venerdì 13 dicembre 2019

L'assegno del dottore

Avevo cominciato a lavorare a diciott'anni, ancor prima di iscrivermi all'università. Lavorare - cioè avere responsabilità, orari da rispettare, scadenze da onorare, e perfino uno stipendio - è particolarmente educativo. Al punto che quando entrai in seminario riconobbi subito i commilitoni e i pretazzi che non avevano mai lavorato in vita loro: erano quelli che si comportavano come bambini capricciosi, sebbene con apparente garbo e astute capriole dialettiche, e soprattutto ottima memoria (e quindi collaudata vendicatività). Un'altra loro caratteristica fondamentale era quell'attitudine a desiderare di essere serviti e pagati. Si aspettano che il fedele molli la grana e non si interrogano minimamente sui loro meriti che dovrebbero indurlo a mollarla.

Un chierico che non ha mai lavorato parla dei soldi dei fedeli così come il mafioso parla distrattamente delle quote che deve intascare col pizzo. "È ricco e quindi deve sganciare gli sghei", mi diceva con malcelata avidità il parroco a cui ero soggetto all'epoca. "Sì, guadagna molto", annuivo io tentando di non fargli notare il mio disappunto per quell'affermazione comunista nemica della proprietà privata. E lui: "non solo il lavoro: è ricco anche di famiglia, quindi se sgancia tremila, quattromila euro non gli cambia niente!" Ero in imbarazzo perché non trovavo motivo di chiedere anche un singolo centesimo senza averne effettivo bisogno, nemmeno se si tratta di un ricco.

In paese il ricco in questione lo chiamavano "il dottore", ma sembrava piuttosto un titolo onorifico. È molto probabile che il parroco avesse incautamente contratto tutti quei debiti proprio perché contava di fargli sganciare "gli sghei". Sottolineo "incautamente", come un giocatore d'azzardo. Il dottore sganciò ben più di quattromila, firmando un assegno che non solo copriva tutti i debiti di quell'inutile e ridicolo centro giovanile ma pareva poter coprire anche un anno di bollette. "Il Signore ci aiuta sempre", mi disse ipocritamente il parroco mentre lo accompagnavo in banca a depositare. La banca gli aveva ingiunto di rientrare al più presto, entro tot settimane, e dopo tot più uno settimane il parroco era riuscito a convincere con chissà che enfatiche parole il benefattore. Che in cambio aveva chiesto solo di rimanere assolutamente anonimo. Talmente anonimo che ne ero già al corrente anch'io, l'ultimo degli arrivati in parrocchia. "La provvidenza ci aiuta", insisteva il parroco esigendo un mio commento. "È vero", aggiunsi, "nemmeno io avrei immaginato che sarebbe finita così bene" (ci vuole un'enorme fatica per rispondere a modo, dicendo la verità senza urtare suscettibilità, senza firmare cambiali in bianco agli amici del demonio e senza combinare occasioni di peccato mortale).

La piazzetta è deserta, c'è un sole tiepido. Mentre scendiamo dalla macchina qualcosa mi dice che dietro le finestre alcuni parrocchiani ci stanno osservando. Sanno cosa andiamo a fare, il paese è piccolo, le voci corrono veloci. "Aspetterò in macchina", dico al parroco per togliergli l'eventuale imbarazzo di dirmi che sarebbe entrato da solo. Invece insiste a volermi presente. "Qui nessuno fa la multa al parroco", dice pieno di sé, tanto per ricordarmi che non ha mai lavorato in vita sua, trasformando la gentilezza dei vigili in un dovuto ossequio all'inesistente titolo nobiliare di parroco. Entriamo nel grigiore della mini-filiale, in quella specie di sportello-ufficio-archivio che è una selva di carte accatastate in faldoni, volumetti, scatoloni, che lasciano spazio solo a poster pubblicitari con attempate donne bionde in abiti da ufficio sorridenti accanto a riquadri zeppi di numeretti e percentuali e rate.

L'impiegato, apparentemente la sola persona presente nella banca, ci accoglie calorosamente. Gli è bastato guardare la faccia del parroco per capire che è entrato per rientrare. All'impiegato non importerebbe un fico secco del rientro, ma è addestrato a ubbidire agli ordini ricevuti dal computer centrale, e ad elargire sorrisi di circostanza su misura delle operazioni del cliente. Dopo un po' di rituali chiacchiere sul maltempo e sul festival parrocchiale finalmente ci chiede il motivo della visita, come se non lo conoscesse. Il parroco gli porge l'assegno per rientrare e contestualmente gli dice di voler ritirare anche un po' di contante. Con una faccia inespressiva da giocatore di poker l'impiegato snocciola un po' di latinorum bancario per dirgli che può anche ritirare contanti ma tornerebbe in rosso, perché tra interessi supplementari sul debito, varie piccole operazioni già effettuate e altre minuscole faccenduole l'assegno è appena sufficiente a tappare l'enorme buco. In quel momento mi rendo conto che il medico avrà informalmente chiesto all'impiegato il valore esatto del debito da coprire e avrà arrotondato ai cento euro successivi: è un paesetto piccolo, e tra uomini seri le norme bancarie sulla privacy possono anche essere messe da parte un momento. Del resto al posto del medico io avrei fatto lo stesso: dare una mano alla provvidenza sì, ma senza invogliare gli scialacquatori. Uno che non ha mai lavorato in vita sua non riuscirebbe ad architettare qualcosa del genere.

L'impiegato osserva l'assegno, smette di sorridere e chiede al parroco con voce molto bancaria: "si rende conto di chi è la firma su questo assegno?" Abituato dagli anni di seminario a trasmettere il minor numero possibile di emozioni resto fermo come una statua. Magari lo ha chiesto perché c'ero io presente. Il parroco dice di sì e spiega che il generoso benefattore intende coprire i costi intrapresi dalla pastorale giovanile (verbo impersonale e soggetto intraprendente fumoso e impersonale). L'impiegato lo lascia parlare per alcuni istanti, come se volesse davvero accertarsi di qualcosa. Quindi, quando finalmente comincia a diventare un pochino percettibile l'imbarazzo del parroco, sorprendentemente lo interrompe e soggiunge: "è bene che non si sappia in giro chi ha fatto quest'assegno, sapete, è una somma non indifferente". Il parroco, visibilmente sollevato, annuisce. Pochi minuti dopo siamo già in macchina e finalmente il parroco mi raccomanda caldamente di non far sapere in giro dell'assegno. Ma non gli è difficile capire che non parlerò, visto che già in altre occasioni ho saputo tacere su qualche sua magagna.

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