Qualche tempo fa due cari ragazzi chiesero di sposarsi in rito tradizionale. Incontrarono un esercito di agguerritissimi don Abbondio di ogni livello. Finirono per sposarsi dai lefebvriani, e chissenefréga del codice di diritto canonico.
C'era poi un giovane che macinava numerosi chilometri per andare ad una Messa tridentina. Il prete, un giovane religioso polacco, si stufa di celebrarla. In città restano solo i lefebvriani e un pretonzolo che la celebra alla carlona. Il giovane comincia a dirsi che dopotutto i lefebvriani non sono più scomunicati, e ora va sempre a Messa da loro.
C'era un giovane seminarista. Primo anno di seminario maggiore: incaricato sacrista. Mette tre tovaglie sull'altare, fatte stirare "a spighe", e fa trovare ampolline pulite e sempre e solo il calice "buono" (piuttosto che i "calici" di terracotta in dotazione alla sacrestia). Quando il prete animatore trova in sacrestia un cartellino «Celebra Missam ut primam, ut ultimam, ut unicam» e sull'altare il crocifisso rivolto al celebrante, s'incazza: "e che è quel coso?". Nell'ultima Messa prima delle vacanze natalizie il giovane seminarista ricevette il poco invidiabile onore di un'omelia contro di lui: "e qualcuno, sicuramente, dopo Natale non vorrà rientrare in seminario..." (traduzione: sparisci).
Il successo dei lefebvriani è dovuto anzitutto ai vizi e vizietti del clero postconciliare. Si potrebbe tentare di spiegare, a tempo perso, ai preti modernisti, che il fenomeno dei tradizionalisti (che non riguarda solo i lefebvriani) era "gestibile" e che sarebbe bastato un minimo di tolleranza e di compostezza per non farlo esplodere.
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