venerdì 15 dicembre 2017

Quel Te Deum vietato

Un certo anno, negli ultimi giorni di seminario a giugno, per tramite di uno dei seminaristi più impiccioni e meglio ammanigliati con qualche prete curiale, arrivò la segretissima notizia che il nostro perfido formatore prete animatore aveva appena ricevuto la nomina a parroco. Si toglieva finalmente dalle balle! Da settembre non lo avremmo più visto!

La notizia e il tripudio divamparono come un fiammifero acceso in un lago di benzina, lasciando intristiti solo i pochi seminaristi che a suon di ipocrisie e delazioni avevano costruito i loro piccoli imperi personali. Uno dei commilitoni più entusiasti arrivò a cantare due righe del Te Deum Laudamus: non so dove avvenne ma sono certo che non fu in pubblico, fu quasi certamente nella camera di qualche seminarista, forse davanti a non più di due o tre commilitoni, perché era davvero troppo pericoloso esporsi (era come se in un Gulag nel 1953 fosse giunta la notizia della morte di Stalin: in cuor proprio ognuno sperò che il sistema crollasse, e invece...)

Quando il fracasso entusiasta in corridoio toccò vertici inusitati - eravamo dopotutto in periodo d'esami - mi affacciai dalla porta della mia camera per chiedere cosa fosse successo. Il cantore del Te Deum mi riferì sottovoce la bella notizia, e rispose più volte che era verificata e confermata e assicurata. (Non fui preso da eccessivo entusiasmo non è mai detto che il successore sia meno perfido. E comunque mi conveniva rimanere in camera perché il perfido animatore di sicuro doveva aver già notato che la notizia era inopportunamente trapelata).

Qualche ora dopo il perfido rettore convocò tutta la comunità d'urgenza in sala comunitaria per una "comunicazione". Elencò subito cinque nomi, incluso il sottoscritto, dichiarandoli dimessi dal seminario a partire dal giorno successivo, perché avrebbero cantato tutti insieme e pubblicamente quel Te Deum dimostrando così una inaccettabile mancanza di rispetto verso i formatori.

Il sottoscritto fu sorpreso ma non reagì (tanto più che qualsiasi mossa, anche un tremito del mignolo del piede, sarebbe stata interpretata come inaccettabile ribellione e insubordinazione), e del resto quando una menzogna è così grossa non vale la pena sprecare microcalorie per ribattere. Lo show della "comunicazione", infatti, era inteso non solo a umiliare nel peggior modo possibile coloro che l'animatore promosso a parroco riteneva responsabili, ma anche ad estrarne qualche possibile parola fuori posto o altra mossa avventata da adoperare contro di loro in opportuna sede (relazione di fine anno).

Gli altri quattro seminaristi, di scarsa esperienza di vita, andarono subito in panico e lo pregarono - ognuno a modo suo, chi tra le lacrime, chi col solito gergo politically correct, chi gridandosi innocente (sottinteso: pronto a denunciare i compagni pur di salvare la pelle), ecc. - di rivedere la sua decisione.


Il perfido rettore insistette più volte a dire che quella era "una comunicazione", non "un'udienza", e andò via facendosi largo tra i quattro disperati più o meno in lacrime, uno già in ginocchio. Proprio il metodo terroristico del colpirne uno per educarne cento: fare barbara strage di qualche innocente in modo da mantenere tutti gli altri nel terrore, poco importa che il mezzo scelto sia la menzogna (il rettore e l'animatore infuriato sono pur sempre preti, che celebrano Messa ogni giorno, che mangiano il Pane di Vita Eterna ogni giorno... mangiano e bevono la loro condanna quotidianamente). Ed infatti, il resto della comunità, salvo rari casi, esibì la tipica ipocrisia, vestì la tipica faccia del "non sapevo nulla", si preparò mentalmente ad approvare la decisione del rettore (magari con l'alibi del meglio che vengano colpiti loro che io).

Durante l'estate ce la cavammo tutti e cinque - alcuni, come me e il vero cantore, fummo spediti dal vescovo in un altro seminario, altri ebbero da sudare cubetti di ghiaccio per convincere il proprio vescovo di essere innocenti.

Neanche tre mesi dopo, a settembre, per caso incrociai per strada il rettore, che non vedevo da quando si esibì nella "comunicazione". Tentai di cambiar strada ma lui, giovialmente, come se nulla fosse accaduto, come se quella terribile menzogna (che pure aveva raggiunto lo scopo di togliermi da quel seminario) non fosse mai esistita, mi tese la mano.

Mi rifiutai di stringergli la mano, limitandomi a dire: "dopo quello che ha fatto?", e me ne andai. Quella stretta di mano gli serviva per autoassolversi, e istintivamente non volli essere complice di quella autoassoluzione.

Non avendo ricevuto la stretta di mano, il perfido rettore immediatamente si diede da fare per far conoscere l'increscioso episodio al mio vescovo e al mio nuovo rettore. Quest'ultimo, a cui non sono mai andato a genio, fu molto soddisfatto della cosa (aveva anche lui bisogno di trovare il pelo nell'uovo), ed infatti me la rinfacciò appena possibile, in privato, durante il periodico colloquio, e fu inutile ripetergli tutta questa storia. Ma ne parlerò in un altro momento.

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