mercoledì 1 marzo 2017

Un sacerdote in meno, tante anime a penare in più

Un mio sogno ricorrente: uscendo dal cortile per entrare in macchina, vedo in strada tante persone che avrebbero bisogno di un passaggio. Una donna anziana mi chiede con timoroso garbo se ho un posto libero. Altri, più timidamente, si limitano a guardarmi da lontano nella speranza di cogliere un mio cenno. Costernato, devo risponderle che non ho più posti. Lei mi ringrazia in silenzio, con un breve sorriso, e si allontana. Molti degli altri continuano da lontano a gettarmi qualche timida occhiata, senza parlare, aspettando che qualcosa cambi.

Nello svegliarmi non posso fare a meno di ricordare tutte quelle anime del purgatorio altrimenti dimenticate. E tutte quelle anime viventi che avrebbero bisogno di un sacerdote... ed è stato loro negato. Negato dai vescovi e dai formatori del seminario. Negato dalla mentalità secondo cui il "presbitero" (non sia mai che dicano "sacerdote") dev'essere un uomo di dialogo, un tessitore di comunionalità, uno "vicino alla gente", talmente vicino alla "gente" da ignorare coloro che hanno bisogno di lui per un sacramento, un insegnamento, una guida. La pastorale è infatti in antitesi ai tre munus sacerdotali. Una parrocchia viva è quella dove più si celebrano spettacoli, riunioni, giochi, giornalino, sagre, gruppi, volantini, raccolte fondi, cartelloni, tornei, cineforum, campi scuola, vacanza estiva... La pastorale per una parrocchia viva è infatti quella che la riduce a un'ente morto e inutile, un circolo ricreativo in cui il sacro è solo uno degli accessori secondari e magari anche trascurati.

Non mi illudo certo che la buona volontà mi avrebbe fatto evitare danni una volta giunto al sacerdozio. Ma ciò che mi aspettavo dalla vita sacerdotale era drammaticamente diverso da ciò che si aspettavano i miei compagni di corso. Per i quali, senza mezzi termini, la prima ambizione era rimediare un incarico da parroco, cioè un distributore di prediche stipendiato dalla curia, con entrate economiche supplementari dalle offerte per i sacramenti, e con un piccolo regno (la parrocchia) su cui spadroneggiare. Dopo un certo numero di anni, magari, accedere a qualche incarico importante con supplemento di stipendio e forse pure un titolo da monsignore, e per i più ambiziosi (cioè almeno metà dei compagni di seminario) pure l'episcopato. Le anime, cioè le pecorelle da pascere, c'entrano solo come consistenza numerica del proprio successo, solo come parco buoi che volontariamente sgancia qualche soldino. E le anime del purgatorio - quelle per le quali mi capitava quel sogno ricorrente - sono al massimo l'etichetta in nome della quale aspettarsi il pagamento per le intenzioni a tariffa standard.

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