sabato 14 dicembre 2019

Quando manca anche il minimo sindacale

Da piccolo sono stato qualche volta dispettoso e arrogante, venendo generalmente ripagato con fior di mazzate (e anche col sarcasmo, perché il colpire l'amor proprio a volte fa più male delle mazzate). Qualche annetto dopo ho finalmente capito che c'è un "minimo sindacale" al di sotto del quale non esistono giustificazioni per ammorbidire una severa punizione (come la pena di morte, che ha senso perché chi ha compiuto qualcosa che gli farebbe perdere molto più che la dignità di uomo non può recuperarla altrimenti). Successivamente, l'approfondire la conoscenza della fede e della morale cristiana mi ha consolidato tale convinzione: cioè normalità la legge naturale, minimo sindacale il civile buonsenso. Ossia quanto basta per distinguere tra il cristiano porger l'altra guancia dal perdonismo idiota che consiste nel vigliacchissimo farsi zerbini di tutto e di tutti.

Così, anche di fronte a casi che reclamano una punizione severa e per nulla ammorbidita (come ad esempio il vandalismo, letteralmente e figurativamente inteso) cerco di essere almeno un po' distaccato, di concentrare le mie energie mentali nel cercare una soluzione al danno prima che una giustizia o una vendetta. Cioè tentare di risolvere l'impossibile problema dell'architettare una soluzione "tecnica" per risolvere un problema di "capricci da sociopatico" o di altra forma di odio gratuito e immotivato. Ma non per questo smetto di sperare che il soggetto riceva quel che di durissimo merita (il perdonare i propri nemici non attenua la necessità di perseguire la giustizia del far aver loro ciò che si meritano).

Per quanto ai non addetti ai lavori possa sembrare incredibile (pur sapendo che la Chiesa è sorprendentemente piena di pessimi soggetti), nel postconcilio è stato statisticamente assai più facile ordinare al sacerdozio (o fargli solennemente emettere voti perpetui) un soggetto mentalmente o sessualmente squilibrato, a stento capace di rispettare quel minimo sindacale del non creare volontariamente e studiosamente pasticci da titolone in prima pagina. Sacerdoti affetti dalla triade oscura (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e magari anche da una radicata omosessualità, intenti a calpestare le anime loro affidate e, specialmente, le vocazioni.

Ogni volta che mi è stato assegnato un incarico - "pastorale" o meno - ho cercato di non affezionarmi a quel che facevo. Fosse anche soltanto una lavata di pavimento. Ma quando cominci a investirci tempo, pazienza, risorse, per far bene quel che esige di essere fatto bene, inevitabilmente cominci a considerare un pochino anche "tuo" il risultato (che è lo stesso meccanismo mentale del pastore che cerca la pecorella smarrita). Lo sai già che prima o poi il pavimento verrà sporcato da qualcosa di più che il semplice transito e sosta di normali soggetti umani, ma che lo scempio avvenga per motivi non accidentali poche ore dopo averlo pulito, ti tocca aver pazienza, già mezz'ora dopo, una seccatura, vederlo deliberatamente vandalizzato dal presbitero due minuti dopo che sei andato via, eh, devi investire una considerevole quantità di energie per non infuriarti. La via verso il sacerdozio è di questi tempi una lunghissima guerra di nervi condotta da estenuatori professionisti contro di te.

Ed è anche peggio, molto peggio, quando si tratta di conquiste più consistenti che mentalmente, quasi soltanto con pensiero laterale, avevi già consacrato a Dio. È deprimente scoprire che il parroco ha stabilito di segarti fuori da qualsiasi incarico non di intrattenimento ludico perché ai ragazzi dell'Azione Cattolica, come preghiera prima dei giochi, avevi fatto dire l'Ave Maria anziché l'abituale Padre Nostro (non sia mai che una minima traccia di devozione mariana inquini l'ACR). Ripensi al vispo ragazzino della parrocchia, col quale avevi parlato quasi esclusivamente con gesti "lontani" (servendo Messa, riparando una presa elettrica, spazzando via la neve). Veder devastare con foga (e per stupidissima invidia) tutto il "lavoro" di "pastorale vocazionale" che avevi fatto, non è stato bello, né ti può rincuorare il fatto che la grazia di Dio troverà il modo di passare (non raccontiamoci favolette: la grazia di Dio non ha bisogno dei vandalismi per essere efficace, e Nostro Signore non ha bisogno di cattiverie come precondizione per farsi riconoscere meglio). È doloroso scoprire che alla coppia di aspiranti sposi, che avevi attirato verso poche precise verità essenziali con la pazienza di uno che trascina una barca a riva usando solo un filo di cotone, è stato insinuato in maniera brillante che il sottoscritto fosse poco meno che un borderline su una nuvoletta, un soggetto che fa discorsi bizzarri da dimenticare (non venitemi a dire che quando seminate delle piante delicate occorre che qualcuno ne calpesti il terriccio a pallonate altrimenti non crescono bene). A volte invece ti toccava accogliere con un sorriso tali preteschi getti di odio vomitati in tua stessa presenza proprio per sterilizzare e cancellare il "lavoro" fatto - puntigliosamente pianificati, calcolati, architettati, messi in opera, con uno zelo di cui solo dei chierici sociopatici sono capaci. E in quel momento la fitta di dolore era non più per il tuo lavoro devastato lì per crudeltà gratuita, ma per tutta la Chiesa santa, che veniva calpestata da uno dei suoi uomini - un mezzo uomo, un pretino grasso come una botte, con enorme dimestichezza nel selezionare parole e gesti per massacrare con maggior efficienza coloro che in quel momento non riteneva simpatici).

La cosa che mi strazia di più l'animo è che tali soggetti si esibiscono in Comunione quotidiana e breviario ostentato, più una collaudatissima recita da santarellini credibili. Come il prepuzio preposito, che si è fatto letteralmente sfondare il buco del culo - al punto da farsi rimbrottare bonariamente dal suo proctologo perché non si può ricostruire l'ano una seconda volta - e che in tutto il tempo che sono stato lì non l'ho mai visto sorridere o almeno ridere, tranne quella volta che mi vide piegato in modo strano a trasportare un aggeggio pesante sulle scale. Avanti, nel girone dei ricchioni c'è posto anche per i preti, specialmente quelli letteralmente capaci di banalizzare il Sacramento pur di intascare i trenta denari (e se ne vantava perfino: "pagano bene"), di architettare tutta una complicata strategia per farmi fuori (solo perché non ero gradito al suo frocetto preferito), di avermi mentito non con monosillabi difensivi ma con elaborati discorsoni (somministratimi a puntate perché troppo lunghi, lunghi anche da preparare), di aver accuratamente cancellato le tracce di tutto ciò che avevo fatto di buono (un nemico giurato di Nostro Signore è capacissimo di riconoscere quel che fai a favore di quest'ultimo, anche se ti fosse capitato distrattamente, proprio perché ossessionato dal dover distruggere tutto ciò che non rende gloria a sé stesso e alla sua finocchieria congenita).

Anche in assenza di altri indizi, tutto ciò mi fa dedurre che il castigo imminente sulla Chiesa - mazzate e persecuzioni - è meritato e inevitabile. A noialtri tocca solo salvare i semi per dopo l'alluvione.

venerdì 13 dicembre 2019

L'assegno del dottore

Avevo cominciato a lavorare a diciott'anni, ancor prima di iscrivermi all'università. Lavorare - cioè avere responsabilità, orari da rispettare, scadenze da onorare, e perfino uno stipendio - è particolarmente educativo. Al punto che quando entrai in seminario riconobbi subito i commilitoni e i pretazzi che non avevano mai lavorato in vita loro: erano quelli che si comportavano come bambini capricciosi, sebbene con apparente garbo e astute capriole dialettiche, e soprattutto ottima memoria (e quindi collaudata vendicatività). Un'altra loro caratteristica fondamentale era quell'attitudine a desiderare di essere serviti e pagati. Si aspettano che il fedele molli la grana e non si interrogano minimamente sui loro meriti che dovrebbero indurlo a mollarla.

Un chierico che non ha mai lavorato parla dei soldi dei fedeli così come il mafioso parla distrattamente delle quote che deve intascare col pizzo. "È ricco e quindi deve sganciare gli sghei", mi diceva con malcelata avidità il parroco a cui ero soggetto all'epoca. "Sì, guadagna molto", annuivo io tentando di non fargli notare il mio disappunto per quell'affermazione comunista nemica della proprietà privata. E lui: "non solo il lavoro: è ricco anche di famiglia, quindi se sgancia tremila, quattromila euro non gli cambia niente!" Ero in imbarazzo perché non trovavo motivo di chiedere anche un singolo centesimo senza averne effettivo bisogno, nemmeno se si tratta di un ricco.

In paese il ricco in questione lo chiamavano "il dottore", ma sembrava piuttosto un titolo onorifico. È molto probabile che il parroco avesse incautamente contratto tutti quei debiti proprio perché contava di fargli sganciare "gli sghei". Sottolineo "incautamente", come un giocatore d'azzardo. Il dottore sganciò ben più di quattromila, firmando un assegno che non solo copriva tutti i debiti di quell'inutile e ridicolo centro giovanile ma pareva poter coprire anche un anno di bollette. "Il Signore ci aiuta sempre", mi disse ipocritamente il parroco mentre lo accompagnavo in banca a depositare. La banca gli aveva ingiunto di rientrare al più presto, entro tot settimane, e dopo tot più uno settimane il parroco era riuscito a convincere con chissà che enfatiche parole il benefattore. Che in cambio aveva chiesto solo di rimanere assolutamente anonimo. Talmente anonimo che ne ero già al corrente anch'io, l'ultimo degli arrivati in parrocchia. "La provvidenza ci aiuta", insisteva il parroco esigendo un mio commento. "È vero", aggiunsi, "nemmeno io avrei immaginato che sarebbe finita così bene" (ci vuole un'enorme fatica per rispondere a modo, dicendo la verità senza urtare suscettibilità, senza firmare cambiali in bianco agli amici del demonio e senza combinare occasioni di peccato mortale).

La piazzetta è deserta, c'è un sole tiepido. Mentre scendiamo dalla macchina qualcosa mi dice che dietro le finestre alcuni parrocchiani ci stanno osservando. Sanno cosa andiamo a fare, il paese è piccolo, le voci corrono veloci. "Aspetterò in macchina", dico al parroco per togliergli l'eventuale imbarazzo di dirmi che sarebbe entrato da solo. Invece insiste a volermi presente. "Qui nessuno fa la multa al parroco", dice pieno di sé, tanto per ricordarmi che non ha mai lavorato in vita sua, trasformando la gentilezza dei vigili in un dovuto ossequio all'inesistente titolo nobiliare di parroco. Entriamo nel grigiore della mini-filiale, in quella specie di sportello-ufficio-archivio che è una selva di carte accatastate in faldoni, volumetti, scatoloni, che lasciano spazio solo a poster pubblicitari con attempate donne bionde in abiti da ufficio sorridenti accanto a riquadri zeppi di numeretti e percentuali e rate.

L'impiegato, apparentemente la sola persona presente nella banca, ci accoglie calorosamente. Gli è bastato guardare la faccia del parroco per capire che è entrato per rientrare. All'impiegato non importerebbe un fico secco del rientro, ma è addestrato a ubbidire agli ordini ricevuti dal computer centrale, e ad elargire sorrisi di circostanza su misura delle operazioni del cliente. Dopo un po' di rituali chiacchiere sul maltempo e sul festival parrocchiale finalmente ci chiede il motivo della visita, come se non lo conoscesse. Il parroco gli porge l'assegno per rientrare e contestualmente gli dice di voler ritirare anche un po' di contante. Con una faccia inespressiva da giocatore di poker l'impiegato snocciola un po' di latinorum bancario per dirgli che può anche ritirare contanti ma tornerebbe in rosso, perché tra interessi supplementari sul debito, varie piccole operazioni già effettuate e altre minuscole faccenduole l'assegno è appena sufficiente a tappare l'enorme buco. In quel momento mi rendo conto che il medico avrà informalmente chiesto all'impiegato il valore esatto del debito da coprire e avrà arrotondato ai cento euro successivi: è un paesetto piccolo, e tra uomini seri le norme bancarie sulla privacy possono anche essere messe da parte un momento. Del resto al posto del medico io avrei fatto lo stesso: dare una mano alla provvidenza sì, ma senza invogliare gli scialacquatori. Uno che non ha mai lavorato in vita sua non riuscirebbe ad architettare qualcosa del genere.

L'impiegato osserva l'assegno, smette di sorridere e chiede al parroco con voce molto bancaria: "si rende conto di chi è la firma su questo assegno?" Abituato dagli anni di seminario a trasmettere il minor numero possibile di emozioni resto fermo come una statua. Magari lo ha chiesto perché c'ero io presente. Il parroco dice di sì e spiega che il generoso benefattore intende coprire i costi intrapresi dalla pastorale giovanile (verbo impersonale e soggetto intraprendente fumoso e impersonale). L'impiegato lo lascia parlare per alcuni istanti, come se volesse davvero accertarsi di qualcosa. Quindi, quando finalmente comincia a diventare un pochino percettibile l'imbarazzo del parroco, sorprendentemente lo interrompe e soggiunge: "è bene che non si sappia in giro chi ha fatto quest'assegno, sapete, è una somma non indifferente". Il parroco, visibilmente sollevato, annuisce. Pochi minuti dopo siamo già in macchina e finalmente il parroco mi raccomanda caldamente di non far sapere in giro dell'assegno. Ma non gli è difficile capire che non parlerò, visto che già in altre occasioni ho saputo tacere su qualche sua magagna.

martedì 17 settembre 2019

Nella vigna vaticansecondista non c'è posto per chi accidentalmente la pensa come il curato d'Ars

«Io non vorrei essere parroco, ma sono contento di essere prete per poter celebrare la Messa». Così disse il santo curato d'Ars.

Il sottoscritto, senza conoscere quelle parole, durante una ricreazione in sala comune, chiacchierando disse a un commilitone: «ma io non ho alcuna fretta di diventare parroco, a me basta poter celebrare Messa e confessare».

Alle mie spalle partì l'immediata escalation fino al vescovo. Che pochi giorni dopo inventò una scusa per dirmi che lui non intendeva ordinare al sacerdozio coloro che non fossero pronti ad essere parroci. Ingenuamente pensai che non ce l'avesse con me e quindi risposi con un blando sorriso di accondiscendenza. E sebbene questo mio atteggiamento fosse stato il meno pericoloso (date le circostanze specifiche) di fronte a tale affermazione, lui in altre occasioni si infilerà di nuovo tale sassolino nella scarpa in modo da toglierselo di nuovo. E mi ripeterà la stessa cosa nel giorno in cui mi dimise. Voleva la "vocazione a parroco", non la vocazione al sacerdozio. Non gli servivano operai per la vigna del Signore: gli servivano operatori della pastorale da abilitare anche a dir Messa.

Sputo con disprezzo su quel vescovo e su quelli come lui. La loro "chiesa" è fatta di strutture organizzative serie, come la "diocesi", che non coincidono mica con la vigna del Signore che per loro è un concetto astratto, un fervorino da predica feriale. Meritano pienamente di essere calpestati dal mondo come il sale che ha perso sapore.

giovedì 5 settembre 2019

Gergo clericale postconciliare, e compatibilità con le mode

Episodio 1. Un giorno c'erano le ordinazioni sacerdotali in cattedrale. Anziché gli occhiali avevo le lenti a contatto. Fuori dalla cattedrale il vescovo, in presenza degli altri seminaristi, non gradì, e mi chiese come mai fossi senza occhiali.

Gli risposi che indossavo le lentine, e lui ripeté la domanda, come se non avesse capito. Gli risposi che erano più comode, che era per non avere la montatura nel campo visivo, che... Mi ripeté pacatamente per la terza volta la domanda, e lì capii che era una sgridata. Ammisi subito che erano anche per una questione estetica. E lui cominciò la solita patetica srotolata: sì, però... è importante, ma non è importante... tuttavia... del resto... comunque...

Come al solito, mentre il Titanic affonda, il capitano urla che le tendine degli oblò sono piene di polvere. Inutile dire che da quel giorno smisi di usare le lentine.

Episodio 2. Un giorno c'erano le ordinazioni sacerdotali in cattedrale. Memore dell'episodio precedente, ero con gli occhiali. Ma avendo già ricevuto l'ammissione agli ordini, mi presentai con la camicia-clergyman, cosa che mi permetteva di non avere sulle spalle altri tessuti, cioè di sopportar meglio la calura estiva. E comunque, se uno «ammesso tra i candidati all'ordine sacro» non la indossa nelle grandi occasioni, quando la indossa?

Fuori dalla cattedrale il vescovo mi raggiunse per chiedermi cosa fosse quella. Lo presi in contropiede: eccellenza, se lei non gradisce, io non la metto più. E lui: sì, però, cioè, insomma, tuttavia, non è importante, ma comunque, però, del resto, cioè, comunque... Poi finalmente trovò un argomento: ...non per mettersi in mostra... E andò via. Il resto del cazziatone me lo fecero i commilitoni, peraltro invidiosi della mia clergy - anche quegli stessi che a loro volta la indossavano, visto che le loro erano grigio-topo col colletto da protestante o da anglicano, e in gran parte dei casi mostravano le loro abominevoli pance.

Episodio 3. Per la solita pioggia di accuse anonime il sottoscritto si guadagnò un cazziatone supplementare dal vescovo. Sapendo di non meritarlo restai in silenzio per tutto il tempo finché non mi congedò. Tre giorni dopo mi chiamò con una scusa e mi fece correre in episcopio da lui, e cominciò a diluviarmi di parole. Per venti surreali minuti sembrò assillato da due cose: cercare di capire se mi fosse rimasto qualche suo sassolino nella mia scarpa di cui un giorno (presumibilmente prossimo) mi sarei vendicato, e cercare di non farmi capire che voleva capirlo. Solo a metà conversazione compresi quei suoi due assilli, ma il cazziatone supplementare lo avevo già digerito e dimenticato per cui fui del tutto distaccato, come la volta precedente, addirittura sorridente e tranquillo, e quando lui se ne fu convinto finalmente mi congedò.

Insomma, puntualissimi a pagare la tassa sulla menta, sull'aneto e sul cumino, ma profondamente ingiusti quando si tratta di devastarti la vita ed efficientissimi nel pararsi il culo.

Episodio 4. Messo al corrente che durante una tornata di esercizi spirituali il sottoscritto aveva fatto la comunione senza usare le mani, il vescovo, durante una tregiorni, preferì essere lui a distribuire la comunione in modo tale che quando arrivai io a mani giunte, anziché dirmi «il corpo di Cristo» mi disse: «no! voglio dartela sulle mani!»

In altre parole si è ostinato coscientemente a considerare l'Eucarestia un aggeggio inteso a verificare la compatibilità con una moda postconciliare. Se in quel momento non avessi avuto la prontezza di mettere le mani a "trono" e accontentare quel patetico asino d'un vescovo - a spese di Nostro Signore, rendendomi purtroppo complice di quel ridicolo show inteso forse a tranquillizzare il deprecabile rettore del seminario che assisteva alla scena -, avrei passato molti altri guai.

Scaricai in confessione tale complicità avvenuta a spese del Corpo di Cristo, ma dopo tutti questi anni mi brucia ancora il ricordo.

E comunque non mi giovò, visto che continuarono a tenermi in seminario in attesa di trovare una scusa decente per cacciarmi, o di indurmi a ritirarmi da solo (specialmente quest'ultima cosa era il loro sogno più accarezzato, poiché quei soggetti bramano di commettere le loro nefandezze potendo dirsi allo specchio "ho le mani pulite, non ho fatto niente", come se ciò li giustificasse davanti a Dio).

lunedì 26 agosto 2019

Non vado ai matrimoni...

Ero ragazzino. Alla Messa del matrimonio di mia cugina ero già infastidito dall'invadenza di vestiti costosi, fiori costosi, scarpe costose ai piedi di gente che avevo sempre visto in pantofole, quel palcoscenico per lo spettacolo, quelle imbecillissime paroline di circostanza di cui venni diluviato anche fuori dalla chiesa (inclusa l'immancabile "e tu quando ti deciderai a cercarti una fidanzatina?"), praticamente tutti durante la liturgia a pensare ad altro, ero già infastidito dal fatto che quando il pretino cretino terminò la lettura del Vangelo furono in pochi a sedersi perché gli altri erano già seduti fin dall'inizio della Messa, arrivò la mazzata micidiale: l'omelia.

Il prete, sui cinquant'anni, con fare inusualmente gioviale e per lo più rivolgendosi agli sposi chiamandoli per nome, disse poche stupidissime frasette di circostanza estratte dagli incarti dei Baci Perugina e trovò il modo di infilare a forza nel discorsino sulla vita degli sposi l'espressione «fare l'amore».

Avendo avuto all'epoca poche "gioie" televisive e internettiane, quell'espressione mi suonava particolarmente odiosa e pornografica, tanto più detta con quella voce affettata da vecchio trombone accidentalmente dotato di sacramento dell'ordine e che tenta di sembrare il simpaticone che al bar ti dà una pacca sulla spalla.

Con quel genere di preti, che aspettarsi? Le altre cugine e zie (di quelle da rosarioni giganti negli autobus dell'immancabile pellegrinaggio stagionale) infiocchettarono - come da tradizione locale - l'auto degli sposi con carta igienica e scritte pornograficamente allusive al sesso (imbrattando di rossetto il parabrezza), così, tanto per completare l'inutile fastidiosissima chiassata del pranzo di nozze e per confermare i frutti della Comunione appena (mal)fatta.

Qualche annetto dopo, forte del ribellismo adolescenziale, ebbi finalmente il fegato di urlare "no!" quando i miei volevano impormi la partecipazione ad un'altra di quelle pagliacciate.

sabato 17 agosto 2019

Mi ricordo di quel Lord

Benché tenessi un profilo basso e tentassi di sembrare invisibile, quei corridoi non erano abituati a veder svolazzare vesti talari. Mi fermò con ben recitato entusiasmo uno dei laici dell'autoincensante gruppo di autoimpegnati che per distinguersi dagli altri preferiva mettere in scena pizzi e merletti. Mi domandò qualcosa per avviare la conversazione (mi par di sentirlo adesso con quella sua voce da lord inglese in sala da thè): "in preparazione per la celebrazione?". Risposi di sì tentando gentilmente di svicolare, ma il soggetto non era intenzionato a mollare la presa: doveva esibire (probabilmente a sé stesso allo specchio) il trofeo di aver conosciuto qualche nuovo prete. Chiese: "Padre...?" Gli risposi con un delicato sorriso d'ordinanza e nella maniera più innocua possibile che ero solo uno dei seminaristi e che dovevo raggiungere gli altri per "preparare il servizio liturgico", sperando che tale magro bottino placasse per qualche istante il suo entusiasmo, il tempo necessario a sgattaiolare via.

Mise in scena l'espressione del lord sorpreso e sdegnato, col sottinteso che dalla talare si aspettava un prete, ma avevo già un piede fuori dal ring e con la coda dell'occhio percepii a stento la sua frenetica riorganizzazione mentale. Si aspettavano una frotta di preti tradizionalisti da esibire nelle foto sul loro sito web e da contattare per qualche Messa all'interno della sede, si ritrovarono con un pretino in casacca e quattro seminaristi in talare.

martedì 13 agosto 2019

Dolcetti massonici

Il vero dolore è una di quelle esperienze indimenticabili e non per metafora. Leggo di uno che, dopo tanti anni, nel passare in quella strada in cui una volta scivolando si ruppe il ginocchio, gli torna ancora la paura, gli aumenta il battito cardiaco. Avviene così anche a me, quando passo per la strada da cui si vede la struttura del seminario. Ho ancora l'impressione che da quell'edificio debordino da porte e finestre come nuvole di fumo nere, dense, malefiche. Per il male che mi hanno fatto, e ancor più perché me lo hanno fatto in odio alla fede e in odio alle vocazioni, in odio a tutti quelli che come me non desideravano altro che di accedere al sacerdozio e consumare la propria vita celebrando sacramenti e insegnando la fede e senza alcuna pretesa di erigere monumenti a sé stessi.

Odiavano questo, pur essendo i soggetti ufficialmente preposti al vagliare vocazioni, perché odiavano la fede che lo sosteneva. Per loro la Chiesa è una ONG con annessa attività commerciale: servizi religiosi in cambio di soldi. Vogliono preti anonimi e intercambiabili e dediti esclusivamente all'attività "pastorale", ma hanno una concezione non cattolica della "pastorale" (e cioè del sacerdozio e dei sacramenti e di tutto il resto). Il seminario era retto dai nemici della fede, e si vedeva. Fra o simboli più riconoscibili c'erano quei patetici dolcetti che ci spediva il club massonico nelle festività in cui ci toccava pranzare in seminario: grossi ma non saporiti, appariscenti ma stantii. Certi seminaristi litigavano per avere il diritto di scegliere per primi. Il sottoscritto, chiamato a servizio tavoli a causa di una furba assenza di chi era di turno, finse di confondersi e iniziò il giro del refettorio dal lato opposto, scatenando il vociare incivile di quelli dell'ultimo anno e le nascoste risatine dei superiori. Suppongo che qualche Gran Maestro sarebbe stato soddisfatto della scena, teologicamente rilevante: ma guarda come bramano di ricevere le nostre squallide briciole...

Uno dei miei commilitoni junior, credendosi moderno, criticò uno fresco di sacerdozio perché quest'ultimo "stava sempre seduto lì a perdere tempo". Seduto in confessionale ad ascoltare confessioni. Anche di domenica, giorno in cui i preti vorrebbero riposarsi anziché "lavorare" nella vigna del Signore. A Junior fu imposto non di studiarsi per bene il Catechismo, non di imparare le norme liturgiche, non di compiere liberi gesti di carità secondo le indicazioni del direttore spirituale... no: per poterlo ordinare, gli imposero di dimagrire. Quando ebbe perso il previsto numero di chilogrammi e dimostrato di non recuperarli alla prima occasione, tornò automaticamente in corsa per il diaconato, e infine fu ordinato al sacerdozio. I fratelli della loggia saranno stati contenti.

giovedì 18 luglio 2019

Il profumo dei trenta denari

Il giovane Flash domanda a Ironman quale è il suo superpotere. Ironman, avviando il motore della sua Mercedes super lusso, risponde: sono ricco. Sì, anch'io sono sicuro che un po' di sporca ricchezza mi avrebbe largamente facilitato il percorso verso il sacerdozio.

Ne doveva esser sicuro anche il gaio aspirante che si presentò in comunità con un sottinteso. Ogni volta che ci veniva a far visita la sua testa pelata sembrava sempre più lucida e le mani sempre meno vuote. Una volta la torta, una volta i dolci, una volta un arrosto, una volta un intera spesa per un pranzo luculliano... Il prepuzio preposito pareva sempre quasi pronto a derogare alla sua inderogabile norma del "qui tre vocazioni sono già troppe" (spoiler: non derogherà).

Nel mio interminabile gioco dell'oca vocazionale, a dispetto del fatto che mi capitava sempre la penalità del "Riparti dal Via!", ho in diverse occasioni messo mano alla carta bancomat. Gesti che consideravo un investimento - come quando ad esempio pagare un conto altrui significò non far perdere al prete alcuni preziosi minuti che servivano al colloquio con me. O come una gratitudine - non scrocco un pranzo andando a mani vuote. O come carità - una volta sospettavo che uno dei presenti era in difficoltà economiche e perciò pagai per tutti (guadagnandomi un gratuito sarcasmo da un altro dei presenti che, come me, pure aveva il bancomat).

Non ero ricco. Non lo sono mai stato. Ho solo investito quel poco che avevo e nei momenti in cui lo ritenevo utile. Anche rischiando. Qualche anno prima, in una diversa comunità in cui ero postulante sentii il superiore lamentarsi di un diluvio di imminenti e inevitabili spese. Sembrava sincero e preoccupato. Gli dissi che potevo mettergli a disposizione tutto quel che avevo sul mio conto bancario. Ero sincero (e avventato). Per mia immensa fortuna, il superiore colto alla sprovvista ringraziò e disse che non era necessario e tornò in sagrestia (solo qualche attimo dopo realizzai di essere stato troppo avventato... mentre lui realizzava di essere stato a sua volta troppo avventato nel non lasciarsi aperto nemmeno uno spiraglio).

Tranne rarissimi esemplari, i preti non hanno mai lavorato in vita loro. Mai guadagnato uno stipendio, nel senso di guadagnarselo a suon di serietà, responsabilità, puntualità. Questo genere di preti considera le offerte dei fedeli un atto dovuto anziché un dono inatteso. Considerano la ricchezza altrui come un'ingiustizia fino a che gran parte di quella ricchezza non trasloca nelle loro tasche (sì, proprio come i comunisti). Svalutano o dimenticano rapidamente cosa hanno ricevuto, ricordano (e rivalutano) molto largamente ciò che hanno dato. Come facilmente immaginabile, anche in ambiente tradizionalista vale il sottinteso: senza soldi non si cantano messe (tanto meno si accettano vocazioni, si considerano anime in difficoltà spirituale, si prendono sul serio richieste che dovrebbero essere prese a prescindere a causa dei doveri sacerdotali, eccetera), talvolta persino con la scusa ufficiale che non sguazzano nell'oro.

Nel proporgli di mettere subito a disposizione tutto ciò che avevo, il mio orizzonte era la comunità. Mi ero avvicinato alla comunità da pochi mesi ma ero già piuttosto certo di volervi rimanere a vita, per cui anche nell'ipotesi che quei soldi non mi sarebbero mai stati più restituiti restava inteso che da sacerdote di quella comunità la prima beneficiaria delle mie donazioni sarebbe stata la comunità stessa. Povero ingenuo! A creare il buco nero nei conti non erano state le spese e le bollette, ma i malriusciti intrallazzi del superiore e le regalie ai seminaristi frocetti (povero me illuso, che mi illudevo che questi ultimi si potevano in qualche modo tenere a distanza di sicurezza, incensarli quel tanto che basta da renderli inoffensivi, e magari assistere alla loro dipartita dalla comunità alla prima gelosia trasversale).

Piaccia o non piaccia, i costi essenziali della formazione di un seminarista devono essere a carico della comunità che li accetta, per evitare che il seminarista non ricco (cioè quasi qualunque seminarista) possa anche soltanto essere sfiorato per un attimo dalla mentalità del "ho pagato ma non ho ricevuto". Mentalità pericolosa perché i soggetti meglio armati (in senso economico e sociopatico e possibilmente omosessuale) ultimamente riescono nel loro intento (e no, non era un'ipotesi).

Torniamo al prepuzio preposito sopra citato. Che dopo aver tentato di costruire assurde scuse per togliermi dalle balle decise all'improvviso che i membri della comunità dovevano versare una retta mensile per contribuire alle imprecisate "spese". E che il sottoscritto dovesse pagare retroattivamente fino a cinque mesi prima, data di ingresso in comunità. Quel maledetto frocio aveva insomma bisogno urgente di un paio di migliaia di euro, probabilmente per pagarsi la ricostruzione dell'ano sfondatogli in qualche dark room da froci come lui. Un vero e proprio ricatto ai miei danni, che non tentò neppure di addolcire, e che anche a pagarlo sull'unghia non avrebbe cambiato di una virgola il suo disprezzo per me. Aveva solo deciso di monetizzare, dopo aver notato che dopo tante ingiustizie nei miei confronti ancora non avevo mai aperto bocca.

Un ultimo aneddoto. Un commilitone si era vantato che un lontano parente aveva destinato in eredità un grosso immobile al primo fra nipoti e pronipoti che fosse stato ordinato al sacerdozio. E lui era l'unico seminarista di tutta la famiglia allargata. Gli dissi che su quella faccenda sarebbe stata necessaria la massima discrezione, e gli garantii che non ne avrei fatto parola. Ma lui mi guardò con quell'espressione con cui si commiserano gli inguaribili ingenui. Fece un'allusione per dirmi di procurarmi una "dote" da adoperare insieme agli altri mezzucci per convincere i superiori a ordinarmi. Ovviamente un poveraccio come me non poteva procurarsi qualche immobile come dote. Finì esattamente come previsto: il sottoscritto fu scacciato via, lui fu ordinato.

giovedì 6 giugno 2019

Quell'ultimo colloquio

Il rettore del seminario diocesano convocava ogni seminarista due o tre volte l'anno per un colloquio (cioè per almeno il 90% del tempo parlava lui). Coi suoi lecchini lacché era sempre un gioioso e rapido scambio di allegre battute. Con gli altri - incluso il sottoscritto - erano non meno di 90-120 minuti di seriosa e puntigliosa elencazione di incorreggibili difetti, naturalmente intercalati da sorrisetti e da inutili distinguo costruiti in modo che tu non ti ci possa appigliare.

Ti preparavi a quel colloquio, oltre che con la preghiera, anche con qualche video di Stanlio e Ollio, risorsa disperata necessaria ad esibire prontamente un sorriso diplomatico nei momenti più complicati. Rintracciavi mentalmente tutti gli episodi secondari della vita di seminario che lì in sede di colloquio avresti potuto vantare come un "curare la diocesanità" (a cui tanto tenevano ufficialmente), o come dei "momenti fraterni", e altre emerite cazzate obbligatorie. Costruivi letteralmente uno scenario mentale ideale a minimizzare i danni in quella specie di convocazione staliniana, scenario in cui stemperare pazientemente ogni obiezione e ammorbidire ogni spigolo. Ma non serviva a nulla perché quando risulti antipatico ai superiori, la tua carriera è irrimediabilmente compromessa. Ed è fin troppo facile che una vocazione vera risulti antipatica ad una vocazione falsa incaricata di vagliare le nuove leve.

Non era servito fottutamente a niente essere uscito di sabato sera con altri tre seminaristi "dopo la pastorale" (era stato sottilmente comandato dai superiori) per andare ad una merda di pizzeria-karaoke (i superiori esigevano che socializzassimo, e un paio di seminaristi spioni erano lì a misurare il nostro impegno) proprio all'ora in cui avresti voluto cenare in silenzio per poi spalmarti sul letto addormentandoti col rosario tra le dita (ché alle sei suona la sveglia). Non serviva a niente raccontargli dei momenti di "àgape fraterna" (pur avendo organizzato con pignoleria il modo apparentemente spontaneo di andare a prendere un caffè insieme a qualcuno di quei froci seminaristi chiacchieroni, sapendo benissimo che lo avrebbe subito raccontato al rettore, ai commilitoni e al parroco). Eri sempre quello in debito formativo, eri sempre quello che dialoga poco, sempre quello che in parrocchia "non si vede in giro", sempre quello che al momento di darsi da fare non è subito reperibile...

E mentre esibivi un generoso sorriso (non troppo marcato, per evitare sospetti) pensavi a venti strategie diverse, come un professionista degli scacchi in una partita-lampo, e l'allenamento mentale ti consentiva guizzi spettacolari di cui poi ti saresti congratulato con te stesso. Ma sterilizzare il venti per cento di quelle accuse non ti ha cambiato il destino. Il tuo destino era già scritto. Quel maledetto stronzo, in quell'ultimo colloquio, aveva in serbo l'ultima e più micidiale pallottola: trasformare seduta stante tutte le proprie precedenti ambiguità in dubbi sulla tua situazione, e dunque immediatamente i dubbi in condanna.

"Ho detto al vescovo che se fosse per me non ti farei andare avanti, ma l'ultima parola spetta a lui", mi dice il don Pilato. Sua Eccellenza il Vescovo mi dirà: "ma il rettore mi ha dato responso negativo e io non posso andare contro di lui". Quel frocio del parroco mi aveva detto: "ma io non ho detto nulla su di te, e comunque il mio parere non conta niente in quella sede". In quella sede il rettore disse: "il parere del parroco però è negativo, e io devo tenerne conto". Il Vescovo soggiungerà: "c'è poi anche il parere del tutto negativo del parroco, e questo è molto importante"... A completare il quadro, la kafkiana accusa del non aver migliorato nel dialogo, che è un po' come quando in Unione Sovietica ti davano del trotzkista senza sapere nemmeno cosa significasse esattamente (ad eccezione del garantirti la massima pena possibile e un marchio d'infamia fino alla morte).

Ora, io sarei il primo ad usare quei vergognosi metodi, se fossero l'unico modo efficace per sbarazzarsi di un pedofilo o di un massone che avessero brigato per non farsi scoprire apparendo con le carte in regola. Il problema è che quegli sporchi metodi sono stati usati contro di me senza alcun motivo riguardante la fede, la vita morale, la chiamata al sacerdozio. Non vogliono uno con la vocazione al sacerdozio. Vogliono invece un clown, un finocchio, un travet, un frocetto, un impiegatuccio del sacro che non puzzi di Tradizione e che sia dottrinalmente e liturgicamente elastico. Infatti hanno cacciato via me e quelli come me, e hanno ordinato al sacerdozio un esercito di ricchioni e di pagliacci, alcuni dei quali spretati nel giro di pochi anni, senza contare quelli finiti sui giornali per questioni di rilevanza penale.

Quando il rettore mi congedò non avevo più il sorriso d'ordinanza, ma un'espressione di inossidabile perplessità. Uscendo da quella Stanza 101, guardai per un'ultima volta quella porta e gli augurai di ricevere adeguata ricompensa.

domenica 5 maggio 2019

Domenica sera

Dopo l'attività obbligatoria in parrocchia, la domenica sera si rientrava in seminario, con l'obbligo di presenziare ai vespri alle 19. Tutti facevano in modo da rientrare per le 18:30-18:45. Così, poteva capitare che un po' di traffico o qualche altro piccolo intoppo ti facessero arrivare in ritardo e saltare i vespri (entrare in cappella a preghiera già iniziata era uno dei peggiori marchi d'infamia... qualora non si appartenesse al gaio cerchio magico. Meglio assentarsi e fare in modo da comparire subito dopo il segnale del si può uscire dalla cappella).

La domenica sera il perfido animatore era quasi sempre assente, per imprecisati (cioè fantasiosi) impegni di parrocchia e di diocesi, ma appena rientrato si informava subito presso i suoi lecchini lacché. I ritardatari sarebbero stati poi bersaglio del solito mobbing di quei sorrisetti, quelle mezze occhiatacce calibrate, quelle mezze allusioni nell'omelia al mattino... La prima volta sei dispiaciuto e vorresti anche scusarti (ma ti accorgi subito che chi si scusa si accusa e il sorrisetto di risposta non coincide col perdono ma col timbro di conferma di un nuovo capo d'imputazione), la seconda volta sei seccato, la terza volta avverti che il peso è già eccessivo: ma perché ce l'ha con me? Un peso perché vorresti liberartene, vorresti dire che con o senza pioggia c'era davvero traffico sulla statale, vorresti gridare che eravate d'accordo a partire mezz'ora prima ma uno dei commilitoni si è presentato all'appuntamento con più di venti minuti di ritardo, vorresti gridare che non siete gli unici ad aver tardato, vorresti fargli notare che lui stesso è il più ritardatario di tutti, vorresti fargli notare che in un anno di rientri della domenica sera lui è stato puntuale solo tre volte, e tu ritardatario solo quattro...

E invece no. Ti mette il marchio di ritardatario. Non potevate partire prima? Inutile tentare di dirgli che eravamo partiti almeno dieci minuti prima e che l'intenzione era di partire mezz'ora prima. Non potevate anticipare la partenza? Inutile fargli notare che è la stessa domanda di prima e che comunque se quattro o cinque seminaristi anticipano, può sempre capitare una piccola emergenza o un ritardo ad uno di loro che coinvolge gli altri della stessa macchina. Guai a far notare che anche altri seminaristi si presentavano in ritardo la domenica sera, talvolta persino dopo le 23, con improbabile messaggino o telefonatina che il gaio animatore, per gaio sentir comune, automaticamente perdonava, al contrario di te e gli altri che non erano del suo gaio club. Con quel suo sguardino tagliente, quelle allusioni durante l'omelia il giorno dopo, quel proclamare pilatescamente di dover prendere provvedimenti o di segnalarlo nella relazione di fine anno, oppure, peggio, fartelo sapere attraverso qualche commilitone preoccupato per te, riusciva a fartelo pesare.

Tutto questo non riguarda l'attitudine al sacerdozio, tanto meno la puntualità. Che tu abbia attitudine o no, ai formatori non importa un fico secco. Sei solo una riga in un foglio Excel, con una fila di fumose caselline da smarcare: pastoralità, puntualità alle prove di canto, dialogo, diocesanità, disponibilità... Dichiareranno che sei pronto per il sacerdozio quando avranno le caselline piene. E se risulti loro antipatico per un qualsiasi motivo - fosse anche la tua maglietta (non sto esagerando, non è una metafora), le caselline non si riempiranno mai.

martedì 30 aprile 2019

Quel Natale e questo Natale

È passato un altro Natale in cui sono andato in chiesa in maglione e cappotto anziché in talare e tabarro.

Anni fa, nella scalcinata parrocchietta in cui ero stato assegnato, mi presentai la sera del 24 dicembre col clergyman. Apriti cielo. Ovviamente avevo già pronta la scusa: dopo il rito di ammissione tra i candidati all'ordine sacro, almeno a Natale e Pasqua "bisogna dare un segno alla gente" (per usare la volgarissima lingua clericalese).

Il parroco, un tarchiato postsessantottino il cui sorrisetto nascondeva a stento la scomposta furia di cui è capace uno che non è riuscito a far carriera, quella scusa certamente se l'aspettava. Infatti mi chiese di andare a comprare delle robette per la canonica - carta igienica e altre amenità che non erano affatto tanto urgenti. Gli feci presente che dovevo "preparare la celebrazione" (per usare la volgarissima lingua clericalese) e lui anziché insistere tradì le sue intenzioni menzionando il mio clergyman. Eh, sì, gli faccio presente, è la sera della vigilia Natale, posso mica andare vestito così a fare la spesa proprio all'ora in cui sta per iniziare la Messa della notte? E lui spara la domanda retorica che aveva già pronta da tempo: ma allora ti vergogni di vestirti cosi?

Si aspettava un "no" (e quindi avrebbe insistito per umiliarmi mandandomi vestito così a comprare delle ridicolaggini, in odio a quel "segno alla gente" che fa pensare alla dignità del sacerdozio), ma aveva previsto anche un "sì" (e se ne sarebbe fatto forte dicendo in curia e al vescovo che il sottoscritto vive il suo percorso di discernimento come una forzatura, sempre in volgarissima lingua clericalese: il clergyman diventa improvvisamente sinonimo di "percorso di discernimento", cioè seminario, formatori, vescovo, parroci, tutto, solo perché si può usare nella guerra contro le vocazioni).

Gli risposi che il mio posto è in parrocchia e per questo sono vestito così, ma se proprio ci tiene, vado a fare la spesa. Ci teneva, ci teneva: ignorò perfino i ragazzetti che non vedevano l'ora di dare una mano. E così ci andai, dando fondo a tutte le mie energie mentali per immaginarmi invisibile (ero certo che qualcun altro in giro sarebbe stato spedito a controllare se nasconde il clergyman: ai lettori di questo blog potrebbe sembrare un'esagerazione da film di spionaggio, ma io davvero ho assistito in diretta a scene assurde, come nel caso di un seminarista colto in flagrante a comprarsi una camicia nel negozio di marca rinomata a decine di chilometri di distanza: non si è mai saputo chi è che lo aveva seguìto, identificato, e notato uscire dal negozio con gli acquisti appena fatti, e gli restò l'etichetta di vanesio e sfarzoso che perdura ancor oggi).

Per mia fortuna il negozio aveva appena chiuso. Volevo correre in parrocchia a fare il mio dovere - cioè a "preparare"  le cazzate natalizie obbligatorie (cartelloni, fiori, ammennicoli idioti, sedie...) ma strada facendo mi resi conto che il parroco l'aveva già avuta vinta su tutta la linea.

Sapeva che ci tenevo al clergyman e aveva trovato il modo migliore per umiliarmi.
Sapeva che detestavo il servizio in parrocchia e aveva trovato il modo migliore per farmi correre a farlo.
Sapeva che il mio apporto in parrocchia era inutile e aveva trovato non solo il modo di farmelo notare, ma anche il modo di poter farlo pesare contro di me ("eh, gli ho chiesto di comprare delle cose, ma ci ha messo troppo tempo, anzi, hanno lavorato senza di lui, anzi, è tornato subito ma poi non lavorava più come prima, anzi...").

Alle 22:30 passate il trambusto in chiesa è diventato insopportabile - chi corre di qua, chi sposta di là, chi prova le luci, chi le sedie, chi i microfoni, con quella indomabile frenesia di chi sta preparando il Grande Spettacolo Mondiale. Un'atmosfera opprimente, che però qua e là concede suo malgrado l'alibi: lascia fare a noi per le luci... Così, per dare aria ai polmoni e all'anima, resto fuori sul sagrato, con l'alibi del fare"servizio di accoglienza" (un'altra, ennesima, mostruosa cazzata dogmatica del vaticansecondismo imbecille) finché qualcuno dell'esercito degli ansiosi non mi chiamasse ad altro incarico "urgentissimo".

Càpitano una donna e una ragazzina, pochi minuti prima della Messa. La donna mi vede in clergyman e mi chiede se sia io il parroco. No, signora, mi manca ancora qualche annetto per diventar prete. Mi chiede allora, visto che è tardi, se sia ancora possibile confessarsi oppure fare la Comunione rinviando la confessione a dopo. Signora mia, se ci sono peccati mortali, la Comunione non si può fare, però potete comodamente tornare domani sera che c'è un'altra Messa e non c'è quasi nessuno (perché è la sera del 25) e avrete la possibilità di confessarvi prima della Messa.

La donna balbetta qualcosa e la figlia le chiede ingenuamente: mamma, ma i tuoi sono mortali? Interrompo la figlia mentre sta ancora parlando: beh, ognuno sa le proprie cose... e alla madre: sapete, a Natale è consigliato ma mica obbligatorio andare alla Messa di mezzanotte, visto che domani qui ci sono altre tre Messe di Natale uguali a questa, alle otto di mattina, alle dodici, e alle cinque del  pomeriggio che non ci viene quasi nessuno perché stanno ancora tutti a fare il pranzo di Natale... Oops, scusate, mi stanno chiamando in chiesa per un servizio urgentissimo.

Quel rospo che ho dovuto mandar giù per la carta igienica aveva almeno fruttato la possibilità che una donna e una ragazzina abbiano evitato una Comunione in stato di peccato mortale e forse anche l'aver capito che esistono peccati mortali. E questo a causa di una camicia clergy indossata da seminarista. Quel benedetto clergy (neanche talare, proprio un clergy con "colletto romano") è stata la scintilla per insegnare qualcosa che questa insipida genìa di preti postconciliari non ha saputo trasmettere in miliardi di omelie, fervorini, lezioncine, articolini.

Poco più tardi, durante la consacrazione, ero l'unico in ginocchio.

sabato 27 aprile 2019

Ostacoli al sacerdozio: la c.d. “formazione”

Quel caro buon Vecchio Amico, durante il primo anno, mi disse: sai, il bello del seminario Tal dei Tali è che nessuno ti rompe il cazzo. Mantieni un basso profilo, non ti assenti alle liturgie, stai tutto il resto del tempo in camera a studiare o dormire, e nessuno ti rompe il cazzo.

Fu la miglior pubblicità possibile per un seminario. Infatti dalle mie parti i formatori studiosamente s'ingegnavano giorno e notte per mettere nei guai ogni vocazione che non coincideva con le loro strane idee e innaturali attenzioni. Per esempio, sul giovanotto carino fioccavano i trenta e anche la lode, beccava sempre i turni di servizio più comodi, veniva sempre perdonato tutto: i formatori e i docenti erano o froci dentro, o froci fuori, o poco propensi a inimicarsi qualche bell'efebo o qualche altro frocio, e pertanto per il giovanotto carino era tutta una comoda via in discesa. Tanto più che di mente e di carattere era il tipico pagliaccetto da parrocchia, solo più carino degli altri. (No, il fatto che io e costui fossimo in buoni rapporti non mi giovò. Nella testa frocescamente bacata dei froci formatori ciò poteva esser interpretato solo come attrazione omo, cioè come un parvenu che tenta maldestramente di ammaliare la loro prenotatissima miss).

La pressoché totalità di coloro che si rifiutano di credermi o ha vinto la lotteria entrando in un seminario nella rarissima combinazione di circostanze in cui nessuno ti rompe il cazzo, o aveva qualche facilitazione di cui non si rendeva conto (come l'essere carino agli occhi dei formatori, omosessuali più o meno latenti). Un pagliaccio in buona fede, una volta prete, si disse sorpreso del mio caso, poiché lui aveva avuto "problemi in seminario" solo negli ultimi anni, sfangandola perché il vescovo era troppo a corto di vocazioni (ed anche perché i formatori lo vedevano allergico a talari, latino e pre-Concilio). Un altro prete, che per vari motivi a settant'anni ancora non aveva mai avuto un incarico da parroco, si diceva meravigliato che la presunta mia inabilità a diventare parroco fosse un ostacolo: "altrimenti non avrebbero dovuto ordinare neppure me, che ho sempre fatto l'insegnante".

Una volta, ospite di una casa di formazione, mi fecero pranzare a parte. Ero capitato nel giorno in cui i seminaristi avevano un pranzo settimanale coi formatori e ciò che si sarebbero detti a tavola doveva rimanere "tra loro". Non ci volle grande sforzo a capire il sottinteso: confusione tra foro interno e foro esterno. Uno le cose le dovrebbe confessare solo al confessore, e farsele dirigere solo dal direttore spirituale, in entrambi i casi nel segreto, specialmente segreto riguardo ai formatori. Altro che amici amiconi che "condividono tutto". Di sera, fuori dalla casa (e cioè in campo neutro), ebbi modo di parlare con uno di tali seminaristi. Dopo avergli offerto un buon paio di birre (in cervisia veritas) il soggetto ammise che lì da loro funziona tutto benissimo ma “se uno non rivela le proprie cose, i superiori la prendono a male”. Come a dire: ufficialmente non ti rompono il cazzo, però confondono il foro interno con l'esterno... Come meravigliarsi che un seminarista, sotto tale pressione, si rivolga all'alcol ogni volta che può? Successivamente venni a sapere che lo spedirono in capo al mondo per un annetto o due, tempo in cui doveva dimostrarsi entusiasta e zelante (altrimenti...) e allergico all'alcol. Insomma: anche dove non rompono, alla fine dei conti ugualmente rompono.

La formazione al sacerdozio, a causa della sua stessa lunghezza, è già discernimento. Hai bisogno di tempo perché le cose da studiare sono tante (soprattutto quelle che non ti serviranno mai e che ti lasceranno dentro solo un sapore nauseante e stantìo), e non puoi certo giocarti il ritmo “asincrono” da studentello universitario perché hai da rispettare gli orari delle liturgie, delle attività (sempre troppe), dei servizi comuni (sempre al momento sbagliato), hai da barcamenarti nei rapporti sociali perché in uno spazio chiuso e dove tutti hanno i minuti contati una piuma che cade a terra fa fracasso per un mese.

Quella lunghezza è già discernimento: salvo rari casi - comunque difficili da identificare in altri modi - uno può fingersi diverso per qualche giorno, qualche settimana, forse addirittura qualche mese, ma non può riuscirci per interi anni. Le attitudini del singolo vengono inesorabilmente fuori anche se fosse autorizzato a restar sempre chiuso in camera e ad uscirne solo per liturgie e lezioni. Nei corridoi del seminario ho appreso di ogni singolo lato oscuro dei miei commilitoni nell'arco di pochi mesi al massimo, senza nemmeno aver bisogno di pronunciare molte più parole di "buongiorno" e "buonasera". Non serve grande sforzo: anche il più ipocrita ed esperto a recitare la parte prima o poi finisce involontariamente per tradire ciò che voleva nascondere.

Il problema della formazione al sacerdozio è la pretesa che le lettere dimissorie equivalgano ad un certificato di abilitazione professionale: se il candidato non è adattissimo a fare il mestiere del parroco secondo le previsioni di produttività prestabilite dalla cricca curiale, allora o lo si costringe con la forza o più facilmente lo si sbatte fuori. Dopotutto alla Chiesa le vocazioni non servono a niente (“Tre vocazioni qui sono anche troppe”, come disse quel gran frocione del preposito dal culo sfondato, facendosi sentire più da Nostro Signore che da noialtri).

Quel buon Vecchio Amico, comunque, dopo il terzo anno non ne poté più: troppi froci. Per cui non basta neppure tenere un basso profilo e star sempre in camera in silenzio. L'omosessualità - specie quella latente - diventa un problema serio in un ambiente chiuso e tutto maschile, perché introduce tensioni. Prima o poi trovi qualcuno che si ingelosisce, qualcun altro che decide di metterti alla prova, qualcun altro che vorrebbe accasarti (non necessariamente con lui), qualcun altro che crede di aver ricevuto la missione divina di distruggerti lentamente perché non hai dato corda a Tizio e Caio...

Non diversamente va negli ordini religiosi. Come in quello Super Famoso dove la casa di formazione è di fatto un assembramento di coppiette omo. Se non hai scelto il tuo partner, sarà lui a scegliere te. Te ne accorgerai perché diventa un tuo stalker, diventa geloso, si lascia andare a scene di pianto se ti vede parlare per più di un minuto con qualcun altro (cioè sospetta che lo tradisci) o se non gli concedi di permanere a chiacchierare in camera tua per più di venti minuti e fuori orario... I superiori fanno finta di niente, anzi, alzano il rating di quelli più carini. Se ci stai, la tua carriera sarà facile, il successo sarà comodo (ma le rate omo da "pagare" non finiranno mai). Chiudono anche un occhio, finché possibile, sul fatto che qualche tuo commilitone sia andato addirittura prostituendosi (rigorosamente omo) nei cessi della stazione (e magari costui è giunto tranquillamente al sacerdozio): dopotutto, oggidì chi è che non ha bisogno di soldi?

venerdì 26 aprile 2019

Formatori: una precisazione

Il rapporto fra formatori e seminaristi dovrebbe essere quello tra uomini, non quello tra vicine di casa. Tra uomini: "chiamo l'idraulico che detesto, perché risolve il problema". Tra vicine di pollaio: "l'idraulico mi è antipatico, non lo chiamo più! meglio tenermi il problema piuttosto che risolverlo. Inoltre, non chiamandolo, risparmio!"

Tra uomini significa che si bada alla vigna del Signore - anche qualora si trattasse di collaborare a far assumere un operaio per un'area della vigna di competenza altrui. Tra uomini significa che si bada all'essenziale (la fede ce l'ha? avverte la chiamata? è virile? ha mica qualche seria debolezza morale?) piuttosto che all'accessorio (è un tradizionalista? sarà in grado di reggere una parrocchia? parteciperà con florido e dialogante entusiasmo a tutti i consigli pastorali, fiaccolate contro l'antisemitismo e l'omofobia?)

sabato 23 marzo 2019

Primo anno di seminario: sintesi personale

Verso la fine di ogni anno di seminario i superiori chiedono ad ogni seminarista di consegnare una relazione personale in cui aver personalmente descritto le difficoltà e gli ostacoli emersi durante l'anno per quanto riguarda la formazione (spirituale, umana, pastorale e intellettuale), nonché i positivi risultati raggiunti. Il testo andava scritto stando in cappella, in seguito ad almeno un'ora di preghiera silenziosa, e scritto nella massima sincerità.

Ma nonostante l'apparenza di buone intenzioni, tale testo sarebbe stato utilizzato (tanto per cambiare) per aggravare le accuse ai seminaristi che i formatori avevano già nel mirino (cioè i sospetti tradizionalisti). Per cui la prima bozza - quella sincera, sgorgata dal cuore di fronte al Santissimo Sacramento - era impossibile da consegnare ai superiori.

Dopo enorme fatica il nostro eroe partorì la seconda versione, qui di seguito riportata, avendo tentato in ogni modo di ammorbidirla senza dire falsità. Prima di consegnarla, il seminarista tentò per cautela di leggerla ad un commilitone fidato e intrallazziere, il quale lo interruppe al punto 2 della sintesi iniziale gridando con terrore: "ma vuoi farti scacciare dal seminario!? riscrivila daccapo senza dire nulla che possa urtare la suscettibilità dei formatori!" Per cui neppure questa versione ottimista e giuliva fu consegnata.

* * *

Relazione di fine anno - Primo anno di seminario maggiore

In sintesi
  1. il seminarista si è ben inserito nella vita comunitaria ed ha stabilito un rapporto schietto con i superiori;
  2. il tempo a disposizione del seminarista è insufficiente rispetto alle attività richiestegli;
  3. non sempre è stata rispettata la spiritualit๠del seminarista.
Formazione spirituale

Il seminarista ha sopportato pazientemente l’imposizione di preghiere e metodi di preghiera che non sempre hanno rispettato la sua spiritualità. Ha inoltre sopportato malvolentieri alcune indelicatezze² liturgiche.

Indubbiamente positivo invece il rapporto col padre spirituale (anche per la libertà di orario concessa al seminarista) e la possibilità di servirgli Messa di tanto in tanto.

Il seminarista è stato fedele ai tempi di preghiera comunitaria e personale, vissute con serenità e con la stabilità che desiderava, a scapito talvolta³ della salute.

Formazione umana

L’insistenza sullo “stare in sala comune” per “fare comunità” appare ingiustificata in quanto il seminarista, di carattere un po’ riservato ma decisamente allegro, è riuscito a costruire (e continua a costruire) rapporti umani⁴ stabili e sinceri anche con persone in difficoltà.

Il seminarista è stato fedele a tutti gli incarichi e servizi che gli sono stati affidati (a meno di motivi di salute⁵, ed a costo di piccoli⁶ rimproveri da parte di qualche professore), nonché sempre disponibile nei confronti degli altri – ma dovrebbe esserlo meno sia perché di ciò alcuni⁷ ne approfittano, sia a causa del carico di impegni e servizi.

Formazione pastorale

Giudizio positivo a causa della vicinanza alla diocesi, per cui è stato possibile, quasi tutti i fine settimana, prestare servizio nella parrocchia assegnatagli. Secondo l’indicazione dell’Animatore ad inizio anno, e in accordo⁸ col Parroco, non ha ricevuto incarichi impegnativi, rinviati al prossimo anno⁹.

Formazione intellettuale

I discreti risultati raggiunti premiano probabilmente più la formazione culturale precedente che l’effettivo impegno nello studio.

Nonostante infatti i risultati degli esami tutto sommato positivi, a motivo delle numerose attività di seminario (pulizie e servizi personali, comunitari ed intercomunitari, feste, incontri, imprevisti, assistenza a seminaristi e sacerdoti, nonché altri impegni altrettanto praticamente inevitabili nel quotidiano) è stata abbastanza dura riuscire a trovare il tempo per uno studio intelligente e non nozionista.

* * *


Note per la comprensione del testo:
  1. "non rispettata la spiritualità" significa che i formatori si erano ripetutamente e pubblicamente fatti beffe di qualsiasi cosa etichettabile come tradizionale, come se fosse qualcosa di vergognoso e infantile e di ostacolo al sacerdozio
  2. si tratta di numerosi e gravi abusi liturgici perpetrati in nome del "qui siamo in seminario e perciò facciamo le cose in modo più speciale
  3. andare a Messa con la febbre a 39 in onore del Signore, sì, ma anche perché nei riguardi dei sospetti tradizionalisti c'è un ossessivo controllo presenze
  4. la fissazione del "fare comunità" e del "relazionarsi" è psicologismo gesuitante da quattro soldi. In seminario occorre perennemente recitare la parte delle oche giulive
  5. se sei nel mirino vorranno considerarti "a prescindere" un lavativo pelandrone scansafatiche pigrone inadatto al sacerdozio; se sei una delle checche favorite dei formatori qualsiasi scusa sceglierai sarà buona per scansarti turni e servizi
  6. al docente non interessa che il carico di servizi ti abbia impedito di essere presente, e al formatore non interessa che in certe occasioni il docente abbia deciso a sorpresa che era necessaria la tua presenza. Pertanto, dovendo scegliere quale callo pestare, hai scelto quello che dava meno conseguenze in diocesi (e a fine anno hai ricordato che era necessario tentare di minimizzare l'accaduto)
  7. le checche preferite dei formatori consideravano poco meno che camerieri coloro che erano nel mirino. Quel largo giro di parole serve per stemperare le delazioni delle checche senza offrire terreno alla gravissima accusa della mancata "disponibilità"
  8. un sospetto tradizionalista non può essere assegnato a incarichi normali (catechesi, attività educative, ecc.) perché promuoverebbe la Tradizione invece che la froceria. Pertanto il parroco ti dice: "starai con i ragazzi", cioè sarai il clown che ciondola nei locali della parrocchia ad uso dei ragazzini annoiati (che peraltro già stravedevano per te). Il parroco non sapeva che anche l'animatore del seminario aveva suggerito la stessa inutile attività in nome di un imprecisato crescere nel dialogo
  9. wishful thinking. In realtà ogni anno era uno "starai con i ragazzi".

mercoledì 20 marzo 2019

Rapporto: primo anno di seminario

Formazione spirituale
  • Professionisti dell’entusiasmo (testimoni di una fede fatta solo di “animazione”, formalismi, paroloni, cantatine).
  • Abusi liturgici – primo fra tutti “l’anafora di san Basilio” (neppure al Vescovo faceva piacere che si usasse una preghiera eucaristica non riportata nel messale), la comunione “self‑service” (indelicatezza nei confronti dell’Eux, oltre che declassamento e ridicolizzazione del ruolo del sacerdote), diverse pagliacciate con gli abiti liturgici (tollerate quando non incoraggiate).
  • Insistenza sospetta sulla preghiera spontanea (spiritualismo fideista e pentecostalista).
  • Linguaggio ambiguo – termini mai usati: grazia, morte, inferno, purgatorio, paradiso, resurrezione dei corpi (la conoscenza delle verità di fede è data per scontata).
  • Riduzione della fede a organizzazionismo, insieme di regole e regolette, breviari e libretti dei canti, canzoncine e ricerca continua di “novità” perché “tanto per cambiare un po’” (noia mortale).
  • Riduzione della confessione ad una devozione qualunque, da “giornata penitenziale” (come se fosse estranea alla Comunione).
  • Linguaggio ambiguo (come se il sacerdozio equivalesse al mestiere del parolaio): ideologia della “Parola”, da cantare o declamare pomposamente.
  • Messa feriale mai inferiore ai 55/60 minuti (pesantezza liturgica annoiante), nonché raffica di preghiere e preghierine giusto per accontentare anche i “bigotti” (falsa “par condicio”).
  • Atmosfera di sacralità proporzionale agli addobbi in cappella (alla faccia del tabernacolo che è sempre lo stesso...).
  • Imposizione di preghiere e preghierine, nonché controllo poliziesco delle assenze e dei ritardi anche nei casi di attività “libere” (totalitarismo pastorale).
  • Riduzione dei luoghi sacri a studio di registrazione – “vado a farmi una suonatina in cappella” (risultato ultimo della “religione del libretto dei canti”).
  • Calici di terracotta, tabernacolo in legno e senza chiave (pauperismo e superficialità spacciati per semplicità), nonché una certa approssimazione nei paramenti sacri e sull’altare in merito a ceri, panni sacri, fiori, etc.
  • Etichettamento come bigotteria a tutto ciò che non è “allineato” all’andazzo (persecuzione non violenta).
  • Scarsa o nulla considerazione dei tempi di preghiera, lettura spirituale e meditazione personali (assolutizzazione ingenua della comunitarietà).
  • Uso eccessivo di “canti da parrocchia” e uso “pro forma” (ma in compenso infrequente) di qualche raro gregoriano (riduzione della dimensione del canto a “zecchino d’oro da parrocchia”).
  • Preparazione sospettosamente finalizzata al ruolo ambiguo di amministratore/animatore di centro parrocchiale (invece che di santo sacerdote).
  • Ecumenismo umanitarista e sincretino (la “religione del dialogo”).
Formazione umana
  • Guerra di nervi (alla faccia della carità cristiana): risposte ambigue con facce ancora più ambigue, sgridate e critiche inviate per terza persona, sceneggiate derisorie, “prediche contro” (camorra pastorale).
  • Libertà sostanzialmente negata (gesti che devono fare “tutti!”) e atteggiamento meschinamente poliziesco; fra l’altro non si può uscire se non il lunedì pomeriggio.
  • Omertà, ipocrisia, sindrome da circolo chiuso (una caserma), atteggiamenti peraltro invogliati (sindrome da gregge di pecoroni e leccapiedi); sincerità e lealtà cedono il passo alla “buona riuscita”.
  • Insistenza comicamente sospetta sullo “stare in sala comune” per “fare comunità” (ideologia sociologica).
  • Tolleranza a maniche troppo larghe per effeminati, falsi, demotivati e tiepidi (in compenso si muove guerra fredda contro chi ha una fede più cosciente e limpida).
  • Iperattività selvaggia (azzeramento del tempo libero, in stile militaresco): uno non ha tempo per sé stesso.
Formazione pastorale
  • Catechesi e omelie tra lo spiritualismo ed il sentimentalismo (testimoni di un’assenza).
  • Testimonianze “esterne” al limite (e talvolta ben oltre) dell’eresia (disattenzione o tacita accettazione?).
  • Riduzione del servizio pastorale a una generica “missione bontà” (buonismo filantropico televisivo e volontarista).
Formazione intellettuale
  • Studio nozionista, tecnicista, schiavo delle mode dell’ambiente teologico; studio meccanico, disordinato, non in vista di una santa formazione sacerdotale, con la generale fissazione del “dialogo”, nonché eresie più o meno ben mascherate nel generale ottundimento filosofico e teologico (cioè: nel migliore dei casi, inutile).

lunedì 18 febbraio 2019

Qui si parla di nonnismo da seminario, cioè di latrine

Ricordo il caso di una persona che avendo letto dei benefici della vitamina C prese a ingurgitarne quantità enormi, pervenendo infine ad un'intossicazione. Un uomo, nel diventare adulto, impara ad essere equilibrato. Una checca no.

Un bel dì il frocetto preferito del superiore si lamentò di aver trovato il bagno "ommioddìo era tutto sporco". Se a lamentarsi fosse stato qualcuno esterno al cerchio magico dei ricchioni del superiore, quest'ultimo avrebbe sbottato: ma ti lamenti sempre! questa comunità non è un albergo! mostra la tua disponibilità pulendo prima e dopo! rimboccati le maniche e datti da fare! te lo avevo già detto mille volte! [n.b.: "te l'avevo detto già mille volte" in realtà significa "te lo sto dicendo oggi per la prima volta e te lo ripeterò per altre mille volte in futuro"]

Le lamentele del cerchio magico sono invece poco meno che Vangelo, e perciò il superiore immediatamente indìce una riunione comunitaria per dare un robusto giro di vite ai turni delle pulizie. "È un'indecenza!", comincia a dire, e già è perfettamente chiaro tutto il resto del tremendo piano quinquennale, che però declama ugualmente: "bisognerà lavare ogni bagno comune ogni giorno, anzi, due volte al giorno!". Assunsi l'aria più indifferente possibile (pokerface) e replicai che se i bagni vengono puliti ogni giorno, chiunque li utilizzerà smetterà di fare attenzione a lasciarli in condizioni decenti, giacché "stasera verrà pulito, domattina comunque lo puliranno". Fino a quel momento, infatti, vigeva un accordo tra gentiluomini (tutto sommato rispettato anche da qualche checca): lasciare pulito così come lo si vorrebbe trovare, e le pulizie si potevano fare ogni settimana. Il superiore recitò la sentenza che aveva già preparato, sottolineando bene le parole: "ogni giorno dobbiamo trovare il bagno ben pulito". Con voce ancor più sommessa tentai di far notare che se il buon senso dei singoli viene sostituito dall'aumento di turni di pulizie sarebbe stato praticamente un albergo: "tanto più tardi c'è il turno delle pulizie..." Touché. Suggerii un compromesso - pulire ogni tre giorni, ad orario non prefissato perché avevamo tutti liturgie, impegni comunitari e corsi da seguire - e sorprendentemente, seppur di malavoglia, il superiore accettò.

Il fatto è che un uomo adulto quando va a farsi una doccia dà una rapida risciacquata preliminare al piatto doccia, si sdoccia quei pochi minuti che servono, dà una rapida risciacquata conclusiva al piatto doccia per non lasciare tracce, si assicura che il pavimento non abbia pozzanghere e va via. Il tutto con la finestrella socchiusa, in modo che vapori e odori non ristagnino.

Un culattone, invece, si barrica imperiosamente nel locale toilette, spranga la finestrella, apre la doccia a ottomila gradi e diecimila unità di pressione e quindi procede ad un imperscrutabile e lunghissimo rituale bizantino di preparazione prima di sdocciarsi. Esce dalla doccia solo quando il boiler sputa fuori acqua fredda. Se proprio si sente giovialmente caritatevole, dà una semi-inesistente tirata di straccio (lasciando comunque il pavimento ridotto a una palude) e va via lasciando un nuvolone di vapore sprangando bene la porta in modo da non lasciarlo fuggire (non sia mai che le muffe si sentano perseguitate). Poi torna due ore dopo per sbarbarsi e scopre con furioso sdegno che il nuvolone è tutto ancora lì e ha solidificato una crosta opaca sullo specchio e altrove. E vede pure le impronte degli scarponi di un altro frocetto che era andato a vuotare la vescica infischiandosene del pavimento e della finestrella. Va dunque adirato a lamentarsi col superiore e questi, lieto per la delazione ed empaticamente furente, annuncia che prenderà seri provvedimenti contro gli altri che hanno lasciato al suo povero ricchion-pargolo quell'inconcepibile scempio.

Il fatto è che in ogni ambiente chiuso, piccolo o grande che sia, la quiete è garantita solo dall'accordo tra gentiluomini, una cosa possibile solo a uomini adulti e virili. Cameratismo. Vivi e lascia vivere. Lascia pulito così com'era. Non fare il furbo pensando che tra poco qualcuno pulirà qualsiasi cosa sporchi, perché se per un'improvvisa e imprevedibile emergenza il turno salta o viene rinviato di 24 ore...

Uno incapace di fidarsi del prossimo tende a sostituire la fiducia moltiplicando regolamenti e turni di servizio. Che per loro natura vengono interpretati agli amici (cioè ai leccapiedi e agli invertiti del cerchio magico) e applicati ai nemici (cioè a coloro che ubbidiscono, e siccome ubbidiscono ai 613 precetti del superiore, perché non aggiungerne altri 714? dopotutto il loro compito è di ubbidire, e l'ubbidienza al superiore è ubbidienza a Dio, perbacco!)

Lunedì pomeriggio: Seminarista Virile A Caso sottrae tempo prezioso a studio e riposo per ottemperare al turno di pulizia locale bagni (dura prova per la propria pazienza: occorre cercare di non pensare a "chi" potrebbe aver lasciato le sgommate di merda nel water, più l'immane pantano nei dintorni del piatto doccia, più i semisolidi residui di dentifricio e spuma da barba su specchi e accessori, nonché la sorprendente impronta di una ciabatta sul muro a un metro e quaranta d'altezza e magari anche l'insettino non immaginario timbrato lì), usando una ragionevole dose di detersivi e assicurandosi che l'essenziale sia abbastanza pulito da poter far contento il superiore. Ha appena finito, che passa il superiore: "e che è, tutto qui? già lasci? invece di fare pulizie più approfondite!" Quello stramaledetto coglione d'un frocio ricchione, che magari ha ancora l'alito che sa di specie del pane e del vino e le chiappe che puzzano di sagrestia perché lì vi ha celebrato il riposino post-Messa, ti sgrida senza neppure sapere quanto tempo hai impiegato a pulire lo scempio di quelle latrine accusandoti a prescindere di averci messo troppo poco tempo. Ma scusate, per quale motivo sono entrato in questa comunità? devo diventar prete o pulitore di cessi? (e dire che mentre pulivo pregavo e cercavo di non pensare a quelli che hanno lasciato letteralmente un pezzettone di merda incastrato nelle setole dello scopino del w.c.) Oh, mi si dirà, ma santa Teresa di Lisieux di fronte a questo genere di umiliazioni aveva un approccio completamente diverso! Ovvio: era santa, aveva molta più pazienza di me, e la sua santità non era stata fabbricata dalla quantità di umiliazioni stile agente torturatore dell'epoca staliniana, ma dalla grazia di Dio.

Ma non sono solo i frocetti del cerchio magico. Anche il superiore, per la fretta messagli da imprecisati impegni (neppure lui saprebbe definire quali), riesce talvolta a trasformare un bagno lindo in una lugubre palude, riuscendo a sentirsi giustificato. Quando dunque arriva uno dei suoi gai frocetti a sdocciarsi (sono igienisti non per amore del pulito, ma perché si sentono perennemente sporchi "dentro"), crederà subito che è impossibile che sia stato qualcuno del suo gaio club, men che meno il superiore, per cui griderà furiosamente al complotto cospiratorio e in men che non si dica il superiore proclamerà "è un'indecenza!" con tutta la conseguente valanga di sottintesi sovietici.

Giovedì mattina: Seminarista Principe Di Culandra si annoia. Oggi è il suo turno di pulizia latrine. Non è andato a lezione perché aveva dolori reumatici. En passant: il tipico seminarista virile si dichiara malato quando ha la febbre ad almeno 39°; quello frocetto ha invece sempre da esibire tutta una collezione di emicranie, dolorini al pancino, mini-tosse, doloretti reumatici, febbroni da cavalluccio a dondolo da nientemeno che 36,01°, più una sorprendente serqua di malanni da vecchi matusa anche se magari non ha nemmeno venticinque anni e non riesce a distinguere tra malattia, melanconia, ipocondria, noia, froceria... in breve: è sostanzialmente un malato immaginario. Ordunque, giovedì mattina, entrato nel locale bagno per il turno di pulizie, si scandalizza per non averlo trovato già pulito come la cristalliera del GranDuca di MastroLindo. Con disprezzo per lo sporco (soprattutto quello immaginario) getta eroicamente mezzo bottiglione di detersivo nel secchio, tira la secchiata 50% acqua e 50% detersivo direttamente sul pavimento, dà una passata ultrarapidissima lasciando aloni di schiuma e detersivo ovunque, svuota un intero bottiglione di detersivo di pulizia water direttamente nel water e aziona rapidissimamente lo sciacquone. Finito. Non mette nemmeno a posto secchio e straccio (e opportunamente evita di controllare se c'è ancora il pezzettone di sua merda tra le setole dello spazzolone): bisognerà aspettare che quel 50% acqua e 50% detersivo si asciughino. Torna finalmente esausto in camera per il riposo del gaio guerriero, dove lo aspetta l'ampio contenitore di biscotti, ma ancor prima di rientrare già si lamenta che le mani gli fanno male: ha lavorato troppo...

Un Seminarista Virile A Caso, rientrato dalle lezioni, si accorge dello stato penoso del bagno e cambia direzione intendendo andare a svuotare la vescica nel malandato bagno di servizio del garage dall'altra parte dell'istituto. Meglio una latrina modello Stazione Termini Anni Novanta che lasciare impronte che qualcuno potrebbe riconoscere (no, non è un modo di dire). Ma oggi gli è andata buca: il superiore lo ha notato avvicinarsi al locale bagni e fare dietrofront ancor prima di entrare. Col sorrisetto di chi ti ha colto in castagna ti dice: quelle cose vanno rimesse a posto, su! Gli fai notare che il pavimento è ancora bagnato. Ma su, dai, ci ripassi e poi asciughi, impone categorico il mega-frocio. Vorresti fargli notare che non era il tuo turno di pulizie e che pertanto non dovresti supplire alla pigrizia altrui. Vorresti fargli notare che rimettere mazza e secchio a posto implica che per uscire senza sporcare occorrerebbe levitare come san Giuseppe da Copertino. Vorresti fargli notare che è proprio per non peggiorare la situazione che stai chiedendo uno sforzo supplementare alla tua vescica per correre in garage. Vorresti fargli notare che quel suo atteggiamento da gran visconte con la puzza al naso non solo sta dando pessimo esempio ai suoi fedelissimi, ma sta riducendo il rapporto tra te e lui a un insieme di pure apparenze. Allora, con la vescica che ti impreca contro il prete ricchione, entri, cerchi di mettere a posto senza lasciar tracce, e per un attimo il tuo sguardo si posa sullo specchio. Sei indeciso se fingere di non aver notato (altrimenti ti toccherà pulirlo) oppure se far notare di aver notato (altrimenti penserà che qualcuno dispettoso lo ha sporcato di proposito dopo le pulizie, magari qualcuno che doveva vendicarsi per aver dovuto riporre secchio e detersivi colto in flagrante mentre cercava di svignarsela).

Certe scene sembrano nonnismo da caserma dell'epoca in cui la leva era obbligatoria. Sono gli insicuri, gli annoiati, e soprattutto le checche a credere che per affermare sé stessi occorra crudelmente calpestare qualche "inferiore". Un prete - dico: un prete, cioè uno che ogni santo giorno recita l'Ufficio e le Ore, celebra la Messa, medita la Parola, si fa l'esame di coscienza, possibilmente assolve in confessionale e celebra altri sacramenti, e per di più molla prediche a chiunque per gran parte del giorno - dovrebbe quantomeno avere qualche scrupolo prima di lasciarsi andare al nonnismo. E invece... soggetti del genere dediti effettivamente al nonnismo per favorire il loro circolo di checche, sono poi gli stessi che vanno ossessivamente sindacando sulla formazione umana, sulla disponibilità al dialogo e al servizio, sul maturare, crescere, condividere... Sembrano pagine di Šalamov o di Solženicyn. Invece è solo il punto di arrivo della formazione al sacerdozio postconciliare.