Quando un vescovo decide di subappaltare la verifica delle vocazioni ad un seminario, teoricamente dovrebbe anche assicurarsi che i formatori siano uomini seri, con la testa sulle spalle, di provata fede, zelatori della santità della Chiesa. Magari potrebbe anche scegliere il miglior prete del suo clero e assegnargli tale delicato compito. Magari!
In realtà le diocesi sono a corto di preti. Troppi fannulloni, troppi incarichi, troppe parrocchie e... troppo scarse (di quantità e di qualità) le nuove vocazioni. Così, se proprio gli accordi interdiocesani richiedono che la tua diocesi debba mandar lì uno a fare il formatore per qualche anno, tu vescovo cosa fai? Prendi la peggior scartina, il più incompetente e avido, il più chiacchierato della diocesi, e gli fai un discorsone in privato per fargli sembrare che l'esilio sia in realtà un premio ambitissimo e una promozione invidiabile. E magari ci infili il sottinteso che se si rifiuta, il vescovo porgerà finalmente orecchio a certe strane voci sul conto del pretino.
E così l'incompetente chiacchierato avido idiota si ritrova improvvisamente formatore di seminario, con una comunità di ragazzi talvolta più anziani e più titolati di lui, sui quali ha diritto di vita e di morte vocazionale.
Il prete in questione era chiacchierato perché dicevano che se l'intendesse con una certa parrocchiana che lo invitava continuamente a pranzo. E lui, avido di mangiare e di essere al centro dell'attenzione, ci andava molto volentieri. Non credo ci fosse qualcosa di sessuale, visto che il soggetto era alquanto frocetto. Fatto sta che il vescovo trovò comodo prendere vari piccioni con una fava.
Fin dal primo giorno di seminario tale pretino fece tutta una serie di strambi discorsi sulla diocesanità, sulla comunità, sulla condivisione, insomma dichiarò pressoché apertamente che desiderava essere circondato da un branco di ipocriti adulatori perennemente intenti a blandirlo e incensarlo, e che avrebbe minuziosamente preso nota - a caratteri rossi cubitali - di chi non gli sembrava abbastanza "comunitario".
Toccò anche a me pagare il quotidiano pizzo di marcar presenza nella sala comunitaria, presenza obbligatoria in diversi momenti della giornata (dopo pranzo, tardo pomeriggio, dopo cena, prima delle liturgie... ogni santo giorno), presenza debitamente segnalatagli dai suoi delatori preferiti quando lui si assentava, che aggiungevano (a volte persino spontaneamente) la ripetuta presenza in camera sua a chiacchierar di parroci, di vescovi e di seminari per ore intere, a volte anche passata la mezzanotte. Quando un prete formatore-animatore di seminario dice con voce melliflua "la mia porta è sempre aperta", significa "guai a chi non viene regolarmente a pascolare in camera mia".
Per cui, guai a me.
Durante una tornata di esercizi spirituali il soggetto, preso da un momento poetico, arrivò a teorizzarci la necessità di un prete di trovarsi una «casa amica», nella quale riparare quando le fatiche pastorali della parrocchia estenuassero il fisico e lo spirito. Evidentemente parlava delle sue «case amiche», di cui una era stata il motivo del suo esilio in seminario, nelle quali lui volontariamente andava a farsi mangiate e dormite con la scusa di venir continuamente invitato (questo genere di debolezze ha due risultati immediati: qualche laico che vanta una specie di diritto di prelazione sul tuo tempo e sulle tue attività di parrocchia, e l'immediata proliferazione delle chiacchiere di paese, a volte persino con ottimo fondamento).
Naturalmente le antipatie che lui maturò il primo giorno di seminario, nessun seminarista se le schiodò più. Incluso il sottoscritto. Che non era stato avvisato dell'obbligo tassativo di marcar presenza dopo pranzo in sala comunitaria per l'obbligatorio cazzeggio idiota da esibirgli insieme all'adulazione. Un paio di seminaristi furono incaricati (o forse caritatevolmente si autoincaricarono) di correre a chiamare subito a raccolta immediata tutti gli assenti, ma ormai il danno era fatto. «Non cura molto l'aspetto comunitario», si ritroveranno nella fatidica relazione di fine anno. La "formazione sacerdotale", per un discreto numero di ore della giornata, consisteva nel simulare entusiasmo e condivisione fraterna. Poi uno si chiede come mai i preti generalmente siano profondamente ipocriti, specialmente quelli ordinati negli ultimi decenni.
E così, quella stessa mano che alle 8:15 mi amministrava la Comunione, venti minuti dopo vergava contro di me nero su bianco generiche ma infamanti accuse sulla mia relazione. Non ho mai potuto leggere il testo di quelle maledette relazioni. Ma ogni anno, quando il vescovo mi chiamava a colloquio, era un camminare sui carboni ardenti.
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