sabato 9 marzo 2024

Quelli che confondono la vocazione con l'incarico diocesano

Se ti danno un calcio negli stinchi ti sfugge un'incomprimibile espressione di dolore. Lamentarsi no fa passare il dolore, ma è un segno che il dolore c'è ancora, che un danno è stato fatto. E se a quel calcio ne seguono altri dati con la stesso cinico sadismo, ci vorrà ancor più tempo prima che il dolore si attenui. E se quei calci sono durati per tanti preziosi anni della tua vita...

In tempi normali i pastori della Chiesa si chiederebbero: il candidato ce l'ha la fede? è convinto di avercela la vocazione? ce l'ha una dirittura morale? bene, tre risposte positive, lo si può ordinare, nella vigna del Signore c'è sempre bisogno di altri operai, poi si vedrà.

Ma non viviamo in tempi normali. Viviamo in tempi in cui l'esimio vescovo ebbe a dirmi che lui ordinava "per la diocesi", cioè con l'intenzione di dare nomine in parrocchia, utili alla diocesi, cioè se non riteneva adatto a tali incarichi il candidato, che quest'ultimo se ne andasse altrove. Lo diceva con convinzione, con tutta una complessa selva di espressioni per addolcire l'amara pillola, ma il senso era quello: mi stava dicendo che il sacerdozio per lui era un incarico, che la vocazione coincide con l'incarico in parrocchia. (Quando mi ci ritrovai a tu per tu osai chiedere con curiosità e senza alcuna ironia - all'ispettore dei salesiani, al provinciale dei gesuiti, ecc. - come fosse originata la loro vocazione, e seppero rispondermi solo con un elenco di attività svolte in gioventù, come se non avessero mai vissuto quel terremoto interiore, quella scoperta a cui ci si arrende con commozione e gioia, quel percepire l'inizio di una vita nuova che rende ridicola quella precedente, vita nuova che qui osiamo chiamare "vocazione").

E quando a quel vescovo che confondeva la vocazione con l'incarico in parrocchia mi permisi di chiedere "se non qui, dove?", non seppe rispondermi. Non mi voleva in diocesi ma dopo tutti gli anni di "formazione" non aveva idea di dove sarei stato adatto. Menzionò un paio di ordini religiosi a caso, come lo studentello impreparato all'esame che tenta di buttarla in calcio d'angolo. L'unica emozione che sembrò tradire fu il sollievo quando finalmente stavo andando via.

Ma anche quel bravo vescovo disponibile ad accogliere me e altri due amici nelle mie stesse condizioni finì per spedirci dal suo Responsabile delle Vocazioni, un pretino insulso che cominciò tutta una severissima litania: non è detto che vi accoglieremo, non è detto che diverrete preti, non è detto che entriate in seminario, non è detto che completerete il periodo di prova, che non si sa quando comincerà e non si sa quanti anni durerà... Quando ci fece questo discorsetto, avrei dovuto chiedergli se lui, a suo tempo, fosse stato "accolto" allo stesso modo (più fanno omelie sull'"accoglienza", e più si comportano da cinici persecutori e muri di gomma), o meglio, chiedergli: ma scusa, la tua vocazione in cosa consiste? Voglio anche venirti incontro e presumere che alla diocesi si siano presentati candidati stranissimi, loschi, senza fede, senza vocazione, senza dirittura morale, ma tu, ancor prima di conoscerci - e nonostante il parere positivo del tuo stesso vescovo - già ci stai facendo capire che ci ostacolerai in ogni modo? Ma tu che sei Responsabile delle Vocazioni, te l'hanno mai spiegato cos'è una vocazione?

E se proprio non capisse, insistere e chiedergli: te l'hanno mai spiegato che questa è una diocesi? Cioè non è un ordine religioso dove al candidato sono richieste delle qualità in più. Un francescano puoi declassarlo a diocesano senza fatica, ma un diocesano, per promuoverlo a francescano, devi prima assicurarti che sia propenso a digiuni e povertà, dico bene? Di cosa diavolo avete paura quando siete così precisini, così schizzinosi, così diffidenti?

(Ve lo dico io: vogliono una diocesi fatta di clown intercambiabili; vogliono che nello scambiare i parroci delle parrocchie X e Y nessuno si accorga della differenza perché le prediche sono sempre le stesse - specialmente nell'insignificanza -, che le attività siano sempre le stesse, che i sottoincarichi - specialmente del sostituto del viceresponsabile delle fotocopie - restino sempre gli stessi: vogliono dei robot anonimi, non dei sacerdoti)

giovedì 14 settembre 2023

Quando chiami il taxi non gradiresti per tassinaro un ragazzino senza patente

Una delle più memorabili scene della mia vita vocazionale: siamo in macchina, io e il pretonzolo a cui ero stato affidato, comincia a grandinarmi addosso una serie di accuse solidamente campate in aria. Inizia con la cazziata proibendomi l'hobby della fotografia (proprio quell'hobby che aveva consentito di creare il sito web per mettere lui e la sua opera in bella mostra), quindi altre accuse insulse che servivano solo a preparare la stangata finale del "non sei andato a dire il rosario in casa del morto", col sottinteso che alla successiva tornata di ministeri non avrei ricevuto l'accolitato che mi era stato promesso.

Mi divenne rapidamente chiaro che era una decisione già presa altrove e che gli occorreva fingere che fosse almeno un pochino motivata e che l'unica pezza d'appoggio fosse quell'episodio di un paio di giorni prima. Sto elencando questi dettagli apparentemente secondari solo per descrivere quel meccanismo perverso generalmente etichettato come clericalismo, che contiene quell'attitudine clericale a fabbricare accuse al momento del bisogno, come esemplarmente descritto nel Vangelo ("prima arrestiamo Gesù, poi dopo troveremo una scusa per giustificare l'arresto"). Non si lasci prendere dalla pigrizia mentale il lettore stanco: il contesto non è "il rosario dal caro estinto", ma il metodo pretesco di adoperare un evento del tutto casuale come pezza d'appoggio per fabbricare una scusa con cui giustificare una decisione ingiustificabile.

Dunque si trattava di un defunto della parrocchia e né il pretonzolo né il diacono avevano voglia di andar lì. Come da già inveterata abitudine, il pretonzolo rimbalza il cerino acceso nelle mani dell'ultimo seminarista arrivato, cioè il sottoscritto, giacché l'altro seminarista - essendo il figliuolo prediletto del pretonzolo - non era disposto a compiti che non gloriassero il proprio presuntamente elevatissimo pedigree ecclesiale. Cioè un emerito sconosciuto ultimo arrivato - il sottoscritto - avrebbe dovuto presentarsi in casa del defunto e dire paciosamente a tutti: salve, diciamo un rosario per il caro estinto, sperando che fra gli astanti ci fosse almeno qualcuno che sapesse recitarlo e accettasse.

Fermo restando che la cosa non mi era stata chiesta per ubbidienza e neanche ventilata come possibilità ma era solo stata distrattamente accennata in termini impersonali ("bisognerebbe che qualcuno vada a casa del defunto": il classico discorso di un don Abbondio qualsiasi che riflette ad alta voce per darsi una scusa per non andarci, come se fosse già convintissimo che ai parenti del defunto non interessasse), sarebbe stato piuttosto bizzarro presentarmi lì in abiti civili, da seminarista postulante che ha solo il lettorato, preso non lì ma a centinaia di chilometri di distanza (e ricevuto da un vescovo che per tutto il tempo della formazione aveva cercato un alibi per dimettermi), e organizzare una scenetta religiosa di ossequio alla confusa religiosità degli autoctoni, per poi tornare in sede e farmi cazziare dal prete perché all'eventuale offerta avrei certamente risposto "fatela in segreto in chiesa quando solo Dio vi vede" anziché portare qualche bel bigliettone al pretonzolo sfaticato e avido.

L'ho imparato a mie spese - e troppo tardi - che quando un pretino comincia a cercare scuse per ostacolarti la "carriera", e lo sa benissimo che tu sai benissimo che lui sta cercando scuse, non ti resta che sbaraccare e andar via senza salutare, perché non solo è diventato tuo nemico, ma pretende pure che tu finga di non accorgertene, perché vuole pilatescamente uscirsene con le mani lavate: per chi disprezza le vocazioni, la maggior soddisfazione possibile è togliersele dai piedi potendo accampare una o più delle solite scuse ("se ne è andato spontaneamente, si è preso un periodo di riflessione, ha ritenuto che non fosse la sua strada, non si trovava bene, ha sbroccato senza motivo..."), proprio come quelli che credono che ingannando gli uomini riuscirebbero poi ad ingannare anche il Signore.

Quando mi scaricò addosso come fulmine a ciel sereno quella ridicola scaletta accusatoria, l'istinto mi diceva di aprire la portiera, uscire dalla macchina e tornare a piedi (anche se erano parecchi chilometri) a far le valigie e sbaraccare. Ma lì sulla statale a cinquanta all'ora non era il caso. Mi difesi per quanto ragionevolmente e cautamente possibile, tacendo quando mi resi conto che i giochi erano già fatti, e a poco a poco mi convinsi (madornale errore!) che forse sarebbe bastato pazientare un anno in più, due anni in più del previsto, mi convinsi (ingenuità giovanile!) che continuando col fair play, con quella correttezza che dovrebbe positivamente stupire i diffidenti, qualcosa poteva migliorare, mi convinsi nella speranza di non lasciare nulla di intentato... pur sapendo che i preti sufficientemente virili da apprezzare quel fair play sono una minoranza assoluta. Ma neanche quando io e gli altri acquisimmo il "diritto" di vestire la talare tutto il giorno sarebbe stato il caso di mandarci "dilettanti allo sbaraglio" a "celebrare" un rosario a casa di un defunto. Fino al diaconato sei un emerito signor nessuno e la scusa dell'esercitarsi nel ministero è solo uno squallido accettare di fare un po' di teatrino religioso perché qualche prete si stufa dei suoi sacri doveri o qualche laico vuol essere intrattenuto.

A tutti quelli che pateticamente mi chiedevano se non sarebbe stato meglio andar davvero a casa del defunto ho dovuto ricordare sia la necessità di considerare aria fritta le espressioni in forma impersonale - se mi comandi qualcosa dev'essere chiaro che me lo stai comandando, perché se accetto ambiguità ti sto invogliando a chiedermi in modo ambiguo qualsiasi cosa che non hai il diritto di chiedermi per ubbidienza -, sia il fatto che il seminarista è solo uno studentello qualsiasi (anche quando indossa talare, fascia e saturno), dopotutto quando chiami un taxi ti aspetti che alla guida ci sia proprio il tassinaro, non un ragazzino senza patente. Davanti alla Chiesa avevo solo l'ammissione fra i candidati all'ordine sacro (che si dà in genere dopo il secondo anno di seminario maggiore, e di fatto significa solo che il vescovo ufficialmente sa che tu esisti) e il lettorato (cioè il diritto/privilegio/incarico di leggere la prima o seconda lettura durante la Messa Novus Ordo... cosa che può fare un qualsiasi laico). E all'obiezione che anche un laico può guidare un rosario occorreva rispondere sgarbatamente: e allora mandaci un laico, incarica uno dei parenti del defunto, manda qualcuno che adori far teatrino e che non sia un emerito sconosciuto in quella casa.

Ma tanto è inutile. Per quel pretino - come per tanti altri pretini - i seminaristi sono solo dei camerieri, sguatteri, autisti, stiratori, rammendatori, pulitori del bagno. In tal caso, davanti a loro non è un padre e una guida, ma solo un caporale che li divide fra buoni e cattivi, tra il gaio Figliuolo Prediletto - col quale si attarda in tanto amorevoli quanto sterili conversazioni solitarie nella camera dell'uno o dell'altro fino in piena notte - e gli altri seminaristi che invece devono sgobbare e devono essere rimproverati anche ingiustamente in modo che il Prediletto possa continuare a sentirsi il migliore, l'unico che non viene mai sgridato. (E infatti già sgobbavano: mentre il Prediletto proseguiva a tavola vuote conversazioni a base di pizzi, merletti e peccati solitari, anziché lavare i piatti che era suo turno, il sottoscritto, seccato - ma guai a mostrarlo! - di aver già perso quell'oretta di prezioso riposo pomeridiano, si mise a lavare i piatti, ma neppure eventi come questo mi salvarono dalla condanna già scritta nei primissimi giorni). Lo ripeto, qualora un lettore distratto continui a pensare: "ma non si poteva ubbidire alla faccenda rosario dal morto?" No: non era una richiesta per ubbidienza, e no, non era un comando dato personalmente, e no, non era nemmeno specificato che ci dovessi andare proprio io, e no, il dare eccessiva importanza alle frasette ambigue ed impersonali creerà "il precedente" per farsi trattare in modo disonesto, e no, se proprio è tanto necessario il rosario a casa del defunto ci deve andare il sacerdote o il diacono transeunte (e che quest'ultimo si presenti dicendo subito che fra pochi mesi sarà sacerdote), perché non è compito dei seminaristi scimmiottare i preti facendo le cose che i preti si stufano di fare, così come il tassinaro non dà le chiavi a un ragazzetto qualsiasi dicendo "fattelo tu il giro di clienti oggi (e non fare il furbo coi soldi, anche le mance spettano a me)".

Dopo tanti anni mi giunge notizia che il sullodato pretonzolo era stato abbastanza maneggione da procacciarsi un'imminente consacrazione episcopale, per grazia di Dio probabilmente rinviata alle calende greche.

A meno di un'improbabile conversione infuocata sulla via di Damasco, devo etichettarlo maneggione, perché così l'ho conosciuto, così l'ho visto in azione, così mi si è giustificato per cose che diceva e faceva in mia presenza, e pur sapendo che nel corso di tanti anni la gente può talvolta cambiare abitudini e orizzonte di vita (io stesso sono cambiato rispetto a quegli anni), ritengo spettacolarmente improbabile tale sua conversione. E dunque, ricevuta l'anticipazione, mi torna in mente l'assoluta scorrettezza con cui mi trattò a suo tempo, non solo quanto alla clericalata dell'innominato defunto ma anche quanto al compiacere il suo frù-frù preferito, un seminarista col quale aveva un rapporto ambiguo, per dire il meno, più la nomea che si portava per lo stesso motivo (e verso altri giovani frù-frù accolti nelle sue comunità) negli anni precedenti. (Ironia della sorte, non glielo feci mai pesare)

A veder gente così che fa carriera sale un po' il magone (che merda di Chiesa si configura con soggetti del genere?), specie quando si tratta esattamente di quelli che fecero di tutto per calpestare la tua vocazione. Certe scenette, pur avendone viste tante, fanno sempre male. Il vescovo che riguardo al mio caso si faceva negare al telefono ordinò al sacerdozio lo scimmione del Borneo. Soggetti con seri problemi mentali venivano fatti andare avanti in seminario da un vescovo, portati al diaconato da un vescovo successivo, e infine al sacerdozio da un altro, ognuno a lasciare il fiammifero acceso fra le dita del successore, mentre contro di me cercavano il pelo nell'uovo. Venivano poi ordinati con tutti gli onori soggetti che nel giro di sei-dodici mesi chiedevano la riduzione allo stato laicale e su cui i loro stessi compagni di corso scommettevano che sarebbe durata poco. E nel frattempo salivano all'episcopato soggetti che come unico merito avevano un'elevatissima mediocrità. Con tutte le conseguenze che ne pagheranno i fedeli.

Fin da bambino ho avuto il dente avvelenato contro quei mezzi uomini che per inseguire le loro piccinerie sono prontissimi a venir meno alle regole da loro stessi stabilite. Come quel cretino che nella partitella a pallone aveva deciso che una certa cosa dovesse chiamarsi non rigore ma ri-goal, cioè da ripetere in caso di palo, fuoricampo o parata, finché non avesse raggiunto il goal che desiderava. O il cuginetto che si inventava nuove mosse negli scacchi più il privilegio (solo per lui) di tornare indietro sulle sue mosse sbagliate. O come quando mi venne detto che non c'erano più merendine, proprio mentre stavo per aprire il mobile che le conteneva: testardamente aprii e scoprii che perfino un fratello o una sorella, sull'onda dell'ingordigia e dell'avarizia, può mentirmi.

Avevo sempre pensato che certe piccinerie non potessero avvenire nel clero: è gente che ha nelle proprie mani ogni santo giorno il Corpo e Sangue di Cristo, è gente abituata a dispensare assoluzioni dai peccati più assurdi ai soggetti più recidivi, è gente che per forza di cose deve compulsare continuamente il Vangelo... e che se proprio ne combinano una, dev'essere per forza un caso isolato dovuto all'eccessivo stress. Pia illusione! Fin dai primi giorni del pre-seminario scoprii che non era così e che nel seminario maggiore - dove c'erano preti che almeno in teoria avrebbero avuto poco interesse a tartassare seminaristi che nel giro di qualche anno non avrebbero più rivisto - fu molto, molto peggio. Ancor oggi, quando riaffiorano certi ricordi, torna sempre quell'amaro in bocca per la totale disonestà con cui puntualmente venni trattato da preti e vescovi, gente che ogni santo giorno si cibava di quel Pane di Vita Eterna, e nelle domeniche e altre occasioni anche più volte al giorno.

La delusione venne anche da quelli etichettati come tradizionalisti, come il maneggione di cui sopra, e quelli di robotica militanza pluridecennale e certificata -, anch'essi affetti dalla sindrome di don Abbondio, in teoria pronti a farsi crocifiggere sottosopra per difendere un qualcosina della fede, in pratica più lesti di un topo di fogna a scappare di fronte a un minimo impegno di carità nei confronti di una vocazione. Avrei volentieri giustificato uno che si tira indietro nove volte ma alla decima fa almeno il minimo di quello che deve fare. Invece il meglio che ho trovato fu un prete sufficientemente virile da dirmi subito: non possiamo fare nulla per te, sottinteso, non perdiamo tempo per una cosa che se pure andasse in porto ci inimicherebbe vescovi.

Nemmeno i pretastri che a suo tempo avevano passato i miei stessi guai (quelli che avevano assaggiato lo stesso ostracismo clericale!) si lasciarono almeno minimamente impietosire. Avevano vissuto sulla loro stessa pelle quel che stavo vivendo io, eppure non lo ricordavano più: si erano trasformati, erano divenuti identici a quelli da cui erano stati ingiustamente calpestati. Ora che avevano fatto carriera erano leoni pronti a ruggire su temi poco impegnativi, ma pecore impaurite quando c'era il minimo rischio per le loro comodità Terrorizzati dal veder scalfiti i loro privilegi, i loro pranzetti, le loro prebende, avevano già dimenticato ciò che a suo tempo toccò loro subire. E quando anche la situazione era cambiata a sufficienza da dar loro un ricco alibi per telefonarmi e dirmi "dai, proviamo a riparlarne che magari adesso si può sistemare qualcosa", non lo fecero, non ricordavano più, avevano altre priorità, avevano un posticino in seminario solo per il giovincello di bell'aspetto. Qualcun altro, nel corso di tanti anni, è morto, portandosi davanti al Creatore anche le responsabilità sul mio caso.

Quando mi presentai con degli amici a far presente a Sua Eccellenza Reverendissima che noialtri si partecipava alla liturgia tridentina come gruppo stabile, incontrai nel cortile un vecchio commilitone del seminario - che nel frattempo era diventato prete - che mi annunciò tutto pimpante che erano in corso i saldi di fine stagione, incoraggiandomi ad andare tranquillo e deciso. Credeva davvero che ero lì per recitare la parte piagnucolosa di colui che vorrebbe rientrare in seminario, e mi disse di due o tre nomi - che a suo tempo erano stati defenestrati per fidanzamenti o grossa indecisione - erano rientrati con tutti gli onori e qualcuno già diventato prete. Fu inutile tentar di dire a tal pretino il vero motivo dell'udienza dal vescovo, e non avevo certo il tempo di chiarirgli cosa ne penso della vita diocesana, tanto più nell'infelice epoca bergogliona, dove il "corpo sociale" - cioè le lamentele degli autoimpegnati parrocchiardi - val più del "corpo mistico".

Mendicare l'accesso al sacerdozio non è servito. Scendere a ogni ragionevole compromesso non è servito. I veri nemici del sacerdozio sono interni alla Chiesa - e sono anche tra quelli che sembrano tradizionalisti. Hanno in mente un incarico, non una vocazione, anche se facessero mille omelie per spiegare che la vocazione non è un incarico. È come se credessero che la loro stessa vocazione non sarebbe una vocazione ma un incarico. Pretastri che si stufano di confessare, e che volentieri eviterebbero di dir Messa.

Soprattutto, non credono che una vocazione - in senso tale, cioè il sacerdote che celebra non per dovere ma perché la vive, perché sa degli infiniti effetti soprannaturali di ogni Messa - meriti di essere promossa se non ha evidenti "bonus" collaterali. Vogliono le vocazioni come il pacco di merendine: se non ci esce la figurina in omaggio non le comprano. Vogliono il prete-robot celebramesse, perché loro si stufano di celebrare; vogliono il seminarista con l'auto per scarrozzarli in giro, il seminarista-cameriere che cucini, che serva a tavola, lavi i piatti, e tiri fuori anche la bottiglia di buon vino "regalata dai nonni", vogliono il seminarista dal bel faccino e che sia sufficientemente frù-frù da dilettare le loro omofantasie e i loro sogni omoerotici... Sì, perfino i tradizionalisti e sedicenti tali hanno gli stessi vizietti.

lunedì 28 agosto 2023

ACCLAMATE!!!!!!¡!!

Intervista ad un seminarista diocesano

[Intervistatore] Benvenuto, Camillo! Al termine di questo primo anno di seminario, cosa ci puoi dire del tuo cammino verso il sacerdozio?
[Seminarista] [alza le mani come se fosse minacciato di rapina, guarda verso l'alto e dice:] "ACCLAMATE!"

[i] Come, scusa?
[s] "Acclamate!" Cioè, sai, quando ti svegli al mattino con qualche canzonetta che ti ronza nella testa, e ogni tanto, così, di punto in bianco, ne canti un versetto, o solo qualche parola. Non so, hai presente i giovani? La canzonetta del momento è un tizio che dice nel ritornello: "ai wanna go, yea", e i giovani ogni tanto tirano fuori, come se fosse uno starnuto, un "wannagò" oppure "yea". Ecco, dopo un anno di seminario, uno si sveglia al mattino e gli vien voglia di dire: "ACCLAMATE!" che poi è il ritornello di "Acclamate al Signoure, voi tutti nella gioia".

[i] Vuoi dire che i canti del seminario ti sono rimasti impressi?
[s] Altroché! Ci fanno cantare, cantare e ancora cantare, tutte quelle canzonette parrocchiali, anche quelle che non avevamo mai usato. Cosa che normalmente va benissimo alla maggioranza dei seminaristi, che quando tornano in parrocchia alla fine della settimana possono vantarsi: sapete, ora vi insegno un bel canto nuovo, sapete, lo facciamo in seminario, sapete, noi l'ultima strofa la facciamo diversamente. Pensa che il primo momento comune, il primo giorno in seminario, ci portarono tutti in cappella e -indovina?- ci fecero cantare e cantare e poi ancora cantare...

[i] E ricordi anche cosa ti hanno fatto cantare il primo giorno di seminario?
[s] Non ricordo la scaletta di canti, però fu una cosa interminabile. Sai, uno arriva lì col cuore che gli scoppia di gioia: sono in seminario, comincio il mio percorso verso il sacerdozio, è un momento storico della mia vita, in paradiso ci sarà una folla di sacerdoti emozionati nel vedere me e i miei compagni di cammino... e invece quelli del seminario mi smorzano ogni entusiasmo con quei sorrisetti cretini e facendomi cantare le solite rabberciatissime e noiosissime canzonette di parrocchia. Ah, sì, ricordo l'ultimo canto, era il Salve Regina.

[i] Il luminoso canto del Salve Regina! Come fai a dire che i canti parrocchiali sono noiosi?
[s] Ma che luminoso! Fu una cosa suonata alla moviola, trascinata belando, dopo un'ora di canti non se ne poteva più e questi t'infilano pure un Salve Regina col bis dei versetti. Alla fine infatti sbagliammo tutti a cantare il bis, e il rettore del seminario ci degnò del suo finto perdono sorridendoci come un venditore di assicurazioni e dicendoci: beh, qui in seminario alla fine del canto spariamo sempre una salve in più. Si direbbe che ce l'aveva fatta cantare solo per poterci somministrare quella miserabile battutina.

[i] Quindi il problema non è il canto in sé ma il modo in cui si canta. Ma cos'hai contro il canto parrocchiale? Da prete avrai bisogno che i fedeli cantino...
[s] Guarda, forse ancora non lo hai capito: da prete dovrò cantare solo le parti della Messa, e spesso nemmeno quelle, non devo mica cantare quelle cringiate tipo "Acqua siamo noi" o "Vocazione". Sai una cosa? In seminario non insegnano né a celebrare la liturgia, né a cantare le parti proprie della Messa. L'ho saputo dai ragazzi del quinto anno. Che poi cantano anche loro "Acqua siamo noi" e "Vocazione", imperterriti, fino al quinto anno. Insomma, in seminario ci fanno cantare, cantare e cantare canti di parrocchia, e tutto questo serve solo per intrattenerci in cappella e far sembrare "partecipati" i momenti liturgici e le assemblee. Ti sgridano pure! "E che fai, non canti?" Pensa, si cantano quelle canzonette perfino in sala comune come se non gli bastasse cantarle nelle liturgie e nelle grandi occasioni...

[i] Sala comune?
[s] La sala comune è uno spazio "ricreativo", diciamo così (una stanza con due poltrone, qualche sedia, un tavolino, una caffettiera, un mobiletto con suppellettili liturgiche) utilizzata anche come sagrestia della cappella adiacente. La partecipazione alla sala comune fa curriculum. Il primo giorno, dopo pranzo, tornai in camera per sistemare le mie cose e già accorse un commilitone trafelato a reclamare la mia tassativa presenza in sala comune: "altrimenti l'animatore ti farà una pessima relazione!" Uomo avvisato, mezzo salvato...

[i] Animatore?
[s] È il termine con cui si indica il prete responsabile di una comunità del seminario (comunità composta da una ventina di seminaristi). Animatore, proprio come nei villaggi vacanze: incaricato di animare qualcosa che non ha anima... Ma oltre a fare un po' di vita comunitaria con loro (invadente quanto basta, controllore spietato, celebratore di carnevalate), è incaricato anche di redigere a fine anno una relazione su ognuno che verrà utilizzata per dare parere positivo o negativo sul proseguimento del percorso di formazione in seminario, mettendoci così letteralmente alla mercé delle antipatie di un pretino che è stato spedito in seminario per punizione (in diocesi stava combinando grossi guai, e allora il suo vescovo lo tolse per qualche annetto dalla circolazione spedendolo a fare l'animatore).

[i] Torniamo a noi: ma se non ti piacciono i canti della parrocchia perché vuoi essere prete diocesano?
[s] Una cosa alla volta. Non è che quei canti non mi piacciono. Sono brutti, sono brutti e basta. Infatti li si canta solo in parrocchia, cioè dove nessuno conosce il buon gusto. Tu sul tuo posto di lavoro canteresti più "Yu wanna gò" oppure "Tu sei la mia vita altro io non ho"? Mentre lavori ti vergogneresti a cantare i Matia Bazar o un Pierangelo Sequeri? I canti sono brutti e basta: ma guai a lamentarsene! Ci vuol poco a farsi cacciare dal seminario! "Accla-mate al Signòòòòò-re! (ta-pum, ta-pum) voi tutti della teeeee-rrà! (pim-pum, pim-pum)" E guai se non canti.

Poi una volta prete le cose cambiano. Si può gentilmente chiedere di sopprimere qualche canto, di introdurne qualche altro, e di evitare di trascinare i canti come se fossero un cadavere con le mosche intorno. Io ho già deciso il mio motto sacerdotale: "poco ma bene". Vale anche per il canto. Cantare poco (molto poco) ma cantare bene (ma molto bene). Guarda, è stato proprio questo zecchino d'oro seminaristico durato tutto l'anno a convincermene. Quando entrai in seminario non la pensavo così, mi illudevo che almeno sul canto si facesse poco e bene, che ci si distinguesse dal tipico marasma parrocchiale. E invece, che delusione. Ora dopo aver cantato per un anno quelle emerite stupidaggini, mi sono venute a nausea (mi vennero a nausea il primo giorno!) e penso che di fronte a Dio sia mio impellente dovere evitare di farGli sentire quelle patetiche canzoncine...

[i] Insomma, non ti piacciono né i canti della parrocchia né il modo in cui vengono cantati.
[s] Esatto. Sono strumenti per deturpare la liturgia, un modo per ridurre la liturgia a una cosa insopportabile. La cosa terribile in seminario è che la maggioranza dei seminaristi al momento del canto si comportano come dei robot. Mettono il pilota automatico e cantano quelle sbobbe e non se ne stancano mai. E quindi al mattino in corridoio senti uno che grida: "Acclamate!" o uno che canta: "Mille e mille grani nelle spighe d'or!" come se stesse recitando la parte del pirla nel film-documentario Scemo e più scemo.
Quel repertorio di canti è di una stupidità mostruosa, una cringiata pazzesca. Sono tutti stati composti da emeriti dilettanti nei primi anni '70, e poi non si è più riusciti a spazzarli via perché intere generazioni di cristiani hanno dovuto cantarli per decenni. Pensa che ancor oggi si canta quell'orrore di "Symbolum '77" o quel canto perfettamente agnostico di "Risposta non c'è o forse chi lo sa". L'abbiamo cantata perfino in seminario, e sai perché? per "variare". Già. Per "variare" il nostro già noioso repertorio abbiamo cantato un canto dichiaratamente agnostico rinnegato perfino dal suo stesso autore quando si convertì (al protestantesimo). Per non parlare dei canti comunisti ("Lotta per un mondo nuovo!").

[i] Ma non vorrai dire che il seminario, per preparare un prete alla diocesi, fa solo cantare?
[s] Non solo lo vorrei dire, ma lo vorrei gridare. Però guai a criticare, guai a fare osservazioni, anche innocenti: si passa subito per i bastian contrari che credono di saper meglio di vescovi e rettori come si fa a gestire un seminario. E per nemici del canto liturgico ("chi prega cantando prega tre volte!", sì, certo, ma valeva per il gregoriano, mica esigeva di trascinarsi su canzoncine imbecilli e teologicamente discutibili). Quindi, il massimo che ho potuto fare, è tentare di far entrare sottobanco qualche canto meno patetico rispetto alla media. Missione quasi completamente fallita, per cui ogni volta che mi è stato possibile ho evitato di cantare o... cantato in play-back. Muovendo solo la bocca e stando attento a non "centrare" le parole.

[i] Eeeh, canti in play-back!?!?! Solo perché non si canta quel che piace a te?
[s] Quando i seminaristi cantano rumorosamente puoi anche fingere di muovere solo le labbra e sforzarti di pensare ad altro, perché poi quelle canzonette ti trapanano il cervello: "Ho bisogno di incontrarTi nel mio cuore": come sarebbe a dire "nel mio cuore"? Allora i sacramenti a che servono? Ma di che stiamo parlando? Di un'entità astratta? Di un sentimento? E allora veramente ci vuole il play-back: ci vuole perché tutti controllano tutti, e io già dopo due settimane sono stato rimproverato dall'animatore perché non cantavo (cioè non aveva sentito abbastanza decibel fuoriuscire dalla mia bocca). All'inizio il rimprovero è dolcino e delicatino, per cui non ci avevo fatto caso. Ma uno dei miei compagni di classe mi ha avvisato di nascosto: attento che se lo segnano, e te lo ritrovi nella relazione di fine anno, e ti fanno storie, un sacco di storie! Così, per non passare per disubbidiente, fingo di cantare ogni volta che posso fingere. Vorrei anche dire che faccio di tutto per scansarmi i canti, però raramente ci sono riuscito. Il controllo è ferreo. Il primo anno di seminario passato praticamente cantando, anzi, peggio, tutti e cinque gli anni di seminario son da passare cantando, visto che quelli che finivano il quinto anno stavano ancora a cantare quelle robacce: "ho bisogno di incontrarTi nel mio cuore".

[i] Allora dimmi cosa ti piacerebbe che si cantasse in seminario.
[s] A sant'Agostino attribuiscono il detto che chi canta bene (e sottolineo bene) prega tre volte (visto che in seminario cantavamo trascinati, non abbiamo cantato bene, vuol dire che abbiamo pregato almeno il novanta per cento in meno di quel che c'è scritto nell'annuario del seminario).
Io vorrei che in seminario si cantasse pochissimo. Vorrei anche che al quinto anno si dedicasse tempo per esercitarsi a cantare il proprio della Messa. Ma non posso assolutamente parlarne, se non con i compagni di seminario più fidati e più discreti in assoluto (sperando che restino tali). Infatti ci vuol poco a passare per bigotto. Se in sala comune canti canzoni laiche ti sopportano (ma non ti cacciano dal seminario). Se nomini anche solo la possibilità di imparare a cantare il proprio della Messa, sei "uno che già si sente prete" (cioè sei un ribelle da cacciar via), sei un bigotto (cioè sei un tipo pericoloso da cacciar via), forse sei addirittura un tradizionalista (cioè sei un tipo pericolosissimo da cacciar via subito). Se invece canti "servo per amore" in cappella, in sala comune, nei corridoi, nessuno protesta, anche se quel canto dice che devi essere "sacerdote per l'umanità" (che è una cosa assurda: io voglio essere sacerdote per Cristo, e che poi questo fatto implichi un vantaggio per l'umanità, tanto meglio, ma io voglio essere per Cristo, non "per l'umanità", che sa tanto di assistente sociale. Ecco, a furia di cantare canzonette "vocazionali" cretinissime, uno finisce per credervi ciecamente, finisce per credere che il sacerdozio sia l'impiego in una ONG come assistente sociale, finisce per trovar normale che l'incarico di formatore di seminaristi venga chiamato "animatore").

[i] Praticamente nessuno in seminario sarà d'accordo con te...
[s] Purtroppo è vero. La domenica sera, di ritorno dalle parrocchie, li senti parlarne, li senti che dicono: eeeh, io al gruppo giovani ho fatto fare questo canto e quest'altro, oooh, io al gruppo cresimandi ho fatto fare quest'altro canto e quell'altro pure, iiih, io al gruppo dei bambini li ho costretti a cantare due volte "Acqua siamo noi" perché sbagliavano a dire "da un'antica sorgente veniamo"...
Sono seminaristi perfettamente inseriti nel "sistema". Non so come facciano (secondo me manca loro qualche rotella) perché uno sano di mente non saprebbe essere così passivamente meccanico. Cantano e contemporaneamente ti controllano perché, indovina un po', mors tua vita mea: quando il branco identifica il soggetto debole, lo punta e lo indica al sadico capobranco, che quindi per un pochino lascia in pace i fedeli delatori...

[i] Dai, esagerato...
[s] Fammi finire. Io ho parlato di seminaristi, ma la cosa è ancora più terribile se pensi agli animatori e al rettore. Non si stancano mai di sentir biascicare quelle canzonette, sempre le stesse, sempre più trascinate. Anzi: ci tengono! Ci tengono a vedere esibita in cappella la lavagnetta con i numeri dei canti da eseguire: I (introduzione), O (offertorio), F (finale), eccetera. Sei canti per ogni Messa. E magari qualche stachanovista dei canti che al momento della Comunione (dai, il momento più importante, quello che hai il cuore in lacrime di gioia e di desiderio) annunciano: "Canto Di Comunione: 'Ci' Trentuno: Ti Seguirò".
E così fino alla fine del quinto anno dovrò cantare quel "t'inseguirò" a velocità di moviola, come oche ubriache: "queee-queee-quequeee", per evitare qualche noticina in rosso nella relazione di fine anno che mi azzeri la carriera. I vescovi sono assetati di preti ma non vogliono essere responsabili della scelta di un pessimo candidato, per cui delegano tutto al seminario e proprio per questo i formatori hanno ampio potere discrezionale... e possono rovinare per sempre un seminarista semplicemente obiettandogli che non canta con entusiasmo le squallide canzonette parrocchiali.

lunedì 27 marzo 2023

Grammatica da seminario - forma "indicativo di condanna" e forma "impersonale di giustificazione".

Sono reduce da un incidente stradale di quelli che non dovevano accadere, per fortuna senza conseguenze gravi, ma ancora dolorante. A letto, quando faticavo a prender sonno (e a trovare una posizione non dolorosa), mi tornavano in mente tante cose da aggiungere su questo blog. Tra cui questo dialogo, avvenuto davvero, ma che riporto in prosa più estesa altrimenti risulterebbe incomprensibile:

"Dove vai?"
"A far colazione che fra 20 minuti c'è lezione..."
"Non puoi, dobbiamo recitare le $Preci $Bislacche"
"Ma l'ora di preghiera è già finita (e abbiamo pure fatto gli straordinari coi canti)..."
"Non è finita, perché ancora non abbiamo recitato le $Bislacche"
"Non sapevo..."
"La comunità ha deciso che vanno recitate comunitariamente"
"La comunità? Cioè? Io non sono comunità? Chi l'ha deciso?"
"Si è presa la decisione tutti insieme, è una decisione comunitaria, perciò tutti insieme dobbiamo..."
"Un momento: anch'io faccio parte della comunità ed è stato deciso tutto senza di me"
"È una decisione della comunità"
"La comunità 'chi'?"
"L'ho deciso io per la comunità"
"Bastava dirlo subito..."
"Da oggi non si può uscire più dalla cappella senza aver prima recitato le $Bislacche, se non ti va bene puoi rimanere in silenzio durante le $Bislacche, ma non puoi uscire dalla cappella finché non sono state completate"
"Va bene"

E fu così che mi toccò sopportare il Prolungamento del Prolungamento dell'ora di preghiera, inteso a ridurci il più possibile il tempo per la colazione, e a fomentare la sindrome di Stoccolma nei miei commilitoni.

martedì 13 dicembre 2022

La famosa pausa di riflessione.

Tutti i miei amici che si sentirono chiedere dalla fidanzata una "pausa di riflessione" furono puntualmente traditi e mollati senza scrupolo. Non sorprende che tutti i miei compagni di seminario spariti ufficialmente per essersi presi una "pausa di riflessione" erano semplicemente stati scacciati. Ci sono delle spettacolari somiglianze nei tratti ipocriti delle relazioni sentimentali moderne (quelle in cui la castità è considerata un ostacolo) e nella formazione sacerdotale moderna (quella in cui la fede è considerata un ostacolo).

"Qui nessuno vuol fare fuori nessuno!", disse con voce fredda e tagliente il gaio animatore avendomi sentito (da lontano) scherzare sul fatto che uno dei nostri commilitoni fosse assente dalla vacanza del seminario. Pochi mesi dopo, rientrando in seminario a settembre, ci dissero che l'assente si era preso un "periodo di riflessione". L'avevamo sempre detto, io e altri, che era da tempo nel mirino (e sapevamo anche che presto sarebbe toccato anche a noi).

domenica 10 luglio 2022

Qualche piccolo aggiornamento

Nello scorrere queste mie vecchie pagine mi rendo conto che ormai non ho più molto da aggiungere ai temi già trattati, al di là di qualche altro tragicomico episodio dell'epoca che occasionalmente riaffiora alla memoria disseppellito sotto la catasta di scene di vita grottesche che credevo di aver dimenticato ma che riprendono quota ogni volta che sento accennare a vocazioni al sacerdozio.

È come il vomito dopo l'indigestione: una volta che ti sei svuotato, ti dai una rapida sciacquata e riesci ad andare tranquillamente a nanna. Che è forse anche il motivo per cui a suo tempo un amico sacerdote mi consigliò di scrivere un libro. È stato meglio un blog che un libro, anche perché in un libro difficilmente sei libero di usare termini come "ricchionata" e "froceria".

La questione dell'omosessualità nel caso di preti e anime consacrate riguarda infatti persone che vivono in un ambiente chiuso, popolato di persone del proprio stesso sesso, verso le quali nutrono - in virtù della loro tendenza omosessuale - un fascio di gelosie e infatuazioni che una persona eterosessuale in quello stesso ambiente chiuso non vive, un fascio di incontrollabili sentimenti (e di attrazioni fisiche) che gli etero della comunità non provano né mettono a budget. Perfino quando tale omosessualità fosse vissuta senza atti sodomitici. Una certa percentuale dei miei guai, come ho ampiamente raccontato nelle precedenti pagine, è dovuta al fatto che qualche Tizio era geloso di qualche Caio che era infatuato di qualche Sempronio che voleva farla pagare cara a qualche Pinco Pallino, con me involontariamente bastone tra le ruote di uno dei quattro, anche solo virtualmente, anche solo nelle paure irrazionali di una mente obnubilata dalla gelosia o dall'invidia, e specialmente nei casi in cui almeno uno di loro era mio superiore o figliuolo prediletto di qualche superiore.

Nel corso degli anni alcuni dei pretonzoli che a suo tempo (e in diversi luoghi) erano incaricati di vagliare la mia vocazione e la mia vita morale, son finiti sui giornali per faccende penali, peniene e omosessuali. Quindi absit iniuria verbis se in questo blog, nel corso degli anni, anche prima delle faccende di rilevanza penale, li apostrofavo come checche, froci, ricchioni, intendendo che un prete, in quanto prete, dovrebbe garantire un "minimo sindacale" di vita morale e di virilità, e che se qualcuno si fa sfondare l'ano o ricattare dai twinkini con cui si trastullava, non possono essere presi sul serio i loro giudizi sulle vocazioni, perché con enorme probabilità sono dettati da gelosie e infatuazioni.

Ho raccontato su questo blog del fatto che almeno fino alla fine del seminario ero ancora disponibile a sacrificarmi a celebrare la liturgia moderna, in italiano. Quando mi hanno sbattuto fuori ho cominciato a capire che era solo un prezzo da pagare, un sacrificio che ero disponibile a fare per disperazione (come se avessi voluto dire ai superiori "vi prego, farò anche questi nuovi e arbitrari sacrifici che mi chiedete, ma non scaricatemi come un sacchetto dell'immondizia") ma la mia tensione per la celebrazione della Messa non avrebbe sopportato a lungo l'opera di disturbo delle schitarrate, delle mini-omelie laicali, dei cartelloni e dei gadget mondani, dei canti sguaiati, trascinati, imbecilli, cacofonici, del dover far così anziché cosà perché altrimenti volano delazioni e vendettine trasversali. La mia vita liturgica non poteva essere scandita da tessuti sintetici sull'altare e addosso, da suppellettili sacre disegnate da poco meno che indemoniati, da impianti di illuminazione e amplificazione e riscaldamento, da barbosissime riunioni clericali, curiali, di sagrestia, dal sindaco, dal comitato della sagra, da aule liturgiche che sembrano garage... Uscendo da quella bolgia infernale ho cominciato a capire che la mia vita sacerdotale avrebbe dovuto essere dir Messa tridentina e confessare, non più soltanto "dir Messa e confessare". Quando sono stato libero di assaporare la Tridentina nei festivi e nei feriali, mi chiesi sinceramente come diavolo era stato possibile che quella liturgia fosse stata de facto abolita, censurata, proibita, vietata, e ancor più perché me l'avessero così accuratamente nascosta.

Ho spesso menzionato il "tempo libero" come se fosse una necessità assoluta del sacerdote (e di qualsiasi anima consacrata). Contro il tempo libero c'è poco meno che una furiosa crociata anche da parte di preti che passano come super-mega-tradizionalisti: fino all'ordinazione sacerdotale tutti si affannano a fingere di non averne, dal giorno dopo l'ordinazione i pretonzoli si affannano a ritagliarsene sempre di più. La demonizzazione del tempo libero - come anche di qualsiasi hobby non peccaminoso - parte dal presupposto che l'ideale sacerdotale sarebbe quello di diventare un robot: emettitore di liturgie, di prediche, di preghiere; il massimo consentibile è il leggersi fumosi testi teologici. In realtà il tempo libero andrebbe addirittura imposto, perché da come usi il tempo libero si capisce se qualcosa non va - e vale anche per il tuo direttore spirituale, e vale anche come tema per la meditazione personale. Se nel tempo libero ti affanni anziché riposarti, insegui robe ai limiti del peccaminoso anziché qualcosa di costruttivo o di rilassante, o peggio se ti annoi, nella tua vita c'è qualcosa che non va persino se sei un robot.

Con "tempo libero" non intendo "un angolo privato dove nessuno entri e dove nessuno può giudicare". L'angolo privato esiste proprio in risposta all'asfissiante moralismo (presente anche nel mondo "tradizionalista") che crede che il prete debba essere un robot.

Da una certa comunità scappai via letteralmente senza salutare perché quando un superiore ti ha spettacolarmente mentito una volta (più volte, e sapendo di mentire, e mentendo per salvare le apparenze, e mentendo riguardo a questioni fondamentali della tua vita, tua vocazione, tuo tempo libero), anche a distanza di decenni, anche di fronte all'ipotesi che le mentalità possono drammaticamente cambiare (inclusa la mia, visti ad esempio i giornali politici che leggevo assiduamente da giovincello), non riesci più a fidarti, non riesci più a pensare dov'è che abbia nascosto furbescamente l'ambiguità. Non mi può venir voglia di fidarmi di uno dei pretazzi dell'epoca pur vedendolo cadere sulla via di Damasco per la Tridentina. Non ce la faccio. Non è questione di perdonare o di sforzarsi di pensare che abbia cambiato idea. Chi si scotta con l'acqua bollente, diffida anche dell'acqua fredda. Se un topo fa tana su quelle tue mutande nel fondo dell'armadio, non ce la fai a rimetterle in lavatrice per illuderti che siano ancora utilizzabili. Le getti via, poiché il ricordo del topo che rosicchia è troppo forte per poter essere dimenticato da qualche giro in lavatrice. Considerato che c'è tanta gente - anche ex seminaristi - che hanno perso la fede proprio per situazioni del genere, non credo di essere troppo severo sul rifiutarmi di riconsiderare anche il caduto (presunto caduto) sulla via della Damasco Tridentina. (Suppongo pure che ci sia gente che la pensi così anche di me, e me ne dispiace, e so che è estremamente improbabile poter ricucire e perciò accetto la situazione senza inutili drammi e senza ipocrisie, che siam tutti peccatori me compreso; considero legittimo che qualcuno possa aver motivi di non voler più aver a che fare col sottoscritto, mi aspetto dunque che qualcun altro consideri legittimo che io non voglia più aver a che fare con lui poiché a suo tempo calpestò crudelmente la mia vocazione).

Sono tuttora convinto di essere chiamato al sacerdozio ma i contorni di questa chiamata si sono affinati. A differenza di chi vuole sposarsi e non trova moglie, e che ridimensiona i suoi standard accettabili anno per anno viaggiando spedito verso "una che basta che respiri", il sottoscritto - come tantissimi altri nelle stesse condizioni - ha ripetutamente alzato l'asticella, ha ridimensionato enormemente la quantità di cose su cui era disponibile a chiudere un occhio o a sacrificarsi. Mi trovo nella comica situazione in cui se mi dicessero "c'è un posto per te in seminario qui, in comunità là" dovrei domare la diffidenza anziché l'entusiasmo. Così come da giovane uno facilmente prende decisioni definitive dovute quasi solo all'avvenenza della ragazza che ha di fronte, dispostissimo ad accettare compromessi su tutto il resto, così da adulto è molto meno disposto a compromessi solo in nome di una bellezza muliebre che riconosce essere passeggera o di un quagliar presto. Vale anche per me, che ai tempi del seminario ero disposto a sacrificarmi su un po' troppe cose (beata gioventù, illudersi di poter resistere novanta-centoventi minuti di riunione dell'unità pastorale, delle sagre delle canzonette imbecilli durante la Messa, e di tutto il resto: e ricordiamoci che è responsabilità dei vescovi conciliari se le cose vanno così, perché sono i vescovi a plasmare il clero), mentre oggi non sono minimamente disposto ad accettare compromessi anche solo di blanda facciata ipocrita. Le energie che mi restano, il tempo che mi resta in questa valle di lacrime, la scarsa pazienza residua per quel che riguarda i temi ecclesiali e spirituali, non intendo immolarle - nemmeno una briciola - sull'altare dei compromessi. Dir Messa tridentina e confessare, e su tutto il resto "scusate, non so ancora se ho sufficienti tempo e pazienza". E non sono disposto nemmeno a prendere sul serio l'opzione "vattene da Lefebvre, visto il "Cinquantismo" tuttora ivi regnante.

domenica 12 dicembre 2021

Quello che han fatto a me, a chissà quanti altri l'han fatto...

Stamattina a Messa riflettevo su quanto la narrativa di regime di questi ultimi due anni abbia fatto affidamento sulla Deep Church e sui neochierici della neochiesa (che infatti si è distinta per aver zelantemente banalizzato Messa e sacramenti, reso obbligatoria la Comunione "sulle mani", ridotto le chiese a sale operatorie che puzzano più di Amuchina che di cera e incenso, ridotto il sacerdozio ad animazione parrocchie e passacarte curiali, alcuni chierici spintisi con foga a menzionare le vaccinazioni come più importanti dei sacramenti).

Mi tornavano scalpitanti in mente episodi in cui sarebbe bastato un singolo gesto positivo a ribaltare le loro malefatte. Il Summorum Pontificum ci lascerà un giudizio positivo di Benedetto XVI nonostante le sue tante debolezze. E allora anche qui, in queste terre desolate e disperate, la storia di nefandezze dei don Abbondio nostrani poteva essere ridimensionata da un singolo gesto come ad esempio ordinare il sottoscritto al sacerdozio, tanto più alla luce dell'aver ordinato prima e dopo di lui emerite capre (che hanno costantemente prodotto puntualissimi frutti caprini) e che un prete in più, anche dal loro sgangherato punto di vista, non avrebbe cambiato gli equilibri a cui tanto tenevano. Ci avrebbero persino guadagnato mia ulteriore fiducia e ubbidienza perché avrei ingenuamente creduto di vedere definitivamente la luce in fondo al tunnel. Fonti insospettabili li avevano anche avvisati - come lo stesso sacerdote che celebrava stamattina, mai stato parroco in vita sua, mai avuto incarichi "pastorali" - che se uno è buono a dir Messa va ordinato e basta, perché l'ordinazione riguarda il sacerdozio, non l'incarico curiale; si ordinano preti, non parroci, si garantiscono anzitutti gli insostituibili sacramenti, il resto si organizza dopo.

Mi avrebbero dovuto ordinare insieme a quelli del mio anno, che sapevano benissimo che la vocazione ce l'avevo non meno di loro, che sapevano benissimo che si stava commettendo un'ingiustizia nei miei confronti, e che avrebbero visto un bel lieto fine a una brutta storia ed avrebbero alzato l'asticella della propria già molto elevata soglia di miopia sulle ingiustizie che si irradiavano potenti e frequenti da episcopio e curia. E però, come al solito, di fronte all'ingiustizia i primi a fuggire con la coda fra le gambe sono proprio quelli che hanno avuto un pelo di vita comoda - e cioè i pretastri e gli aspiranti tali. Ricordo il freddo di quella mattina d'inverno in cui mi presentai a una celebrazione diocesana (istituzione ministeri) a cui non ero stato invitato. Erano riusciti a non invitarmi, a passarsi la notizia fra di loro (notizia pubblica a cui - come consueto - era stata data massima pubblicità). Perfino i compagni di corso, persino quelli del primo anno, tutti sapevano che ero il reietto che sarebbe stato espulso a momenti, e furono infatti sorpresi di vedermi lì insieme a loro. Tentai blandamente di scambiare due chiacchiere con tizio o con caio, ma fu poco più che un buongiorno e buonasera, bocche cucite che neanche fossero sotto tiro dalla Cekà. Il soviet della curia aveva deciso di qualificarmi non-persona, e loro istantaneamente ligi al soviet - e timorosi di scandalose delazioni, pugnalate alle spalle dalla Ghepeù curiale, fucilazioni sul posto - fingevano di non vedermi e di non sentirmi. Il peggio delle persone vien fuori ironicamente quando passano davanti al Santissimo Sacramento - e loro, davanti al Santissimo e pronti alla Comunione, ostentavano tutta la freddezza d'ufficio che esigeva il soviet clericale.

Ed immaginatemi con talare e cotta insieme a loro ai lati del presbiterio che fingono di non notarmi, sotto quel tagliente freddo umido di una cattedrale che ha visto molte piogge in pochi giorni, a marcar presenza ("servizio liturgico", lo chiamavano) in quel gruppo che tutti si erano sempre affannati a rendere più folto possibile e che adesso conteneva una presenza scomodissima, con seminaristi che si erano lanciati come gazzelle in fuga per prendere posto non vicino a me. Preti e seminaristi che fingevano di non vedermi, rettore del seminario e vescovo (entrambi con la coscienza più sporca di tutti per quanto riguarda il sottoscritto) che si fingevano indaffarati come sempre, e al termine tutti a scappare ognuno in tutte le direzioni pur di non passare accanto all'appestato non-persona. Forse la conversazione più articolata che ebbi fu qualcuno che colto di sorpresa mi domandò sorpreso se fossi stato invitato, al quale ebbi modo di replicare qualcosa tipo: ma ti pare che un'occasione come questa non si invitano tutti? Quando ho detto che questa neochiesa abortisce i suoi figli (a cominciare dalle sue vocazioni), facevo eco anche di quel giorno.

Un non-persona, così il soviet aveva deciso. Il burattinaio dietro le quinte ci teneva a che il corpo sociale della Chiesa (cioè la sua personale opinione riguardo all'idea comune dei fedeli) avesse preminenza sul Corpo di Cristo in nome del quale mendicavo il sacerdozio. Avevano paura che da prete portassi la - horresco referens! - veste talare. Che ogni tanto tirassi fuori il latino. Che mi sfuggisse qualche battutina sarcastica sui loro idoletti del momento. Che mollassi un pizzico di sarcasmo sul fatto che nella vera Chiesa non c'è posto per l'omosessualismo militante. Il mio destino di reietto era stato segnato fin dal giorno zero, da quando un prete parlò di me al vescovo, e il prete in questione - essendo perennemente in talare - non era in good standing: pertanto nemmeno il nuovo candidato doveva esserlo. Marchiato a vita, carne da Gulag, proprio come il reato di parente di controrivoluzionario trotskista in epoca staliniana. Il vescovo, distrattamente, gli aveva persino detto che c'erano ancora due o tre settimane per iscrivermi al seminario maggiore. Poi si rimangiò la parola data forse il giorno stesso (avrà preso ordini dal burattinaio?) imponendomi un anno propedeutico, che doveva essere il trucco (e il modo e il tempo) per convincermi a mollare la presa. Con qualcun altro dei candidati presentati dal not in good standing il trucco aveva già funzionato. Con me ci volle molto più tempo, e tentarono anno per anno, giorno per giorno, senza stancarsi: non mollai neppure alla fine, fu il vescovo stesso a doversi inventare il latinorum necessario a dimettermi, lui, su quella maledetta sedia a dieci metri a linea d'aria dal Santissimo Sacramento, a prendersi tutta la gravissima responsabilità che ora starà pagando con tutti gli interessi, scacciandomi come l'ultimo degli appestati senza nemmeno saper suggerire cosa fare dopo, lui che prima e dopo di me ha ordinato al sacerdozio soggetti inadattissimi.

La mia sola ordinazione sarebbe bastata a smuovere diverse anime che hanno lasciato questo mondo nei pochi anni successivi (e chissà quante altre incontrate lungo il percorso, nonostante i miei possibili limiti). Un parente sacerdote, un amico sacerdote, è qualcosa che non puoi fingere di non aver notato, specialmente quando ti dice - magari anche una sola volta, magari anche durante un brevissimo scambio di battute salaci - che è bene confessarsi ("non da me, ma da chi ti fidi di più, e frequentemente, da subito"). Anime che son partite probabilmente senza sacramenti, il che mi brucia peggio di una lama infuocata, perché la mia sola esistenza come prete avrebbe contribuito ad indurre quelle anime a pensare un minutino in più alla salvezza. Un ex seminarista non vale. Ci vuole un prete.

Ma no, proprio loro che credevano di sopperire alla mancanza di vocazioni aumentando organizzazione e burocrazia (e durata della formazione), avevano il terrore che avrei celebrato in latino. Che avrei celebrato Messa come atto sacerdotale di culto a Dio anziché come festicciuola animata dai parrocchiardi. Avevano il terrore che al vedermi in talare la gente avrebbe pensato che non tutti i preti sono uguali. Avevano paura che avrei chiamato le cose col loro nome. Che avrei preferito l'Ave Maria al Padre Nostro (guai ad instillare devozione mariana nei bambini! l'elisir genico-sperimentale di "lunga vita" sì, la devozione mariana assolutamente no!) e che avrei parlato di quanto è importante fare frequentemente una buona confessione. Temevano che avrei trasmesso cose della fede anziché cose della parrocchia. Crepavano dal terrore che avrei scoperto definitivamente la liturgia tridentina e avrei tratto le inevitabili conclusioni. Temevano che avrei liquidato con una battutaccia simpatica i furbacchioni che volevano ridurre la Chiesa a un palcoscenico del teatrino della sagra paesana - specialmente i pretuncoli fissati con teatralità e ricchionate. E così i tre marmittoni - vescovo, rettore e parroco dell'ultimo anno -, in ossequiosa ubbidienza al burattinaio, dissero ognuno di non poter non tenere conto degli altri due pareri negativi.

E così oggi si passano di vescovo in vescovo la rognosa eredità di una Chiesa Locale ridotta ad un cadavere tiepido. Anche dopo il Grande Periodo dei Saldi le nuove leve sacerdotali sono di qualità quantomeno discutibile, il perenne problema della Scarsità Numerica si accentua, l'età media anno per anno aumenta a grandi passi, i preti ultraottantenni sono ancora in servizio, le parrocchie - già brutte esteticamente - sono territorio delle bande di laici clericalizzati e protestanti. Hanno abortito il sottoscritto (e tanti altri meno resilienti di me) riuscendo a portare avanti (siamo a buon punto) l'eutanasia della neochiesa conciliare, proni alle nuove divinità vaccinali.

domenica 17 gennaio 2021

Signore, fino a quando?

Fin da quando ho realizzato di essere chiamato al sacerdozio la ferma intenzione era di celebrare Messa ogni giorno. Di presidiare il confessionale anche fuori orario. Di essere disposto a spendermi tantissimo, perfino per un vescovo asino incapace di apprezzare il sacerdozio ma che mi avesse accompagnato all'ordinazione senza far troppe storie. All'epoca ero persino disposto a barcamenarmi col Novus Ordo. Ma dal primo anno di seminario cominciarono gli indizi che per quei traditori di Cristo ero un'incombenza, un fastidio, un intruso. Non appartenevo al loro gaio club di checche da sagrestia. Non condividevo la loro "spiritualità" fatta di ipocrisie, di buonismi selettivi, di approssimazioni, di duepesi-duemisure. E a poco a poco mi rendevo conto che non potevo far nulla per cambiare il mio destino. Tentai in ogni modo onesto di guadagnarmi il loro favore, ottenendo al massimo qualche sorrisino ipocrita. Non avevano mai inteso realmente accettarmi. C'era posto solo per i loro gai cloni. Il sacerdozio come una casta di froci in cui si accede solo per cooptazione.

In poche settimane lessi tutto Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn. Duemila pagine che sembravano descrivere la vita di seminario, con poche differenze. La differenza principale era in quei sorrisetti, che i cinici apparatchik esibivano più raramente, e che sulle facce dei formatori erano indubitabile segno che stavano per pugnalarti alle spalle. Il marchio imperdonabile di trotzkista andava sostituito da "tradizionalista". I campi di lavoro degli zek (i detenuti) corrispondevano alle attività di seminario e di parrocchia: stupide, inutili, ripetitive, degradanti (come ad esempio: sguattero e lavapavimenti perché la festicciuola idolatrica splenda più del tabernacolo, perché bisogna "educare al servizio", bisogna "essere sempre disponibili"). Proprio come la triste sorte degli zek, con la differenza che la violenza non era fisica ma psicologica e spirituale. Col risultato di seminaristi portati all'esaurimento perché non andavano a genio a qualche formatore, indotti ad abbandonare la via del sacerdozio perché non erano simpatici a qualche frocio, "riprogrammati" con infiniti ricatti morali per renderli inutili clown. La formazione al sacerdozio intesa come accanimento contro coloro che non sono graditi alla casta frocesca.

Anni dopo rivedo con desolazione quegli anni. Vedo realizzarsi nella Chiesa il porcaio che era stato perfettamente anticipato in seminario. Come ad esempio la moda delle soppressioni per via amministrativa, come avvenuto per l'Ecclesia Dei. Oppure l'azzeramento della dottrina, con la manovra dell'aggiornare il catechismo e le preghiere (pena di morte, "non indurci in tentazione", ecc.), cioè far intendere che ciò che c'è scritto è sempre emendabile, ciò che credi oggi è sempre alterabile. Oppure il velo di silenzio sui cardinali froci. Leggo Corrispondenza Romana e altri cattoliconi on-line, e li vedo tutti impegnati a scolpire riccioli di burro. Scrivono cose giuste -per carità- ma non possiamo perdere il novantotto per cento del nostro tempo su questioni di cronaca senza scorgere il quadro generale. Un qualsiasi frocione finisce sui giornali per merito d'esistenza, e il cattolicume "deve" occuparsene tutto dialogante e incensante.

Il suicidio della Chiesa - di cui il sottoscritto aveva identificato osservandone (a proprie spese) l'autocastrazione vocazionale - è pressoché completo. Vien quasi voglia di rintanarsi nel cinismo del tanto peggio tanto meglio.

Quando sento qualche pretuncolo dire che la vita di seminario è stata per lui tutto sommato una passeggiata, capisco già che è sempre stato irrimediabilmente omologato al sistema. A lui non hanno mai avuto bisogno di contare i minuti spesi a dire frocerie nella saletta comune. Non hanno mai avuto bisogno di contestargli quella cazzo di sciarpa che indossava in inverno. Non è mai stato denunciato ai superiori per aver deriso la bandiera arcobaleno degli invertiti, ancor meno per aver criticato il gay pride. Se l'è cavata perché era omologato al sistema. Gli hanno fatto tenere corsi di cresima perché sapevano che non avrebbe menzionato nulla di tradizionale. Gli hanno fatto tenere la preghiera per i giovanissimi perché sapevano che non avrebbe mai fatto recitare una singola Ave Maria.

Al contrario, a quello sospetto di trotzktradizionalismo, hanno consegnato direttamente alla pattumiera qualsiasi rivista che avesse portato in parrocchia o nella casa di formazione, per il fondato timore che si trattasse di qualcosa di virile o addirittura di cattolico. Non gli hanno mai chiesto attività come la "preghiera coi giovani", col fondato timore che ci scappasse un'Ave Maria. Mai proposto neppure per una supplenza a qualche corso di cresima, per il terrore che dicesse cose cattoliche. Soprattutto non gli hanno mai perdonato le allusioni (più o meno velate) contro l'abominevole vizio sodomitico, come se si sentissero chiamati in causa. E tutto mentre gli altri formatori (Don Pilato Abbondio & company), rapidissimi a lavarsene le mani e a defilarsi, trovano energie per scappare fulminei anche in quei momenti in cui per far giustizia sarebbe stato sufficiente restare fermi come una statua per un paio di secondi.

Ecco perché abbiamo un clero così appiattito e insipido (che ha dato ottima dimostrazione con l'autoinflitto lockdown preventivo già a febbraio 2020). Perfino il buon prete capace di belle prediche e di qualche gesto di carità, nel momento in cui c'è da essere virile, preferisce scappare e rinviare alle calende greche, perché considera sé stesso parte di quel sistema, ed ha paura che in qualità di vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro possa bastare un minimo scossone per vedersi rovinata la comoda quotidianità e le misere opportunità di carriera. Perfino quel prete di grande cultura e di non trascurabile saggezza si è subito proclamato incapace di compiere certi gesti da sacerdote virile perché quantomeno gli avrebbero intaccato l'hobby di scrivere articoli e di organizzare conferenze. E persino quel prete che ufficialmente non aveva nulla da perdere, non ha ritenuto opportuno scommettere sulle vocazioni.

Questo stato di cose è talmente accettato dall'opinione comune che solo chi ne subisce le drammatiche conseguenze riesce a riconoscere che il sacerdozio ha smesso di essere virile, si è castrato da solo, con satanico entusiasmo, nella convinzione che la Chiesa potesse consolidarsi in una distributrice di omelie che non irritano nessuno e di sacramenti ridotti a festival delle oche giulive (ed "ecumeniche"). Sono stati addirittura accontentati dalla dittatur psicosanitaria e dal Grande Reset in corso, ma ancora non si rendono conto, perché lo stipendiuccio dalla CEI continua ad arrivare, le offertine per le Messe più o meno ci sono ancora, i soldi per la benzina non sono ancora finiti, hanno più tempo libero perché non hanno nemmeno da ciondolare in parrocchia... Sarà come per le batterie nichel-cadmio, quelle che non danno avvisaglie di scaricarsi: semplicemente, all'improvviso, hanno un crollo a zero.

E i cattoliconi ogni giorno si svegliano con una nuova mazzata (Misericordiae Vulnus, Amoris Mestitia, Pachamama, Fratelli Tutti, vaccinismo papale...) e addirittura riescono a meravigliarsi mentre si profondono in alti lai, senza che qualcosa cambi.

giovedì 14 gennaio 2021

Quante altre patacche bergoglione dovremo subire?

Buona questa: Lettorato e Accolitato anche alle donne. Ascoltando la notizia mi veniva voglia di gridare: avete dimenticato l'Ammissione!

Sembrano passati secoli da quando Ammissione, Lettorato e Accolitato erano visti come avanzamenti di carriera, da elargire con estrema parsimonia. Ricordo quando un anno la distribuzione dei ministeri laicali ai seminaristi slittò di qualche mese: i miei commilitoni sembravano presi da isteria, complottismi e manie di persecuzione. Lo slittamento fu dovuto ad una pecora nera che però essendo un Raccomandato di Ferro, non si poteva punire singolarmente. Pertanto con una scusa ridicola rinviarono per tutti di alcuni mesi.

Nel mio caso invece no: l'elargizione degli Avanzamenti di Carriera fu negata solo a me, in extremis, con una scusa ridicola che più ridicola non si può, proprio come se volessero dirmi che era un dispettino da checche. Mi fu comunicato per telefono, in tarda sera, soggiungendo che il Vescovo e il Rettore sarebbero stati assenti per rispettivi impegni. Sottinteso: non provare a chiedere spiegazioni perché ti abbiamo già chiuso la porta in faccia.

Fu così che mi negarono l'Accolitato, coscientissimi di colpirmi proprio sui nervi - proprio come nei casi di punizione talmente immeritata da indurre il punito a gesti esasperati. Riuscii a parlare col vescovo il giorno dopo ma fu inutile. Quest'Accolitato non s'ha da dare. Saranno stati fieri del loro operato. Intanto i miei commilitoni, con un misto di sadica libidine per la mia sorte e di paura per l'avvertimento mafioso che il mio episodio rappresentava per la loro carriera, vennero a sapere della notizia in un lampo. Tutti - seminaristi e pretame e vescovo - fecero persino in modo da non invitarmi alla celebrazione (in altre occasioni te lo ricordavano cinquanta volte al giorno a partire da due mesi prima): ero diventato l'appestato, l'infetto da cui stare alla larga. Mi presentai ugualmente e gli unici che mi rivolsero spontaneamente la parola furono i laici, ai quali fui costretto a spiegare che "per ora" il signor Vescovo non aveva ritenuto opportuno includermi nella lista dei beneficiari della Sontuosa Elargizione dei Ministeri Laicali. "Ma... hai fatto qualcosa?" (sottinteso: di grave). Non mi volevano nemmeno nel servizio liturgico, loro, a cui sembrava sempre di non aver piazzato abbastanza seminaristi nel presbiterio.

Dopo un po' di anni da quell'episodio, il nobilissimo Lettorato e l'ancor più sublime Accolitato - che da queste parti mai erano stati assegnato a qualcuno fuori dall'area clero - diventano un premio per topi di sagrestia. Come avvenne per il diaconato permanente a suo tempo.

mercoledì 4 novembre 2020

Clap-Clap

I formatori dei seminari sono quella razza infame di preti che conoscono il metodo per azzerare una vocazione.

Mettiti nei panni di un seminarista. Sui vent'anni, nel pieno delle tue energie fisiche e mentali. Hai scommesso tutta la tua vita sul sacerdozio, sei convinto e straconvintissimo che quella è la tua strada, e hai perciò chiesto al vescovo di entrare in seminario affinché tale vocazione venga verificata, per accedere infine al sacerdozio.

Fin dal primo mese di seminario maggiore i formatori faranno di tutto per tenerti perennemente con la spia della riserva accesa: sulla pazienza, sul fisico, sulle energie mentali, e sopratutto sulle cose di fede. Ti faranno correre agli appuntamenti comunitari per poi farti aspettare. Ti imporranno di lavare ciò che è già pulito, di trascurare ciò che è già trascurato, di onorare ciò che non merita. Ti faranno pesare ogni minutino di giustificabilissimo ritardo. Ti faranno studiare una vergognosa catasta di cazzate che dimenticherai un attimo dopo aver concluso l'esame (salvo qualche espressione idiota da deridere o da temere), e della quale mai più rimpiangerai il ricordo. Ti obbligheranno a cantare, a velocità trascinata, come un ritardato stanco, calibrata esattamente sul punto più snervante, canzoncine imbecillissime. Considereranno ogni minuto che passi da solo come un poltrire. Considereranno ogni vicinanza con un computer come un possibile caso di pedopornografia. Considereranno ogni vicinanza con apparecchi telefonici come un'implicita ammissione di avere una fidanzata segreta o una dipendenza da mammà. Useranno i tuoi compagni di corso come delatori e kapò. Ti faranno invidiare le vecchie caserme. Ti faranno involontariamente capire che temono solo di essere presi in giro.

Episodio. Durante la Messa del seminario il gruppo cantori attacca con la patetica Acqua siamo noi, canzonetta scout che all'epoca, nelle parrocchie, scatenava il clap-clap dei ragazzini vestiti da cretini alla fine di ogni verso. "Acqua siamo noi..." cominciarono tutti. Le mani mi si drizzarono da sole. "...da un'antica sorgente veniamo": le mani spontaneamente diedero un timido clap-clap e realizzai di non essere allarmato ma ebbro. "Fiumi siamo noi..." Batto di nuovo le mani. Il numero di clap-clap si moltiplicò, almeno sette o otto commilitoni trovarono incontrollabile aggiungere il loro doppio battimani. "...se i ruscelli si mettono insieme": più di mezzo seminario aggiunse clap-clap. Il rettore che aveva celebrato Messa e che era ancora dietro l'altare (si sarebbe mosso solo quando il canto finale stesse per volgere al termine: non sia mai che i seminaristi ne cantassero anche una sola strofa in meno) a questo punto aveva già un'espressione furente e vendicativa (niente male per uno che ha appena gioiosamente celebrato i Santi Misteri).

martedì 6 ottobre 2020

Seppero mentire, ne godranno i frutti

La perfidia dei formatori di seminario e dei vescovi è particolarmente appuntita quando si tratta di metterti nei guai tenendotene all'oscuro fino all'ultimo momento. Lo scopo di tale tattica - che richiede spesso e volentieri profonde e articolate menzogne - è quello di non darti tempo di organizzare una difesa, sprando di far leva sul fatalismo di chi si vede piovere addosso qualcosa di apparentemente inesorabile.

Nel mio caso non avevano fatto i conti con la mia rapidità. Non una virtù, piuttosto un frutto dell'ansia. Il rettore del seminario mi chiama a tarda sera sul cellulare per dirmi che "per decisione del vescovo" non avrei ricevuto l'accolitato e che sia lui che il vescovo erano in partenza per nonsisadove per tre settimane di nonsisacosa e che comunque era tutto già stabilito e chiuso, non poteva immaginare che avrei chiamato il vescovo immediatamente per chiedere spiegazioni e che il vescovo avrebbe incautamente risposto al telefono. Chiesi subito al vescovo perché mai quella sua decisione, e il vescovo, cadendo dalle nuvole, disse che lui in questi ambiti si limitava a ratificare le decisioni prese dal rettore del seminario. Con estrema franchezza gli risposi che dato che lui e il rettore mi avevano presentato la cosa in modo completamente diverso, avremmo dovuto urgentemente vederci per parlarne. Preso alla sprovvista, il vescovo accettò di vedermi la mattina successiva alle nove e trenta, poche ore prima della sua presunta "partenza".

Il giorno dopo ovviamente non conclusi nulla. Il vescovo fu tutto un arrampicatore di specchi "abbiamo deciso insieme, queste cose si concordano tra il vescovo e il rettore lungo ampie riflessioni", e tutto il latinorum dei bugiardi che ritenne opportuno diluviarmi addosso per confondermi le idee e indurmi a subire e tacere. Conclusi dicendogli che mi fidavo di lui perché era vescovo, e che era profondamente imbarazzante sentire due versioni diverse e dover sospettare che uno dei due - vescovo o rettore - mi avesse non solo "parlato in modo non sufficienetmente chiaro" (non potevo dire esplicitamente "mentito", che quella è gente che si offende a morte) ma anche nascosto le cose. Sua eccellenza fece finta di niente e ripeté l'imbarazzantissima solfa delle decisioni prese in equipe, insieme, ascoltando e vagliando tutti i pareri, e bla-bla-bla-blatinorum.

Mi rendevo ben conto che così facendo stavo distruggendo la mia carriera, ma - sia pure nell'ansia del momento, del vedermi fregato a sorpresa da coloro a cui avevo ostinatamente dato fiducia nonostante le ripetute e puntuali bidonate (eh, l'ubbidienza) - avevo capito che non l'avrei spuntata neppure se fossi divenuto ipocrita come loro.

Col solito giochino di rimpalli di responsabilità e di lavamenti pilateschi di mani e di latinorum postconciliare, andò a finire che il vescovo diede a sé stesso un annetto supplementare di tempo per decidere, anno che avrei dovuto passare in... seminario. Sì, dopo aver completato il seminario dovevo farmi un ulteriore anno di seminario. Così, quando il rettore mi annunciò tale decisione, gli chiesi in cosa esattamente avesse mancanze la mia formazione. E giù un'altro diluvio di latinorum, mentre già mi ipotizzava un impegno settimanale consistente in tre giorni di seminario e tre giorni di parrocchia, come se stesse facendo mercato delle vacche per vedere fino a che punto ero disposto a cedere.

Nemmeno stavolta raccolsi la sfida e gli feci notare che se era così lesto a cambiare programma significava che non aveva le idee chiare. Naturalmente fa più presto un prete a trovare una scusa che una pantegana un pertugio, e dopo qualche altra settimana di rimpalli tra curia e seminario, tra latinorum e aria fritta, finirono per condannarmi ad un anno di servizio in parrocchia (bye-bye seminario) - presso il parroco più diffidente e borioso che avevano a disposizione - e senza stabilire altra data per le "decisioni" sul mio caso. Nel frattempo mi bloccarono la carriera (bye-bye accolitato). E si guardarono bene dall'invitarmi alle grandi occasioni (feste patronali, ordinazioni, ministeri laicali), a cui partecipai puntualmente per evitare ogni più piccolo appiglio di polemiche e perché non potevo permettermi di apparire come l'imboscato. Alla fine anche il parroco mi mentì - dicendomi che lui non avrebbe avuto "grossi problemi" a dare l'OK per la mia ordinazione ma che il suo parere non valeva nulla; e invece sia il vescovo che il rettore affermarono che non potevano non tener conto del parere negativo del parroco...

Era una specie di simonia di segno opposto, come se dicessero: costui l'ordinazione la meriterebbe ma le sue quotazioni nel borsino curiale sono bassine. "Non possiamo dirti di no, ma non vogliamo dirti di sì": si lamentano della scarsità delle vocazioni, e poi scacciano via quelle che non rientrano perfettamente nello stampino di moda del momento. Si lamentano che troppi preti lasciano il sacerdozio, mentre nel frattempo calpestano le rare vocazioni di chi è convinto dal primo all'ultimo giorno della sua chiamata. Si lamentano dell'improvviso cambiamento di attitudine (in peggio) dei preti freschi ordinati, e poi sono i primi a mentire alle vocazioni e farlo a due metri dal Santissimo Sacramento. Ora, certe porcate parrebbero persino legittime se occorre sbarazzarsi di un soggetto particolarmente pericoloso, che so, di un pedofilo riuscito a nascondere le prove. Ma mentire davanti a Cristo sacramentato? E per di più per scacciar via uno che ai loro occhi è ancor più schifoso e odioso di un pedofilo: un "preconciliare", uno che non considera automaticamente morta, sepolta, inutile e dannosa qualsiasi cosa sia etichettabile come "preconciliare".

Una Chiesa che abortisce i suoi figli non ha futuro. Se i preti preferiscono essere sterili, che crepino pure senza "prole" spirituale. Se vescovo e rettore sputano sulle vocazioni e mentono, che si preparino alla stangata delle conseguenze del loro operato. Se per loro anche la più vaga attitudine "preconciliare" è peggio della pedofilia, che si tengano i preti pedofili e tutte le altre serpi in seno, candidate a far loro compagnia tra le fiamme dell'inferno.

E una Chiesa che abortisce i suoi figli non poteva che essere una Chiesa che fa il lockdown preventivo.

venerdì 4 settembre 2020

Quelle cose che piacciono solo a te...

«Doni molto tempo alle cose che piacciono a te, solo perché piacciono a te.»

Così mi disse il sodomita superiore della comunità introducendo lo squallido elenco di accuse fumose e campate in aria.

Uno stronzo non ti accuserà mai di qualcosa di preciso, perché lo stronzo non intende darti la possibilità di dire "hai ragione" oppure "hai torto e te lo dimostro". Lo stronzo è stronzo per definizione: non sta facendo un processo, sta solo sparando una sentenza già scritta; non sta traendo conclusioni da un ragionamento ma da cose che non si possono nominare perché tramate nell'ombra; non sta spiegando le sue intenzioni ma solo calpestando la tua anima cercando di fare più male possibile.

Quel tipo di accusa sulle cose che "piacciono" è calibrata in modo da sembrare accettabile a chi ne sentisse parlare. Se l'accusato la racconta a qualcuno, si sentirà dire, istintivamente, "ma dai, non puoi mica fare solo le cose che ti piacciono, in fondo in fondo ha ragione". Tu cerchi di far notare che il "donare molto tempo" non equivale ad un'accusa esclusiva e omnicomprensiva, e la pigrizia mentale di chi ascolta lavorerà contro di te, perché le parole di quell'accusa sono calibrate molto accuratamente, sono  generiche quanto basta.

È questa la perfida arte dei preti venduti al demonio: la gran lavata di mani. Un'accusa generica, non circostanziata, ma espressa in maniera fumosa, in modo che l'interlocutore (l'imputato) avverta scrupoli di coscienza, avverta quell'istintivo chiedere perdono per le proprie mancanze di cui al momento non saprebbe nemmeno rendere conto (dovendole frettolosamente cercare tra i ricordi, prenderà come importanti anche le cose del tutto secondarie), quell'istintivo sottomettersi al superiore "che ha sempre ragione in quanto è il superiore" (sottinteso: avendo sempre ragione, avrebbe ragione ad accusarti anche quando l'accusa è estremamente generica, fumosa, priva di contorni e di circostanze e di argomenti). È una cosa perfida perché è come dire: ti dichiaro colpevole, ora dimmi quali sono i punti su cui sei colpevole, sii convincente altrimenti sei reticente. Roba che neanche i nazisti.

Ma analizziamo la perfida accusa parola per parola.

«Doni». Non ha detto "dedicare", men che meno "dare": ha detto "donare". Se avesse detto "dedichi" o "dai", avrebbe dovuto dare uno straccio di spiegazione. Quando e come hai dedicato? Quanto e cosa hai dato? Invece no: "doni". Si può forse chiedere quando e come hai "donato" il tuo tempo? No, perché "donare" è molto più aleatorio e nebbioso: sembrerebbe troppo aggressivo il ribattere "e quand'è che avrei donato?" rispetto al "quand'è che avrei dedicato?". Il superiore ti accusa di un fumoso e imprecisabile "donare". È un genere di perfidia molto ben collaudato fra i modernisti (coloro che son scesi a compromessi con la menzogna). Lo stronzo, per diventare superiore, ne avrà dovuti leccare di piedi e di ani, e quindi ha adeguato il suo linguaggio a quello dei suoi superiori che lo massacravano allo stesso modo. Un kapò clericale, che ha timore non del giudizio divino, ma del perdere un briciolo di potere e di privilegi.

«Doni molto tempo». La particolarità di questa generica accusa è nel fatto che ti piove addosso a sorpresa. Non ci sono state avvisaglie. Non ti è mai stato detto "oggi hai donato molto tempo alla faccenda X, e ciò non va bene perché Y e Z". No: tutto ti piove addosso all'improvviso, quando è già troppo tardi per te per qualsiasi  correzione: "doni molto tempo", senza spiegare quali sarebbero le X, le Y e le Z. Vieni caricato tu, l'imputato, dell'onere di dimostrare le accuse (e sei tenuto a dimostrare che sono vere e fondate, altrimenti stai nascondendo qualcosa), proprio come nella più feroce tradizione del terrore staliniano.

«Molto tempo». Quanto? Che percentuale? Perché? Inutile farsi domande. Il superiore è padrone del tuo tempo, cioè sei uno schiavo. Se hai anche solo un minuto libero, il superiore decide a cosa lo devi dedicare. In una normale comunità religiosa, il superiore mette becco riguardo al tuo tempo libero solo se lo usi per peccare. Al normale superiore interessa la tua crescita spirituale (sia perché ha una responsabilità davanti a Dio nei tuoi riguardi, sia perché la tua personale crescita spirituale contribuisce indirettamente ma concretamente alla crescita di quella della comunità). Ma un superiore autoritario non ti vede come un figlio a cui incoraggiare e favorire la crescita. Ti vede come schiavo. Non hai tempo libero, perché lui decide dei tuoi impegni personali e comunitari e decide anche del tuo tempo libero fuori dagli impegni. Basta un po' di questo autoritarismo, e vedrete in cappella gente che finge di meditare con la Bibbia in mano, mentre in realtà sta mentalmente divagando da un'ora. Ogni tanto si ricorda di girare una pagina della Bibbia, per fingere (davanti all'occhiuto superiore e ai suoi lacché in cerca di qualcuno da denunciargli) interesse e attenzione alla Bibbia. La patetica scenetta - di controllori e fingitori, tutti seduti in semicerchio - avviene lì in cappella, davanti al Santissimo, perché il superiore ha deciso che voialtri non eseguite bene l'intera ora di meditazione, e perciò vi sequestra e trattiene in cappella e sotto sotto controlla continuamente le vostre facce, i vostri sguardi, le vostre mani, la vostra postura, e il libro (approvato da lui) che avete in mano, per accertarsi che stiate meditando per i sessanta minuti prescritti dal regolamento. Il primo ineluttabile risultato di ogni superiore autoritario è di far diventare ipocriti anche coloro che non lo erano.

«Doni molto tempo alle cose che piacciono a te». Non ha detto e non dirà mai quali sarebbero tali "cose". Ciò che non va bene di quelle cose è che ti "piacciono" (cioè il fatto che lui è convinto che ti piacciano). Stiamo forse parlando di pornografia e alcolismo? O almeno del fumare e dei videogiochi? O quantomeno del fare servizi (personali o comunitari) che non erano né urgenti né necessari? Niente di tutto questo. L'autoritario superiore esige che tu faccia cose che non ti devono piacere affatto, e perciò se fai qualcosa che secondo lui ti piace, te la deve far pagare. Devi farti piacere solo le cose che piacciono al superiore. Se si sente sporco dentro, devi star sempre a far pulizie - s'intende: nei locali suoi e nei locali comuni che usa anche lui. Se ha la mania delle piante, devi curare ossessivamente quegli stupidi steli rinsecchiti (guai se non fioriscono spettacolarmente). Se ha la mania del ciclismo...

«...alle cose che piacciono a te, solo perché piacciono a te.» Qui si vede la perfida pennellata del perfido artista: "piacciono a te" è non solo il capo d'imputazione ma anche l'aggravante del reato e il movente. Il sottinteso è che se qualcosa ti piace, piace "solo" a te, cioè dispiace a tutti gli altri, soprattutto al superiore. Come osi dispiacere il superiore? "La voce del superiore è la voce di Dio", ti ripetono i superiori autoritari (quelli autorevoli non hanno mai la minima necessità di dirtelo). Se il superiore improvvisamente e senza preavviso si sente dispiaciuto stai dispiacendo a Dio, dunque per non dispiacere a Dio devi assolutamente piacere al superiore autoritario secondo ogni sua più minuscola paturnia.

Infine, ecco qualche episodio in cui hai fatto cose che ti "piacciono".

martedì 1 settembre 2020

Dir Messa e confessare? Macché...

Il mio ideale di sacerdozio è andato assottigliandosi col passare degli anni di così detta "formazione". Alla fine della quale, quando dovettero letteralmente inventarsi scuse per abortirmi, il mio "programma" sacerdotale era divenuto semplicissimo: dir Messa, e confessare. Lasciatemi dir Messa e confessare, non chiedo altro. Ma no. Volevano un prete, mica un sacerdote. Avevano bisogno di uno capace di "dialogo" ("capace" secondo i loro  bizzarri e mutevoli obiettivi), uno che costruisse "ponti anziché muri" (qualsiasi bizzarria loro decidano che ciò significhi), uno che stesse sempre "in mezzo alla gente" (un intrattenitore, un clown). E quand'anche nominavano "uomo di preghiera", intendevano un pensoso scrutatore di oscuri versetti biblici, districantesi fra ebraico e greco, che notoriamente suonano proprio affini alle traduzioni in lingua parlata del breviario (quelle "invocazioni", quella specie di "preghiera dei fedeli", quei "due salmi e un cantico" ammorbiditi alla bisogna, cosicché già in seminario ci si poteva vantare: "ah, io il breviario lo dico già, quei 7-8 minuti mentre faccio la cacca"), e che non conducesse a nient'altro che fumose prediche.

Quando sono stato sbattuto fuori, quell'ideale si è precisato: dir Messa tridentina, e confessare. Perché nel frattempo avevo capito che solo una fede svirilizzata ha bisogno di una liturgia svirilizzata: una liturgia costruita sul modello di Domenica In, col presentatore bonaccione che si rivolge agli spettatori che diventano protagonisti, col momentino cultural-biblico e la predichetta buonista, col darsi da fare a spostare aggeggi e a vomitare paroloni nel microfono, con gli aristocratici di parrocchia che infilano con annoiata fretta le mani nel Tabernacolo per "dare la Comunione"... Se volevate non farmi detestare la liturgia moderna, sarebbe stato sufficiente seguire il Messale o almeno frenare i peggiori personalismi. E invece no: il tipico pretino postconciliare è fondamentalmente alla mercè del laicato autoimpegnato e dei neo-dogmi non scritti. A meno che il pretino non sia più arrogante e cerebroleso e sostanzialmente eretico di tale laicato.

Ci vuole una specialissima "vocazione" (in senso negativo) per essere parroco oggi. Riunioni su riunioni, predichette preconfezionate, sorrisetti ipocriti, lisciare clero e laici e vescovo ognuno secondo il verso del pelo... Quel "dir Messa" consiste nel mantenere l'orario di un servizio pubblico di predica melensa, e quel "confessare" consiste nella mezz'oretta alle 15 del mercoledì (qualcuno invero è disponibile più spesso, ma ugualmente considera la confessione come l'impartirti una predica personalizzata prima di impartirti l'assoluzione, una sorta di seduta psicanalitica fai-da-te). Questi preti sono tali di mestiere, chiusi nel loro micromondo di televisione e voci di corridoio curiale, ed infatti peccano statisticamente più contro l'ubbidienza che contro la povertà, e più contro la povertà che contro la castità. Ubbidiscono solo ad un fumoso potere precostituito, di eminenze grigie che comandano ciò che vuole il Nemico. Prima che finisse febbraio 2020 erano già in sciopero dei sacramenti e lockdown di chiese, zelanti nell'ubbidire al Nemico, zelanti nel disubbidire alla santa Chiesa (cioè quella che "pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle") e al suo divin Fondatore.

Il paradosso è che se quelle merdacce dotate di sacramento dell'ordine avessero accettato di ordinarmi al sacerdozio dopo avermi tanto torchiato, può darsi che avrei ceduto e sarei stato uno di quelli che per una vita intera continuano a subire l'andazzo. Può darsi che sarei sceso a compromessi, che mi sarei ripeuto fino alla nausea che non posso dispiacere al vescovo, non posso inimicarmi la curia, non posso illudermi di essere Davide contro Golia, e quindi anch'io avrei collaborato a non pascere il gregge quando arriva la ben pianificata stangata della pandemia. Perfino i sovietici, capacissimi di coltivarsi degli anticomunisti che estremizzano e banalizzano l'anticomunismo, avevano un piano perfetto per gestire il fenomeno Solženicyn ma sfuggì loro di mano perché avevano torchiato più del massimo tollerabile. Per un acino di sale persero la minestra.

domenica 5 gennaio 2020

Babal

Come disse la duchessa Madame de Guermantes del conte Breuté-Consalvi detto Babal: “Babal uno snob? Ma è tutto il contrario, caro amico! Detesta le persone brillanti!”

Infatti quando la duchessa Oriane (progressista) invitava musicisti, pittori, grandi medici, “Babal” si rifiutava di andare al ricevimento: questi borghesucci, con le loro chiacchiere e nozioni, disturbavano la conversazione fra i nobili, che verte incessantemente su un unico argomento: chi di noi è parente di chi.
Esattamente ciò che avveniva in seminario. Ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni minuto. Impossibile tener su un discorso intelligente. L'intelligenza disturbava la conversazione, il dialogo, persino la respirazione. Le uniche cose che contavano erano: chi vescovo è passato da tale diocesi a tale diocesi, chi parroco è in procinto di una nomina, chi è che faranno vescovo, chi è che faranno parroco... chi è che vorrebbe diventar vescovo, chi è che aspira a diventar parroco... Se mi fanno vescovo... Quando mi fanno parroco...

In occasione di un evento ecclesiale a cui ignote entità decisero che l'intero seminario doveva partecipare, fu proclamato che la partenza in autobus era fissata tassativamente alle quattro del mattino, poiché per qualche bizzarro motivo alle sette avrebbero chiuso le strade al traffico e bisognava viaggiare conservando ampio margine di tempo.

Fissai la sveglia alle tre e trenta del mattino, per potermi preparare senza fretta. Nonostante alle 22 fossi già a letto, dopo mezzanotte ancora non riuscivo a prender sonno: c'era trambusto nei corridoi, i soggetti si chiedevano a vicenda cosa indossare, il colletto romano o quello a lingua penzoloni? La camicia-clergy o direttamente la talare? E se poi si spiegazza durante il viaggio? E se poi fa freddo? E se poi il giubbotto durante tutta la giornata diventa un peso insopportabile? Ma tu metterai il clergy comprato da Gammarelli o il clergy comprato da Euroclero? La pettina l'hai cucita bene?... (roba che neanche le ragazzine che si preparano per andare per la prima volta in discoteca a sentirsi finalmente donne adulte e libere e vissute...)

L'ultimo orario che vidi sulla sveglia era circa 00:40 (anche nei giorni normali era assai raro che a mezzanotte ci fosse davvero il silenzio). Il trambusto continuò ancora per un po', ma la stanchezza mi vinse. Ad un certo punto, dopo il primo ciclo di sonno, già mi sveglio: c'è ancora agitazione nei corridoi del seminario. Cazzo, stracazzo del cazzo di Budda, sono le cazzo di due e mezza del cazzo, fatemi dormire, checche dello stracazzo, certo di urlare senza aprir bocca e senza muovere un muscolo per evitare di riattivare i normali livelli di pressione e circolazione e svegliarmi del tutto. Altre voci - di coloro che incredibilmente erano riusciti a dormire due o tre ore - rifacevano gli stessi discorsi: oh, se avessi un bel ferraiolo, oh, la pettina comprata all'Apostolato Liturgico che non ti fanno mai lo sconto, oh, che bel clergy, ma non è quello che hai già usato la volta scorsa?, ehi, mica devo portarmi la cotta ricamata?, proprio adesso che l'avevo ritirata dalla lavanderia...

La sveglia indica qualcosa come 2:45 quando un coglione di seminarista grassone letteralmente urla in corridoio: ma tu metti il clergy nuovoooh? E tutti gli altri che tentano di zittirlo: ssh, ssh! Non so come, riesco a tener saldi i nervi e a dormicchiare un'altra mezz'oretta (il trambusto però continua).

Alle 3:40 sono pronto e, affacciatomi, vedo già un piccolo drappello in cortile. Dieci minuti dopo scendo in cortile e con mia sorpresa non c'è nessuno. In strada non c'è nessun autobus. Un altro commilitone arriva trafelato e mi chiede dove siano tutti gli altri. Arriva un terzo, e già cominciano a parlare di talari e di quali filettature dovrà avere quella "per quando mi faranno vescovo". Attorno alle quattro arrivano alla spicciolata anche gli altri, e l'umidità comincia a farsi sentire. Alle quattro e un quarto siamo tutti prontissimi ma non ci sono autobus in vista. I commilitoni fanno a gara nel farsi a vicenda domande sui clergy, sui motivi del ritardo, e sui colletti dei clergy. Mi chiedono come mai sono in borghese, visto che la maggioranza di loro indossa un clergy. "Quando mi faranno parroco, questo colletto lo indosserò anche mentre mi faccio la doccia". Sì, certo.

I formatori non sono allarmati dal ritardo dell'autobus. Rispondono sempre e solo: arriverà a momenti. Uno dei formatori dice ad un altro formatore: bello questo pigiama-clergy. La notizia si diffonde in un lampo nel crocchio dei seminaristi, me la riferiscono almeno una dozzina di loro, anche se il sottoscritto aveva ascoltato in diretta quella battuta sarcastica sul clergy color grigio slavato e coi bottoni stile pigiama.

Verso le quattro e quaranta corre voce che finalmente i formatori hanno sollecitato telefonicamente l'autista, che conferma di essere in arrivo. L'autobus arriva finalmente alle 4:50. Apprendo per caso che la partenza era stata concordata alle 4:30, a noialtri avevano detto alle quattro, e l'autista - sapendo che preti e seminaristi sono perenni ritardatari - era invece partito deliberatamente con venti minuti di ritardo. Poco prima delle cinque, dopo aver ripetuto l'appello due volte, finalmente si parte.

Dopo aver risposto "sì" per la centesima volta alla domanda "ma vieni in abiti civili?" riesco finalmente a sonnecchiare per il resto del viaggio, con in sottofondo un'intricata foresta di discorsi sul nuovo vescovo di tal diocesi, sul promosso parroco, sul desiderio di tal vescovo di essere promosso alla nostra diocesi... Alle sei e trenta l'autobus è a destinazione. I commilitoni non hanno smesso di parlare di talari e di nomine episcopali per tutto il tempo, e mentre l'autista cerca lentamente un parcheggio la loro euforia triplica. Estraggo la cravatta dalla tasca della giacca e la indosso mentre nessuno mi nota. Toccherà aspettare solo tre ore e mezza per l'inizio dell'evento, c'è tutto il tempo per discutere di chi faranno vescovo e di cosa indosserà nelle grandi occasioni.

sabato 14 dicembre 2019

Quando manca anche il minimo sindacale

Da piccolo sono stato qualche volta dispettoso e arrogante, venendo generalmente ripagato con fior di mazzate (e anche col sarcasmo, perché il colpire l'amor proprio a volte fa più male delle mazzate). Qualche annetto dopo ho finalmente capito che c'è un "minimo sindacale" al di sotto del quale non esistono giustificazioni per ammorbidire una severa punizione (come la pena di morte, che ha senso perché chi ha compiuto qualcosa che gli farebbe perdere molto più che la dignità di uomo non può recuperarla altrimenti). Successivamente, l'approfondire la conoscenza della fede e della morale cristiana mi ha consolidato tale convinzione: cioè normalità la legge naturale, minimo sindacale il civile buonsenso. Ossia quanto basta per distinguere tra il cristiano porger l'altra guancia dal perdonismo idiota che consiste nel vigliacchissimo farsi zerbini di tutto e di tutti.

Così, anche di fronte a casi che reclamano una punizione severa e per nulla ammorbidita (come ad esempio il vandalismo, letteralmente e figurativamente inteso) cerco di essere almeno un po' distaccato, di concentrare le mie energie mentali nel cercare una soluzione al danno prima che una giustizia o una vendetta. Cioè tentare di risolvere l'impossibile problema dell'architettare una soluzione "tecnica" per risolvere un problema di "capricci da sociopatico" o di altra forma di odio gratuito e immotivato. Ma non per questo smetto di sperare che il soggetto riceva quel che di durissimo merita (il perdonare i propri nemici non attenua la necessità di perseguire la giustizia del far aver loro ciò che si meritano).

Per quanto ai non addetti ai lavori possa sembrare incredibile (pur sapendo che la Chiesa è sorprendentemente piena di pessimi soggetti), nel postconcilio è stato statisticamente assai più facile ordinare al sacerdozio (o fargli solennemente emettere voti perpetui) un soggetto mentalmente o sessualmente squilibrato, a stento capace di rispettare quel minimo sindacale del non creare volontariamente e studiosamente pasticci da titolone in prima pagina. Sacerdoti affetti dalla triade oscura (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e magari anche da una radicata omosessualità, intenti a calpestare le anime loro affidate e, specialmente, le vocazioni.

Ogni volta che mi è stato assegnato un incarico - "pastorale" o meno - ho cercato di non affezionarmi a quel che facevo. Fosse anche soltanto una lavata di pavimento. Ma quando cominci a investirci tempo, pazienza, risorse, per far bene quel che esige di essere fatto bene, inevitabilmente cominci a considerare un pochino anche "tuo" il risultato (che è lo stesso meccanismo mentale del pastore che cerca la pecorella smarrita). Lo sai già che prima o poi il pavimento verrà sporcato da qualcosa di più che il semplice transito e sosta di normali soggetti umani, ma che lo scempio avvenga per motivi non accidentali poche ore dopo averlo pulito, ti tocca aver pazienza, già mezz'ora dopo, una seccatura, vederlo deliberatamente vandalizzato dal presbitero due minuti dopo che sei andato via, eh, devi investire una considerevole quantità di energie per non infuriarti. La via verso il sacerdozio è di questi tempi una lunghissima guerra di nervi condotta da estenuatori professionisti contro di te.

Ed è anche peggio, molto peggio, quando si tratta di conquiste più consistenti che mentalmente, quasi soltanto con pensiero laterale, avevi già consacrato a Dio. È deprimente scoprire che il parroco ha stabilito di segarti fuori da qualsiasi incarico non di intrattenimento ludico perché ai ragazzi dell'Azione Cattolica, come preghiera prima dei giochi, avevi fatto dire l'Ave Maria anziché l'abituale Padre Nostro (non sia mai che una minima traccia di devozione mariana inquini l'ACR). Ripensi al vispo ragazzino della parrocchia, col quale avevi parlato quasi esclusivamente con gesti "lontani" (servendo Messa, riparando una presa elettrica, spazzando via la neve). Veder devastare con foga (e per stupidissima invidia) tutto il "lavoro" di "pastorale vocazionale" che avevi fatto, non è stato bello, né ti può rincuorare il fatto che la grazia di Dio troverà il modo di passare (non raccontiamoci favolette: la grazia di Dio non ha bisogno dei vandalismi per essere efficace, e Nostro Signore non ha bisogno di cattiverie come precondizione per farsi riconoscere meglio). È doloroso scoprire che alla coppia di aspiranti sposi, che avevi attirato verso poche precise verità essenziali con la pazienza di uno che trascina una barca a riva usando solo un filo di cotone, è stato insinuato in maniera brillante che il sottoscritto fosse poco meno che un borderline su una nuvoletta, un soggetto che fa discorsi bizzarri da dimenticare (non venitemi a dire che quando seminate delle piante delicate occorre che qualcuno ne calpesti il terriccio a pallonate altrimenti non crescono bene). A volte invece ti toccava accogliere con un sorriso tali preteschi getti di odio vomitati in tua stessa presenza proprio per sterilizzare e cancellare il "lavoro" fatto - puntigliosamente pianificati, calcolati, architettati, messi in opera, con uno zelo di cui solo dei chierici sociopatici sono capaci. E in quel momento la fitta di dolore era non più per il tuo lavoro devastato lì per crudeltà gratuita, ma per tutta la Chiesa santa, che veniva calpestata da uno dei suoi uomini - un mezzo uomo, un pretino grasso come una botte, con enorme dimestichezza nel selezionare parole e gesti per massacrare con maggior efficienza coloro che in quel momento non riteneva simpatici).

La cosa che mi strazia di più l'animo è che tali soggetti si esibiscono in Comunione quotidiana e breviario ostentato, più una collaudatissima recita da santarellini credibili. Come il prepuzio preposito, che si è fatto letteralmente sfondare il buco del culo - al punto da farsi rimbrottare bonariamente dal suo proctologo perché non si può ricostruire l'ano una seconda volta - e che in tutto il tempo che sono stato lì non l'ho mai visto sorridere o almeno ridere, tranne quella volta che mi vide piegato in modo strano a trasportare un aggeggio pesante sulle scale. Avanti, nel girone dei ricchioni c'è posto anche per i preti, specialmente quelli letteralmente capaci di banalizzare il Sacramento pur di intascare i trenta denari (e se ne vantava perfino: "pagano bene"), di architettare tutta una complicata strategia per farmi fuori (solo perché non ero gradito al suo frocetto preferito), di avermi mentito non con monosillabi difensivi ma con elaborati discorsoni (somministratimi a puntate perché troppo lunghi, lunghi anche da preparare), di aver accuratamente cancellato le tracce di tutto ciò che avevo fatto di buono (un nemico giurato di Nostro Signore è capacissimo di riconoscere quel che fai a favore di quest'ultimo, anche se ti fosse capitato distrattamente, proprio perché ossessionato dal dover distruggere tutto ciò che non rende gloria a sé stesso e alla sua finocchieria congenita).

Anche in assenza di altri indizi, tutto ciò mi fa dedurre che il castigo imminente sulla Chiesa - mazzate e persecuzioni - è meritato e inevitabile. A noialtri tocca solo salvare i semi per dopo l'alluvione.