il primo. Figurarsi dunque cosa succede nell'intimo dell'anima di formatori di seminario che hanno irrevocabilmente deciso di cacciarti via (senza alcun motivo riguardante la fede, la morale, le capacità intellettuali, ecc.) e non riescono a costruire un motivo, e si agitano esattamente come coloro che processarono il Signore Gesù.

Bergoglio ora fa sapere a tutto il mondo di essersi non solo avvalso di una psicologa (assurdo: lui, proprio lui, un gesuita, che fa a meno di un direttore spirituale e lo sostituisce con una psicologa), per di più ebrea, che naturalmente in punto di morte gli chiede non il battesimo ma solo di far due chiacchiere (sottinteso: che il mondo sappia che El Jesuita non mi ha convertito affatto!)

Se tornassimo indietro in quegli epici anni di seminario, il rettore scatterebbe in piedi e mi griderebbe con quel sorrisetto sardonico il puntuale crescendo di insinuazioni: "ma se persino il Papa va dalla psicologa! proprio un gesuita, uno che ne capisce di direzione spirituale, non ha remore a farsi aiutare da uno psicologo, anzi, da una psicologa... Tu non vuoi lasciarti plasmare dai formatori? pretendi di essere tu a stabilire quali metodi debbano scegliere per plasmarti?" E il vescovo soggiungerebbe "bisogna essere docili ai propri formatori, plasmabili, la docilità è una componente essenziale..." Adopererebbero la vaccata ponitificia-gesuitica come maglio per colpirmi. Si riterrebbero nel giusto ad aver introdotto come criterio la psicologia spicciola. Saranno felici, oggi, di sentirsi profeti dopo aver fatto le stesse vaccate bergogliane (grazie alle quali è stato promosso un clero che nel migliore dei casi eccelle solo in mediocrità).

Ah, bei tempi quando per l'ordinazione sacerdotale erano richiesti solo un minimo sindacale di capacità umane e una solida spiritualità.

Ed infatti negli anni successivi a quegli incontrini con la psicologa ci fu una raffica di abbandoni - alcuni persino dopo pochi mesi di sacerdozio. Ma essendo profondamente coglioni i formatori e il vescovo semplicemente non hanno imparato la lezione, e continuano alacremente a tirarsi la zappa sui piedi. Pregare per le vocazioni, oggi, è come curare le falle del Titanic con qualche cerotto, perché le vocazioni decenti non vengono promosse neppure per errore.

domenica 14 maggio 2017

Manca solo il canto del gallo

Ai tempi del seminario ricordo le loro eccellenze nascondere il crocifisso nel taschino della camicia-clergy. Trattato come un orpello ingombrante. E avevano quella fissa maniacale di incensare i fratelli maggiori ebrei.

Con Bergoglio sono stati accontentati (e fin da subito: le foto sono di quattro anni fa)... ci manca solo che il gallo canti tre volte:




lunedì 17 aprile 2017

Esercizio della pazienza: andare a prendere all'aeroporto la Nipote della Tizia

Lo scopo della vita di tale Nipote è quello di mostrarsi abbondantemente vissuta (nonostante l'età appena sui vent'anni), e devo ammettere che quando ho visto le sue profonde e cupe occhiaie ho pensato che c'è finalmente riuscita.

Questo genere di soggetti si trova di quando in quando agli Incontri Per i Giovani, cioè quei patetici raduni diocesani di cui tutti farebbero a meno se non fosse per il dovere sociale di marcarvi presenza. Il pretuncolo sornione con la faccia da bulldog e il vestiario da pensionato rincitrullito ammannisce sorrisi e si sforza di immedesimarsi nel modello bergogliano, addirittura beandosi di essere ubbidiente al Papa (infatti è la prima volta in vita sua che vede un Papa dire le stesse emerite cazzate gesuitiche che l'obeso parroco ha professato fin dal Sessantotto).

La vissuta nipote parla dei suoi "ex" con lo stesso tono con cui cita i suoi vecchi vestiti, parla di lavoro come se consistesse nell'aspettare la busta paga sfogliando il facebook, parla di macchine, profumi, vini e oggetti di lusso con la stessa cadenza e le stesse espressioni di uno spot pubblicitario. La zia Tizia annuisce e si sforza di apparirle à la page, chiedendole notizie del lavoro, dei fidanzati, degli spettacoli. La mondanità è una droga da somministrarsi a vicenda secondo rituali ben precisi.

Avevo già lasciato cadere un paio di allusioni alla fede, ma la Tizia ci mette del suo e tira in ballo - forse pensando di farmi un favore - il Pontefice che ha avuto il maggior successo nel far imbarazzare i cattolici. Ci ho già rimesso la benzina e il pedaggio autostradale, non voglio consumare anche un'abbondante dose di bicarbonato, e perciò mi affretto a declinare l'invito a cena col quale le due oche avrebbero inteso ricompensarmi per la scarrozzata gratis.

giovedì 6 aprile 2017

Neppure il Papa ha più da ridire

Un gaio politico lussemburghese, insieme a suo "marito", accolti in Vaticano come se niente fosse.

Ma è davvero così potente la lobby gay? La gerarchia cattolica è davvero ridotta in questo stato?



Le conseguenze non si faranno attendere. Peccato che a pagarle saremo noi poveracci.

mercoledì 5 aprile 2017

Quella scusa del ginocchio dolorante

Lasciamo parlare le fotografie.

In ginocchio davanti al Santissimo? No: seduto. La scusa ufficiale inventata da quelli che vogliono spacciarsi per "papisti" è che aveva il ginocchio dolorante...

Allora in che occasioni si inginocchia? Quando c'è da baciare il piede ad un extracomunitario acattolico. Stavolta il ginocchio non è dolorante (ma i "papisti" tacciono).


Queste immagini mi riportano vivi ricordi dell'epoca in seminario, in cui quei froci dei miei formatori detestavano inginocchiarsi. Quando non avevano pronta la scusa ridicola secondo cui la postura dei salvati è stare in piedi, se ne uscivano con l'altrettanto ridicola scusa di dolorini al ginocchio.

Ora hanno il Papa che all'epoca sognavano.

domenica 2 aprile 2017

Altri episodi

Un mio commilitone, in seminario, un giorno si lamentò: "Ma dobbiamo dirlo tutti che l'animatore deve essere più presente!" Mi si gelò il sangue. Con tutte le cautele del caso, gli feci presente che non è il caso di lamentarsi che l'aguzzino debba essere "più presente" nel campo di concentramento. L'occhiuto controllore sembrava infatti avere il dono dell'ubiquità: mentre era in camera a sfogliare riviste, te lo ritrovavi alle spalle in corridoio mentre andavi al bagno, e ti rifilava o delle cose da fare, o una ramanzina sul fatto che non eri a studiare o pregare (anche se avevi il canonico rotolo di carta igienica in mano).

Una volta fummo ospitati presso un seminario le cui camere sembravano quelle di un albergo a quattro stelle, tranne per tendaggi e coperte. Mi sembrava imbarazzante stare in una camera così grande, lucida e luminosa, quando negli anni precedenti avevo dormito per l'intero anno in sgabuzzini appena ai limiti della decenza.

A tavola pure era così: posate vere tutte uguali e addirittura lucide, sedie comode da ristorante, ambiente spazioso e luminoso... e in compenso tovaglie e pietanze erano arrangiati alla buona. Evidentemente era un albergo riattato a seminario. La cappella era stata ricavata da quello che doveva essere un locale di servizio. Pur luminosa, era spoglia e asettica.

Insomma, tutto era curato, tranne il cibo per il corpo e quello per l'anima.

Un altro episodio della mia vita di seminario. I seminaristi - e ancor più i preti - erano invidiosi della mia amicizia con una novizia, amicizia che precedeva le nostre rispettive vocazioni. Un normale affetto tra amici era per loro come fumo negli occhi. L'omosessualità repressa porta sempre a uno strano genere di gelosie: per esempio una volta il mio commilitone soprannominato "la vipera", fra lo sdegnoso e l'irridente, mi definì il protettore di quell'ordine di suore.

Un altro commilitone venne a dirmi che dovevo stare alla larga da quella lì perché "le voci corrono". In altre parole, il tizio fu adoperato dal prete "animatore" per farmi avere indirettamente una minaccia.

martedì 28 marzo 2017

"Questi vogliono farmi fuori!"

Il citato seminarista "madre superiora" ebbe la bella pensata, nei primissimi giorni di seminario, di uscire di pomeriggio in corridoio in pigiama. Evidentemente era un diritto che aveva acquisito nel seminario minore (e che dimostrava quale considerazione si aveva lì per il sacerdozio). Fu solo per le sguaiate risate dei commilitoni che smise di ostentare l'attitudine pantofolaia.

Alla vacanza estiva obbligatoria dei seminaristi del secondo anno non si presentò: era stato "aiutato a capire" che doveva lasciare il seminario (altrimenti la sua assenza alla vacanza sarebbe stata considerata un gesto gravissimo). La notizia della sua espulsione non era ancora ufficiale, ma già la prima sera della vacanza qualcuno osò scherzarci su: imitando la sua voce, si lamentò dicendo: "mamma! la comunità mi prende in giro! il rettore mi prende in giro! l'animatore mi prende in giro! mamma! questi vogliono cacciarmi via!"

Intervenne l'animatore immediatamente, con una voce gelida, dicendo: "qui nessuno vuol cacciar via nessuno". Era una minaccia, perché quando un prete parla occorre considerare come ipotesi seria sia quello che ha detto, sia il suo esatto contrario. Per cui nessuno ci scherzò più su.

Nel settembre successivo, inizio del terzo anno, il soggetto era misteriosamente assente: "ha deciso di prendersi un periodo di riflessione", disse l'animatore. Che tradotto dalla lingua pretesca significa che è stato cacciato via. Così, colui che aveva scherzato alla vacanza, dopo essersi assicurato che l'orecchio dell'animatore fosse nella più remota lontananza, ripeté la scenetta: "mamma! la comunità mi prendeva in giro! il rettore mi prendeva in giro! l'animatore mi prendeva in giro! mamma! questi mi hanno scacciato via!"

"Mamma" era sempre stata un'allusione al fatto che il figuro telefonava a sua madre quasi ogni giorno, per raccontarle spontaneamente cosa aveva mangiato, come aveva dormito, cos'era avvenuto a lezione, e forse anche per lamentarsi. (sì, un candidato al sacerdozio totalmente "mammone", con l'attitudine e l'intelligenza di un bambino di sette anni, e forse anche per questo è stato fatto fuori).

La "comunità" - cioè buona parte dei seminaristi - seguendo l'istinto del branco concesso dalli superiori davvero prendeva in giro il soggetto, visto che l'abuso di bevande gassate e l'attitudine a darsi per malato a partire da temperature di 36,1° era abbastanza frequente. Quando lo stesso rettore ne fece in sua assenza un'imitazione, e quando lo stesso animatore sempre in sua assenza ne imitò gesti e parole, fu chiaro che volevano cacciarlo via. Molto tempo dopo se ne rese conto lui stesso.

L'ultimo ricordo che ho di lui è una sua vanteria, che si ingigantiva man mano che annuivo, secondo cui una ventenne lo aveva già eletto come suo direttore spirituale ed aspettava la sua ordinazione per poterlo avere anche come confessore. Un'idiozia di dimensioni epiche, visto che un prete cretino celebra validamente i sacramenti e ha la grazia di stato, ma un seminarista non può celebrare un tubo e non ha nessuna grazia (e i "ministeri istituiti" di cui eventualmente gode il suo curriculum valgono zero spaccato al di fuori delle liturgie: prima del diaconato è perfettamente sostituibile con un laico qualsiasi).

sabato 18 marzo 2017

Lamentano scarsità di vocazioni, ma intendono mestieranti di parrocchia

Quando vieni ingiustamente colpito, provi dolore e spesso anche risentimento. Ma quando vieni ingiustamente massacrato, oltre ogni immaginabile limite, non hai più nemmeno le forze per provare risentimento. Semplicemente ti rendi conto, proprio a causa dell'atroce dolore, che Nostro Signore sta assistendo attentamente alla scena.

Così, quando il vescovo mi disse che non intendeva in alcun modo portarmi al sacerdozio, lo ringraziai, perché non mi veniva in mente altro. Gli ripetei di essere convinto di essere chiamato al sacerdozio: se perciò non sono adatto alla diocesi, dove devo andare? La domanda era più che lecita: si suppone che un vescovo che ti ha accolto da parecchi anni in seminario, che ha letto attentamente tutte le carte che ti riguardano, che ha parlato di te con tutti i suoi collaboratori di fiducia per tutti questi anni, debba avere un'idea di ciò che potresti costruttivamente fare per la Chiesa.

E invece no. Non ce l'aveva. Farfugliò un non so, passò qualche interminabile e pesantissimo secondo di silenzio, e poi disse che potevo entrare in qualche ordine religioso, o in qualche altra diocesi (esatto: disse che non sono adatto al sacerdozio in diocesi, e poi dice che potrei essere adatto in un'altra diocesi).

Quindi disse che lui era competente solo per la propria diocesi, che poteva dire solo sì o no per il sacerdozio nella sua diocesi. Col sottinteso che il resto non lo riguarda. Dopo che per tanti anni era stato il riferimento ultimo della mia vocazione, mi ha candidamente dichiarato di non avere alcuna idea sulla forma della mia vocazione.

Può darsi che la responsabilità di tutto sia veramente sua. Oppure può darsi che doveva ubbidire all'ordine perentorio di qualcuno che lui temeva. Fu ovviamente irremovibile, e perennemente sulle spine perché temeva che qualche goccia potesse far traboccare il vaso. O forse addirittura se lo augurava: non c'è niente di meglio del poter dire che un seminarista ha dato in escandescenze lì in episcopio, e quindi è da espellere perché esaurito, disubbidiente, e incapace di dialogare. Invece no: mi ero limitato solo a ringraziare, in modo naturale, senza alcun sarcasmo.

Uscito verso le scale, inforcai gli occhiali da sole. Non volevo che qualcuno vedesse le mie lacrime. Uscii dal portoncino e presi la stradina in salita, in direzione opposta rispetto a casa: avevo assoluto bisogno di fare due passi, e di sostituire con aria pulita l'arietta pesantemente velenosa e diabolica respirata lì dentro.

Da quel giorno non solo ho sempre evitato di contattarlo: ho anche evitato di partecipare a liturgie in cui ci fosse anche un minimo rischio della sua presenza, o del rettore del seminario, o dei preti diocesani che avevano contribuito a mettermi nei guai. Dopo che hanno giocato con gli anni della tua vita, ingannandoti, "mettendoti alla prova" (cioè sprecando e agendo con inutile sadismo), non riesci più a guardarli in faccia, non hai nemmeno le forze per maledirli, se mai le avessi avute.

Il vescovo era stato maledettamente chiaro e preciso quella volta che mi disse che non intendeva portare al sacerdozio coloro che riteneva inadatti all'incarico di parroco. Come a dirmi che il sacerdozio coincide col mestiere del parroco, ed in particolare il parroco-manager-clown in voga al momento. Come a dire che il donarsi a Cristo nella forma della vita sacerdotale è un puro accessorio, anzi, non deve ostacolare il mestiere del parroco. Una legge che naturalmente valeva solo per le vocazioni recenti, visto che in diocesi c'erano parecchi preti che in vita loro non erano mai stati parroci.

Tutto ciò strideva con la comica gestione della diocesi, dove gli incarichi di parroco venivano centellinati con estrema parsimonia, in modo da mantenere precari i preti che non si piegavano alle mode clerical-progressiste, e da far salire le quotazioni al borsino curiale dove i volponi di lungo corso potevano meglio speculare. Non sia mai che capitasse una parrocchia dove non ci vuole andare nessuno: e ora come la si copre? Dove lo si reperisce un prete ubbidiente, dal momento che le vocazioni di quel genere le abbiamo soppresse tutte?

Io chiedevo solo di vivere il sacerdozio. Celebrare Messa, amministrare sacramenti, insegnare le cose della fede... "Non era dei nostri, perciò glielo abbiamo proibito". Non ero dei loro. Non ero la checca-clown approvabile dal team degli scrupolosi vagliatori controllori.

"Ma la vita sacerdotale è anche altro", mi aveva detto una volta il vescovo. Notò che lo fissavo, e tentò di tirare fuori qualche esempio. Gli vennero solo astrazioni: "per esempio, dialogare con la gente". Continuai a fissarlo, cercando di capire in quale Vangelo ci fosse scritto "andate e dialogate con la gente della parrocchia e talvolta pure fuori parrocchia: siate gli amiconi del quartiere per i borghesotti annoiati in vena di clericalate, siate l'animale da compagnia per le persone che hanno tempo da perdere, e soprattutto non rovinate il sacro Dialogo con i doveri di stato".

mercoledì 15 marzo 2017

Preti modernisti, siete contenti adesso?

Avete sempre disprezzato la genuflessione («la posizione dei salvati è in piedi!» «io faccio l'inchino profondo!») e l'inginocchiarsi («devozionismo! medioevo! vecchiette!»): come vi sentite adesso che il papa retroattivamente convalida le vostre piccinerie? Soddisfatti? Contenti? Non è una soddisfazione un po' troppo magra?


lunedì 13 marzo 2017

Ora applaudono, ma tra un attimo perseguiteranno senza pietà

Fin dai primi giorni di seminario notai quell'ossessivo ripetere "i poveri, i poveri, dalla parte dei poveri, opzione preferenziale per i poveri, i poveri..." e quindi c'era tutta una gara (a parole che poi non sfociavano troppo nei fatti) a chi baciava i piedi al negro (non sia mai che un pensionato minimo italiano, magari addirittura cattolico, venga considerato "povero").
Salvo poi evitare in ogni modo di inginocchiarsi al Santissimo e guardare in cagnesco chi era anche soltanto sospettabile di pregare segretamente in latino.

I desiderata (desideratissima) dei nostri formatori del seminario sono stati tutti esauditi. E adesso?



mercoledì 1 marzo 2017

Un sacerdote in meno, tante anime a penare in più

Un mio sogno ricorrente: uscendo dal cortile per entrare in macchina, vedo in strada tante persone che avrebbero bisogno di un passaggio. Una donna anziana mi chiede con timoroso garbo se ho un posto libero. Altri, più timidamente, si limitano a guardarmi da lontano nella speranza di cogliere un mio cenno. Costernato, devo risponderle che non ho più posti. Lei mi ringrazia in silenzio, con un breve sorriso, e si allontana. Molti degli altri continuano da lontano a gettarmi qualche timida occhiata, senza parlare, aspettando che qualcosa cambi.

Nello svegliarmi non posso fare a meno di ricordare tutte quelle anime del purgatorio altrimenti dimenticate. E tutte quelle anime viventi che avrebbero bisogno di un sacerdote... ed è stato loro negato. Negato dai vescovi e dai formatori del seminario. Negato dalla mentalità secondo cui il "presbitero" (non sia mai che dicano "sacerdote") dev'essere un uomo di dialogo, un tessitore di comunionalità, uno "vicino alla gente", talmente vicino alla "gente" da ignorare coloro che hanno bisogno di lui per un sacramento, un insegnamento, una guida. La pastorale è infatti in antitesi ai tre munus sacerdotali. Una parrocchia viva è quella dove più si celebrano spettacoli, riunioni, giochi, giornalino, sagre, gruppi, volantini, raccolte fondi, cartelloni, tornei, cineforum, campi scuola, vacanza estiva... La pastorale per una parrocchia viva è infatti quella che la riduce a un'ente morto e inutile, un circolo ricreativo in cui il sacro è solo uno degli accessori secondari e magari anche trascurati.

Non mi illudo certo che la buona volontà mi avrebbe fatto evitare danni una volta giunto al sacerdozio. Ma ciò che mi aspettavo dalla vita sacerdotale era drammaticamente diverso da ciò che si aspettavano i miei compagni di corso. Per i quali, senza mezzi termini, la prima ambizione era rimediare un incarico da parroco, cioè un distributore di prediche stipendiato dalla curia, con entrate economiche supplementari dalle offerte per i sacramenti, e con un piccolo regno (la parrocchia) su cui spadroneggiare. Dopo un certo numero di anni, magari, accedere a qualche incarico importante con supplemento di stipendio e forse pure un titolo da monsignore, e per i più ambiziosi (cioè almeno metà dei compagni di seminario) pure l'episcopato. Le anime, cioè le pecorelle da pascere, c'entrano solo come consistenza numerica del proprio successo, solo come parco buoi che volontariamente sgancia qualche soldino. E le anime del purgatorio - quelle per le quali mi capitava quel sogno ricorrente - sono al massimo l'etichetta in nome della quale aspettarsi il pagamento per le intenzioni a tariffa standard.

martedì 21 febbraio 2017

Il privilegio della camera singola

All'epoca vinsi una stranissima lotteria: in tutti gli anni di seminario maggiore sono sempre stato in camera singola.

La fissazione di rettori e animatori, pur avendo a disposizione camere libere, era di imporre almeno un anno di camera doppia ad ogni seminarista (salvo ovviamente i super raccomandati di turno). Lo scopo dichiarato era quello di ottenere un reciproco smussare gli spigoli del carattere. Ciò che invariabilmente ottenevano era la trasformazione dei malcapitati in ferratissimi ipocriti e professionisti della mediocrità - e probabilmente era proprio questo il vero risultato che segretamente i formatori speravano.

Una volta, all'inizio del terzo anno, corse voce che sarei stato assegnato in camera con uno che l'anno precedente aveva guadagnato la nomea di dormiglione (e il sottoscritto, che di mattina arrivava in cappella appena uno o due minuti prima della Messa, pure stava per guadagnarsela). Non so se i commilitoni lo avessero dedotto dal fatto che per due anni consecutivi eravamo entrambi stati in camera singola, oppure avessero udito qualche mezza parolina dal prete animatore: in ogni caso bramavano di osservare la mia reazione e perciò fecero in modo che la notizia "accidentalmente" fosse recepibile a distanza ragionevole dai miei timpani.

In un lampo decisi che la tattica migliore era quella di dare per scontato che la camera doppia fosse inevitabile in modo da spostare l'attenzione dalle mie reazioni alle loro. Mi permisi perciò di scherzarci su: "ecco, sulla porta ci scriveremo grosso così: Dormitorio".

Un quarto d'ora dopo venne l'animatore a distribuire le stanze e miracolosamente finii in una singola. Avevano capito la minaccia e notificato al volo all'animatore. Avrei lasciato il dormiglione dormire ogni santo pomeriggio. Avrei adottato la tecnica del vivi e lascia vivere, tanto più con uno che in cambio del dormire in santa pace avrebbe fatto altrettanto. Avrei insomma sterilizzato lo "smussare spigoli" e la "mediocrizzazione" pretesi dai formatori, puntando al ribasso e garantendo complicità ad uno altrettanto seccato. Il dormiglione fu poi espulso alla fine di quell'anno per la gelosia di un altro prete animatore, ma questa è un'altra storia.

Nota: il seminario in teoria è tempo di preghiera e di studio, dove teoricamente i futuri sacerdoti vengono nutriti di buona spiritualità e buona dottrina, teoricamente senza stressare né il fisico né lo spirito. In pratica è un raffazzonato ammasso di attività che presume che la giornata del seminarista duri 48 ore. Col risultato che in ogni momento si è assillati dal dover completare (o magari solo del far risultare completate) altre attività. Per esempio, con la scusa del libro di meditazione, in cappella ci si porta gli appunti dell'esame. Durante le lezioni si prepara il manifestino per la sala comune. Durante la conferenzina obbligatoria si sonnecchia ad occhi aperti per recuperare qualche minutino delle mancate ore di sonno. Le pulizie della camera si rinviano fino a un momento prima che qualcuno entri. Ci si porta il telefonino ovunque, di nascosto, per poter sfruttare i momenti morti per inviare messaggi. Quando possibile, si fugge dal refettorio non appena ingollato l'ultimo boccone. In certe occasioni addirittura si cerca di servir Messa in modo da poter scappare via dalla sagrestia dopo la processione d'uscita mentre i poveracci stanno ancora eseguendo il lagnoso e inevitabile canto finale. Per gli esami di teologia si sottolinea una mezza frase per ogni pagina (col sottinteso che il resto della pagina è da ignorare) perché quella roba è talmente fumosa e autoreferenziale che basta ricordare un paio di parole per costruirvi una risposta quasi accettabile.

Tutto questo degenera in caso di camera doppia. Una camera doppia significa che qualsiasi cosa che hai risulterà "puzzolente" (il tuo compagno di stanza dirà immediatamente al branco cos'è che non profuma di lavanda). Il branco saprà presto di ogni minuto di ogni tua attività personale (incluse preghiera e studio, incluse defecazioni e minzioni), talvolta se ne farà beffe, talaltra la vanterà (ma non è un fatto positivo, perché poi tutti si aspetteranno che tu ripeta quel risultato e lo migliori nel tempo), mentre gli animatori prenderanno sul serio quelle beffe e quelle lodi e te le faranno pesare a morte.

mercoledì 18 gennaio 2017

Cosa sforna il seminario


Molti miei ex commilitoni, oggi tutti preti, da seminaristi amavano simulare liturgie. Nelle calde sere di inizio estate prendevano un'ostia dalla credenza, si sedevano accanto alla finestra e tenendola tra e dita recitavano: Padre veramente santo...
Erano gli stessi che in assenza dei pretazzi amavano paludarsi di camici, stole e casule (quelli veri) e chiedere seriamente ai commilitoni: come mi sta?

Ma uno dei loro giochi preferiti era fingersi vescovo. Un bastone da tendaggio o una scopa andava bene come pastorale; per la mitria, le rare volte che non ne potevano pescare una vera nell'armadio della sagrestia, utilizzavano la scatola del panettone - qualcuno se l'era addirittura ritagliata nel cartoncino. Impugnato il "pastorale", iniziavano l'omelia. Inutile dire che l'omelia era perfettamente compatibile con quella del vescovo (soprattutto imitandone la cadenza e i tic), perché composta dalle solite frasi fatte e politically correct.

Inutilmente ricordai loro più volte che simili atteggiamenti - dello scherzare sulle cose sacre e addirittura giocare con i paramenti - erano sufficienti come impedimento all'ordinazione. Avrei dovuto ricordare loro che erano anche segno di riduzione della fede a recita di frasi e messinscena di gesti, ma dubitavo seriamente che fossero capaci di capire un concetto del genere.

Non capivano un'acca di latino, ma amavano sciorinare paroloni greci ed ebraici nelle conversazioni; consideravano il sacerdozio un mestiere, il mestiere del parroco che somministra un po' di bigotterie (testuale!) alle vecchiette che devono mollare le offerte, e avevano come obiettivo il lanciare attività (a cui poi avrebbero dovuto lavorare i leggendari "volontari" delle parrocchie) e raccogliere applausi e lodi; consideravano peccato solo ciò che verrebbe annuciato con sdegno e disprezzo nei notiziari televisivi. Tutti sintomi di una chiara vittoria del gesuitismo anni prima del Bergoglio.

Pur essendo i formatori a conoscenza di simili atteggiamenti, tali soggetti sono tutti puntualmente giunti al sacerdozio perché da diversi decenni i vescovi premiano solo la mediocrità. Vogliono preti intercambiabili in modo da poterli spostare di parrocchia in ogni momento: non appena avviene un pasticcio da qualche parte, si prepara il valzer delle nomine, e cominciano i dolori di pancia di chi vuole una parrocchia, di chi non vuole quella assegnata, di chi non vuole essere trasferito, di chi accetta solo se un certo altro prete viene trattato peggio... e tutto puntualmente si risolve nel pestare chi ubbidisce e nel lasciare in pace chi disubbidisce. Per cui il loro ideale di sacerdozio è un soggetto insignificante che non lascia ricordo di sé, sostituibile con uno altrettanto insignificante e dimenticabile e la macchina della "pastorale" può proseguire senza perdere un colpo.

Preti "intercambiabili", cioè appiattiti: non sia mai che uno abbia qualche idea diversa dal mainstream fatto di campi scuola (dilettanti di turismo religioso allo sbaraglio), ottavari (guai a chiamarli novene, guai a farli normalmente), gestione gruppi (la fissazione del voler far sentire ogni laico un "protagonista" di qualcosa), attivazione di qualsiasi iniziativa in cui ci si possa infilare dentro la parola "giovani" che va sempre di moda.

Ecco perché le Messe si sono ridotte a un elenco di formulette e canzonette che circondano il sacro momento dell'Omelia - cioè quei venti minuti di insulsa predica domenicale. Ecco perché i preti gggiovani sono così insignificanti anche all'apice della loro vita sacerdotale.

Episodio. Nel primo anno di seminario maggiore, i commilitoni ebbero la geniale idea di fare un breve sketch comico in refettorio. Un gruppetto di loro adoperando i camici e qualche altro panno bianco si travestì da suore e si produsse in una serie di battutine poco originali oltre che inutilmente volgari, facendo infine entrare con tutti gli onori un seminarista grassone travestito da "madre superiora", strappando così un diluvio di applausi da tutti, compresi i formatori (e il rettore stesso, che aveva pregato tutti di non alzarsi subito perché ci sarebbe stata la breve scenetta comica).

Il sottoscritto non applaudì. Ma si sentì osservato. Cercò di non far notare di provar vergogna al posto di quei dementi. Ma fu osservato, da qualcuno che prese nota e se la legò al dito.

lunedì 9 gennaio 2017

Il rettore frocio

Premessa: gli ingegner Spaccapelo e i cani di Pavlov restino nella cuccia - questa paginetta non riguarda politica o sesso.

Sì, nel parlare di quel rettore di seminario m'è venuto da indicarlo sprezzantemente come frocio. Non intendevo il problema dell'omosessualità in sé ma le conseguenze per i seminaristi della mentalità che da essa viene generata o facilitata.

La sessualità non naturale (pornografia, omosessualità, onanismo...) non sazia l'istinto. Per cui da un lato rende l'uomo schiavo (perché tenta sempre di più di saziarsi con qualcosa che non sazia) e dall'altro influenza il modo di considerare sé stessi e il prossimo.

Il seminario è un ambiente chiuso ed esclusivamente maschile. Dunque un rettore di seminario con qualche tendenza omosessuale anche soltanto latente avrà di conseguenza un metro di giudizio intaccato da tale tendenza verso qualcosa di non naturale.

Le sue simpatie, le sue preferenze, le sue valutazioni, i suoi momenti di generosità e di severità, ecc., non saranno più esclusivamente legati ai legittimi gusti (il rettore milanista), ai legittimi timori (il rettore con la fissa contro gli sprechi), ad argomenti che la ragione può ricondurre sui giusti binari (il rettore avaro, il rettore autoritario, il rettore attento al prestigio...), ma a qualcosa di non naturale.

Col risultato che negli anni la sua solitudine diventa inconsapevolmente l'alibi per l'allestimento del suo harem, la generosità diventa favoritismo a coloro che in qualche modo lo attraggono, la cura spirituale diventa inclinazione a lasciarsi a poco a poco soggiogare da quelli che hanno anche solo simbolicamente a che fare con la sua sete di qualcosa che non disseta...

Basta poco tempo in seminario - al massimo qualche mese di fronte ai casi più latenti - per rendersi conto di aver a che fare con un rettore con inclinazione. In tal caso è opportuno fare immediatamente le valigie perché è una guerra persa in partenza. Sono invece tantissimi che come me hanno appreso troppo tardi, e a prezzo troppo caro, la lezione.

È una dannosissima illusione il credere di poter resistere nella sopportazione, nell'ubbidienza, nella preghiera, nel farsi amici i suoi figliuoli prediletti. Perché significa in fin dei conti o contare solo sulle proprie forze, o esigere ciecamente un miracolo. Gli dai cinque, pretenderà dieci. Gli dai dieci, dodici, quindici, chiederà trenta. Gli dai quaranta, cinquanta, si lamenterà che non hai dato almeno duecento. Non sei del suo harem e perciò ti renderà a poco a poco la vita un inferno. Il cappio attorno al tuo collo può solo stringersi. Con la scusa del metterti alla prova tenterà in ogni modo di farti saltare i nervi, tanto più se si accorge che hai ragione, e ancor peggio se si renderà conto che sai bene che ai membri del suo harem e al suo figliuolo prediletto non è stato chiesto nemmeno un centesimo di quanto viene severamente esigito da te. Tu hai un difettino? Questa cosa non va bene, anche l'anno scorso ti avevo detto che dovevi migliorare ma ancora non vedo frutti, ancora non sei convincente, anzi, si direbbe che sei anche un po' peggiorato... Il suo figliuolo prediletto ha una sfilza di seri difetti? Crescerà, col tempo sicuramente maturerà, lo so io che sono il rettore, che ne puoi sapere tu?

Adopererà con malizia ogni versetto del Vangelo per stritolarti, sorridendoti mentre ti mente, adulandoti mentre prepara una relazione di fuoco e fiamme contro di te, promuovendoti (di qualche bazzecola) mentre mette in giro false voci su di te, quelle sue mani che alle otto ti amministrano l'Eucarestia alle otto e venti vergheranno nero su bianco calunnie contro di te. Non ci sarà mai verso di fargli cambiare idea, né scappatoia ragionevolmente protetta dai suoi colpi di coda nel caso venga sostituito. Si può solo peggiorare: ma lo sa solo chi in seminario c'è stato dentro per davvero, lo sa solo chi ha avuto da ubbidire a dei gai formatori.

Un prete che riconosca di avere anche solo qualche tendenza latente rifiuterebbe di essere posto in un ambiente come il seminario, tanto più con l'incarico di rettore o vice-rettore. Non ci meraviglieremmo se un prete poco casto (anche solo nei pensieri) rifiutasse di essere rettore di una comunità di giovani donne, vivendo con loro in un ambiente chiuso, sia pure qualora le giovani in questione non siano proprio dei fiori di rinomata bellezza. Eppure, di fronte alla tendenza all'omosessualità di un rettore di seminario, non troviamo molto da ridire a che la volpe (anche solo tendenza alla volpe) venga infilata a comandare nel pollaio. A te pollo, con pressappochismo se non cinismo, ti si dirà: resisti, prega, coraggio, pazienta, resisti, prega di più...

Non c'è verso. E se qualcuno stesse ancora pensando "ma io conosco un caso che... io ho visto uno che ce l'ha fatta... la preghiera... bla bla bla...": non c'è verso, e ripeto: non - c'è - verso!

La svirilizzazione del clero postconciliare è dovuta proprio ai seminari ridotti ad harem di mezzi uomini.