sabato 15 settembre 2018

Quella certezza non condivisa dal vescovo

C'è stato un momento preciso nella mia vita - di cui ricordo benissimo il luogo, il giorno, il minuto - in cui ho capito che quella mia tensione verso il sacerdozio era definitiva. Una tensione che era cresciuta negli anni. Che si era accumulata, stratificata, consolidata. Che riguardava la mia intera vita, senza più alcun dubbio. Che non mi sarei più girato indietro.

La prima volta che mi sono posto qualche domanda seria fu in una piazza davanti alla stazione. Piovigginava ed ero senza ombrello. Era verso il tramonto. C'era stato un incidente pochi istanti prima. Un uomo di mezza età caduto dallo scooter. Era riverso a terra, con la testa insanguinata, balbettava qualcosa. Mi avvicinai a lui per rassicurarlo, non avrei saputo dirgli altro che avrei chiamato subito un'ambulanza. Lui mi afferrò la mano, stringendola con le poche forze che gli rimanevano, come se fosse l'ultima cosa a cui aggrapparsi. Seppi solo ripetergli che stavo chiamando l'ambulanza, ma sentii alle mie spalle uno che diceva di non preoccuparci perché l'aveva appena chiamata.

Restai lì accovacciato per qualche minuto, mentre si formava un capannello, ma lui mollò la presa soltanto nel sentir avvicinarsi la sirena dell'ambulanza. Nel frattempo era riuscito a balbettare solo qualcosa tipo: mia moglie, mio figlio... Gli dissi “coraggio!” e mi allontanai furtivo perché non volevo avere a che fare con la burocrazia, né ritenevo di meritare un premio per avergli pazientemente concesso di aggrapparsi alla mia mano. La pioggia era diventata più insistente, non abbastanza da diluire la pozza di sangue attorno alla sua testa quasi calva. Tornando a casa tutto bagnato mi domandavo perché non ero stato in grado di dargli l'essenziale. Avrei potuto essere un sacerdote pronto a dargli l'unzione, ero solo un ignoto passante che non aveva neppure visto l'incidente e che perciò non doveva tentar nulla. Si sarà salvato? Non dubito che la mia sola presenza lì possa avergli giovato. Ma se al suo posto fosse stato un mio caro o io stesso, sarebbe stato molto meglio un sacerdote pronto a dare gli ultimi sacramenti (anche se l'incidentato li avesse rifiutati: ciò avrebbe comunque scosso l'anima di qualcuno dei presenti). Avrà avuto salva la vita? E l'anima? Per tanti motivi non passai più per quella piazza se non dopo molti mesi. Non c'era più il sangue sull'asfalto. C'era invece la netta percezione che quell'evento e quel punto preciso della piazza parlavano del mio futuro sacerdozio.

Piccoli episodi come quell'incidente, al raccontarli sembrano banali ma ad averli vissuti ti forgiano dentro. Passano gli anni e scopri che la linea che li unisce è davvero il sacerdozio. Nessun miracolismo, nessun apparizionismo, nessuna missione di pastoralato o di neobuonismo clericale. Maturi lentamente la convinzione di essere chiamato, di avere una missione da compiere e nessun alibi per tirarti indietro. Cominci a sbarazzarti degli “ostacoli” e ad accorgerti che nel farlo non ti sembra di esserti sacrificato: erano ostacoli, non erano “ricchezze”.

Così, quando sei al punto che non ne puoi più, che ti sei arreso all'evidenza, che vuoi fare un passo deciso e vai a confermarlo al sacerdote cui ti eri affidato, cosa succede? Che costui dà un bel colpo di freni. E tu che avevi deciso di ubbidirgli a prescindere, lo segui, ubbidisci, anche se il tuo primo passo è un fastidiosissimo star fermi ad aspettare. Passa il tempo e la certezza non accenna a diminuire. Vieni finalmente presentato al vescovo. Il quale ti accoglie sorridendo e ti chiede affabilmente il motivo della visita, come se non lo sapesse. Gli rispondi da uomo, dritto al dunque, senza giri di parole: Eccellenza, sono qui perché desidero accedere al sacerdoz-- “No! Non devi dire così, non si dice così, devi dire: vorrei chiedere di cominciare un periodo di discernimento...” Certo, sì, cominciare, sì, un periodo, certo, di discernimento, sì, infatti è perché sono convinto di essere chiamato al sacerdoz-- “Ho capito, ma non devi dire così, perché il vescovo e l'equipe formativa devono valutare, riflettere, capire, discernere... la vocazione si realizza solo con l'ordinazione...”

Chiaro il sottinteso? Nella neolingua di legno clericale si è autorizzati a usare il termine “vocazione” solo dopo che il vescovo ti ha ordinato al sacerdozio (poco importa se pochi mesi dopo l'ordinazione hai una crisi e abbandoni). Ma allora come avrei dovuto chiamare l'aver raggiunto una certezza sulla mia vita, certezza tale da chiedere al vescovo - e senza neppure un’ombra di dubbio - di diventare sacerdote? Possibile che tutti gli altri che vanno da sua eccellenza sono convinti che un “no” di quest'ultimo implichi che loro si sono sbagliati per tutta la vita? Possibile che tutti gli altri vadano da sua eccellenza non nel momento in cui hanno raggiunto una certezza (che non esclude che qualcosa in futuro possa andar storto, ma parte col piede giusto della certezza), ma già quando durante le attività di parrocchia a furia di veder preti di qua e preti di là si dicono “boh, perché no?” Mistero ancor oggi irrisolto.

Sì, è possibile che quella che io riconosco come certezza non trovi d'accordo il vescovo. Che è libero di non ordinarmi, con o senza ragionevole motivo. Infatti è successo proprio questo. Quando mi ha dimesso dal seminario, gli ho ricordato ancora una volta della mia certezza, del fatto che non mi erano state mai mosse obiezioni riguardanti la fede, la dirittura morale, la chiarezza della chiamata, e gli ho chiesto: visto che lei non mi ritiene adatto a questa diocesi, a quale porta posso bussare? Lui menzionò un paio di ordini religiosi a caso (laddove avrebbe dovuto nominare persone di fiducia), poi soggiunse: anche un'altra diocesi può andar bene.

Avrei dovuto chiedergli: com'è possibile che io sarei adatto al sacerdozio in un'altra diocesi ma non qui? Dunque per lei la vocazione è un fatto geografico? Eleganti e commoventi interventi di pastorale vocazionale e poi mi dice che la mia vocazione qui non va bene ma altrove probabilmente sì? È proprio quella, sì, è l'ideologia conciliare dello stare in mezzo allagggènte che ha fatto abortire tante vocazioni (e che si limita a selezionare ragazzetti indecisi che nel proprio curriculum vocazionale vantano solo l'aver perso un ragguardevole numero di ore nei locali parrocchiali). Il sacerdote deve stare talmente in mezzo allagggènte che uno che non sembra perfettamente intercambiabile con gli altri pagliacci da parrocchia dev'essere brutalmente scaricato, anche se non si trova una scusa decente per dimetterlo.

Doveva essermi padre e guida, è stato il boia. Non importa quali equilibri diocesani desiderava mantenere, quali antipatie non stuzzicare, quali piccoli potentati assecondare. Importa solo il risultato: ha abortito una vocazione (e chissà quante altre), la sua ricompensa sarà adeguata.

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