venerdì 1 dicembre 2017

Quale esagerazione?

Sempre la solita domanda retorica: ma non ti sembra di essere esagerato?

No.

Ho colto il vescovo a mentirmi. Sapeva che io sapevo. Gliel'ho fatto notare e sono stato persino gentile con lui - ed è questa l'unica cosa di cui dovrei pentirmi. Avrei dovuto battere sul ferro finché è caldo, e dirgli: eccellenza, lei è il mio vescovo, lei mi è padre, lei è la prima persona al mondo che dovrebbe avere a cuore la mia vocazione e la mia fede: perché mi sta mentendo?

Anche il rettore del seminario, che mi diluviò di paroloni insignificanti per non dare a vedere di aver mentito e di essersi puntualmente, sistematicamente, continuamente rimangiato ogni parola data, si tirò indietro. Per esempio, dopo che inventa regole per rinfacciarmi di non averle seguite glielo faccio notare con gentilezza insieme alla sorprendente differenza di trattamento subita da me rispetto agli altri, svicola: eh, no, ora non "giuridicizzare". Anche lì, per lo stesso malinteso ingenuo spirito di ubbidienza, non ho alzato la posta. Ma come? Se si tratta di mettermi nei guai, lui "giuridicizza", e quando gli faccio notare qualcosa, mi accusa di "giuridicizzare"? (il caso in questione: di me si diceva che andava pressoché tutto bene, ma trovavano sempre il pelo nell'uovo per bloccarmi il percorso, mentre di altri - che avrebbero dovuto cacciare a pedate il primo giorno - dicevano "crescerà". Dunque se non hai fede, se la tua vocazione consiste solo nell'aristocratica brama di prestigio dei tuoi familiari, se sei ignorante e scansafatiche, se sei arrogante e capace di grandi e numerose piccinerie, se sei tutte queste cose, beh, sei buono per il sacerdozio, perché si presume automagicamente che "crescerai").

Alla lista devo aggiungere anche il parroco a cui ufficialmente avevano chiesto un ultimo parere su di me. Costui dopo avermi rassicurato per tutto un anno che le cose andavano bene e che avrebbe speso una buona parola per me, alla fine della giostra si tira fuori dicendomi - mentendo - che il suo parere non era vincolante.

Questa Chiesa ha deciso di castrarsi, espellendo gli unici seminaristi che domandavano il sacerdozio a causa del fatto che desideravano vivere la vita sacerdotale, e tenendosi invece quelli con esaurimento nervoso, problemi di alcolismo, frocerie, culattonerie e ricchionerie più o meno represse, incapacità intellettuali e umane preoccupanti, e soprattutto l'idea - straordinariamente diffusa - che il sacerdozio consistesse nel mestiere di parroco. Col risultato che per tutti gli anni del pre-seminario e del seminario e del post-seminario, il discorso che non mancava mai ogni giorno, ogni mattina a colazione, ogni pranzo, ogni cena, ogni dopocena, ogni intervallo tra due ore di lezione, ogni minuto di attesa di inizio di celebrazione, tollerato e talvolta addirittura incoraggiato dalli superiori, era sempre lo stesso: quando mi fanno parroco, io poi faccio qui, faccio lì, poi se le cose vanno bene chiedo di essere mandato in una parrocchia più grande, poi se mi danno un incarico in curia, ma io vorrei anche insegnare oltre a fare il parroco, poi, se mi fanno vescovo, quando mi fanno vescovo, io da vescovo farei così, se io fossi il vescovo farei cosà...

Tutto un fare, fare, fare. Un mestiere. Ero tra i pochi - quando non l'unico poveraccio - in seminario (e in preseminario e in postseminario), a pregustare il momento in cui i cieli e la terra si sarebbero toccati per quella formula di consacrazione dalla mia semplice voce. Ero l'unico a immaginarmi alle 23 seduto in confessionale a leggere qualcosa, e arriva per caso uno che le circostanze della vita lo hanno indotto a fare il gesto del figliuol prodigo. Ero l'unico a pregustare i momenti in cui avrei sparso a piene mani (mani sacerdotali) benedizioni anche su gente distratta. Ed ovviamente ne parlavo poco o nulla coi miei compagni, perché non si potevano dare perle ai porci, perché erano infinitamente più contenti quando tiravo fuori qualche seriosa espressione - per lo più intesa solo a spercularli - del tipo: un parroco non può stare in mezzo alla gente se ha l'incarico di insegnare all'Istituto di Scienze Religiose, tuttavia l'insegnamento nell'ISR è comunque un modo di fare pastorale... E loro, che non amavano la ragione ma solo i costrutti semantici A-B/B-A, gioivano e riprendevano i loro mielosi discorsetti: è vero, quando sarò parroco - spero presto - cercherò, farò, vedrò, bilancerò la pastorale, saprò regolarmi, curerò la diocesanità... (e per la cronaca, una volta divenuti parroci, al di là del rifilare prediche non hanno fatto altro: "armiamoci e andate" è il loro motto, ognuno scegliendosi qualche hobby piccino piccino con cui spendere il proprio tempo perché il mestiere del parroco si è rivelato terribilmente noioso e irto di rogne).

Le miserabili scuse con cui il vescovo, rettori, formatori, fino agli ultimi incaricati di dare un parere, hanno abortito la mia vocazione, sono sempre state una maledizione contro di loro, andata ben al di là del tasso ridicolo di abbandoni, infedeltà, pasticci, disubbidienze, guerre, e altri abbandoni, commessi dai miei compagni di seminario che a furia di "crescerà" sono stati portati al sacerdozio.

Ma il saperlo non mi ricompensa per nulla, perché anche qualora questa Chiesa "postconciliare" sprofondasse, non mi sentirei per nulla risarcito o giovato.

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