venerdì 2 gennaio 2015

Guardando il dito

C'è un proverbio che dice che quando il saggio indica la Luna lo stolto guarda il dito. Questo proverbio si applica bene nel mondo clericale dove, per cattiva disposizione, si guarda sempre il dito e mai la Luna.

Episodio.

Una volta ero da sua eccellenza reverendissima il vescovo. Mi parlò della nefasta relazione di fine anno che i superiori del seminario avevano scritto su di me. Dopo tanta pazienza cerco di far presente che ci sono non soltanto delle "inesattezze" dovute al fatto che "forse non è stata scritta serenamente" (eufemismo per dire che avevano tanto odio in corpo da sputar fiamme da tutti gli orifizi).

Il vescovo, anziché chiedermi i motivi della mia affermazione, mi dà una lezione di politically correctness, anzi, del clerically correct, perché il mettere in dubbio la presunta "serenità" dei superiori gli sembrava molto grave. "Inesattezze", poi! Accusa pesantissima! Gli rispondo tentando di spiegargli che l'ironia è un modo per sintetizzare senza annoiare, e che fin da piccolo sono stato educato più con l'ironia che con le punizioni corporali. Il vescovo non risponde e va avanti a leggere la vaccata successiva. "E questa?" mi chiede. Avrei dovuto dirgli che se non si capisce ciò che c'è scritto, non è un problema originato da me. Ma mi mordo la lingua e piuttosto gli rispondo (tentando di non ironizzare) che anche quella è nel migliore dei casi frutto di un equivoco e che glielo posso spiegare. Ovviamente neppure stavolta mi ascolta: taglia corto dicendo che non so apprezzare niente.

Alla fine, trionfante, legge che sono stato visto in tarda serata a pregare in cappella in ginocchio. Dato che la relazione conteneva questo punto non negativo (e sfido io!) mi guarda con un ghigno come per dirmi: non è come dicevi tu, non sono "tutti" punti negativi, dunque non è vero che hanno un pregiudizio contro di te (il che, in lingua episcopalese, significa che la relazione sarebbe "equilibrata" e "credibile").

A quel punto, sperando che cogliesse il senso, resto in silenzio e volgo pazientemente lo sguardo altrove.

Dopo qualche istante, intestarditosi nel suo pregiudizio che io abbia un pregiudizio contro i superiori (e senza capire che quei soggetti tutto l'anno mi sorridevano e a fine anno mi scrivevano una relazione perfida), mi congeda.

Molte delle perfidie clericali dipendono dall'ossessione pilatesca di lavarsene le mani.

Il vescovo è incapace di stabilire se una vocazione è accettabile per il sacerdozio? Demanda la verifica a un istituto "competente", il seminario, e alla fine del percorso si fida non di ciò che vede ma di ciò che legge. Burocratizzazione della fede.

In seminario ci sono dei preti si ritrovano a vagliare vocazioni sulla pura base delle personalissime simpatie. Nessuno di loro pagherà mai le conseguenze di ciò che scrive nelle relazioni. E se pure il sacerdote affonda negli scandali pochissimo tempo dopo l'ordinazione, i vecchi formatori che tanto lo avevano elogiato si scherniscono: "eppure qui era sempre andato così bene..."

Eh, già. Era sempre puntualissimo alle prove di canto. Sempre in prima fila nell'incontro ecumenico. Sempre pronto a darsi da fare con gli addobbi natalizi. E poi non era attaccato alle cose preconciliari (come il rosario, la talare, il latino, l'apologetica...). "Anche noi formatori siamo stupiti che abbia deciso di lasciare il sacerdozio".

Questo è il dramma dei vescovi di oggi: hanno ridotto la verifica delle vocazioni ad un affare burocratico. I "verificatori" producono una serie di cartacce che saranno lo scripta manent capace di azzerare qualsiasi buonsenso passato, presente e futuro. Come tutti i burocrati, non pagheranno mai per i loro errori: possono perciò prendersi tutte le libertà di devastazione concesse dal clerically correct: sociologismi, psicologismi, teologismi da baraccone con una spruzzatina di correctness, e soprattutto dar sfogo all'omosessualismo latente.

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