mercoledì 12 settembre 2018

“Vattene da Lefebvre”, proprio perché conoscono il penoso stato degli istituti tradizionalisti

Nella legnosa neolingua ecclesiale ci sono tanti modi per sputare sulle vocazioni dicendo l’equivalente di “vattene da Lefebvre”. Che poi sono tutte la chiara ammissione che Concilio e postconcilio sono stati una deviazione, altrimenti non sarebbe stato uno sprezzante vattene, ma come minimo un paterno “nella Chiesa c’è sempre posto per te, te lo troveremo”.

Dopo quarant’anni di deviazione finalmente Benedetto XVI ammise che «ciò che per le generazioni anteriori era sacro... non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Parole al vento, specialmente nel corrente pontificato (qualche sacerdote mi confidava che finché l’argentino è regnante non ci sono speranze per vocazioni come la mia).

La riserva indiana degli istituti tradizionalisti ha almeno un paio di problemi seri: uno esterno, l’essere perennemente malvisti dalla Chiesa deviata postconciliare (non importa quanta ubbidienza filiale) ed uno interno, il cinquantismo innato. Nel primo caso, se ti mandano un cardinale massone a farti da consigliere o commissario, o se ti fanno rientrare da finestra le deviazioni che avevi messo alla porta, o se ti ostacolano in ogni modo, puoi far ben poco, anzi, devi addirittura sceneggiare (e in modo credibile) gioia ed entusiasmo, altrimenti non ti staccherai più le nere etichette di disobbediente, indocile, ribelle...

Nel secondo caso l’illusione che stile e metodi degli anni `50 siano la perfezione da raggiungere ha prodotto un postconciliarismo di diverso colore: come uno che avendo caldo alla testa risolve infilando i piedi nel freezer. Così finisce che nei seminari delle realtà tradizionali troviamo gli stessi problemi dei seminari postconciliari: la tentazione di dover formare dei robot (sia pure con talare e latino), la semi-invisibile caccia alle streghe su qualsiasi minuzia etichettabile come “poco sacerdotale”, i superiori che sono più kapò/burocrati/poliziotti che padri, il conseguente considerare la vocazione al sacerdozio come un mestiere (soggetto a controlli produttività altrimenti sei un pelandrone)... Ci sono tanti modi calpestare la virtù della carità, e uno di questi è il fingere che quegli istituti, in qualità di ultima ancora di salvezza dal postconciliarismo, restino al di sopra di ogni osservazione critica.

C’è un terzo problema: quello geografico e linguistico. Tutte quelle realtà funzionano in francese o altra lingua straniera, anche se dislocate in territorio italiano. Sono realtà straniere gestite da stranieri con mentalità straniera. Per entrare nell'istituto la tua vocazione al sacerdozio deve prima diventar francese o cos’altro. Devi dimenticare di essere italiano, dimenticare l’Italia, dimenticare tutti gli italiani a partire dalla tua famiglia, e parti comunque con l’etichetta di mammone attaccato a mammà e al paesello natìo tutto pizza spaghetti e lasagne, e che perciò non sarai mai sinceramente legato all’istituto. Sei “l’immigrato negro” al quale non si possono fare sconti. Ah, ti abbiamo già colto in castagna: all'anniversario di Luigi XVI non versavi lacrime! (Non è una boutade).

L’obiezione più comune è che basta studiare la loro lingua per qualche tempo. Tale concentrato di stupidità abbisogna di qualche spiegazione.

Anzitutto la padronanza di una lingua si acquisisce nei decenni. Non puoi essere come il tipico adolescente ignorante il cui vocabolario è limitato a trecento parole di cui metà relative a sport e videogiochi. La vita sacerdotale richiede una buona padronanza della lingua perché piccole sfumature comportano serie differenze. Inoltre, scritto e parlato sono due lingue sottilmente diverse. Se in confessionale rispondi con un avverbio piuttosto che un altro, un sinonimo più pesante di un altro, un aggettivo correttamente tradotto ma che in italiano suona meno sarcastico, potresti aver danneggiato gravemente un’anima. E poi la lingua è anche l'intercalare, le pause, i sottintesi, la comunicazione non verbale... Finché non padroneggi la lingua, le tue omelie e catechesi e direzione spirituale saranno solo un fastidioso elenco di frasi fatte. Vorrai mica rischiare di proferire eresie a causa di un accento fuori posto o di una proposizione mancante? È come essere costretti ad andare in missione controvoglia. No, non dipende dall’età o dalla bravura o dal possibile aver già studiato a scuola quella lingua.

Non c’è solo la lingua. C’è anche il cibo. Il clima. La mentalità. L’igiene. Un amico entra lì al primo anno tutto entusiasta e come benvenuto si becca una diarrea: lo stomaco straniero sarà evidentemente più efficiente di quello italiano. Clima freddo e umido, nonostante le coperte arriva ovviamente un febbrone da cavallo: resta solo come un cane perché i commilitoni sono sommersi dagli impegni del seminario e pensano che tanto ci sarà sicuramente “qualcun altro” a fargli visita e a chiedergli se ha bisogno di una bottiglia d’acqua (a proposito: sarà lecito detenere una bottiglia d’acqua in camera? non è una domanda stupida). Fingiamo di non notare la puzza nei bagni e la non proprio lodevole attitudine all’igiene personale dei commilitoni (e hanno pure il turno in cucina...) Quindi i superiori che lo trattano come un minus habens perché non parla perfettamente la lingua e viste le assenze dalle lezioni e qualche mancato turno di pulizie gli “consigliano” di prendersi un “periodo di riflessione”. Neanche un mese ed è già stato messo alla porta: “questo non è mica un albergo”. Gli stessi vizietti dei seminari conciliari, con la differenza che stavolta c’è la talare e il latino. Schizzinosi sulle vocazioni, kapò anziché padri, illusione che il prete perfetto è frutto di elaborati regolamenti, “formazione” che anziché consistere nell’accendere un fuoco è ridotta a riempire un secchio. Proprio come nei seminari conciliari.

Non si può rimproverar troppo a quegli istituti di non aver costituito in Italia una casa di formazione finalizzata a sfornare preti italiani. Nonostante sia il paese che ha per centro la Santa Sede conta tuttora zero seminari tradizionalisti prettamente italiani. Certo, quegli istituti non sono nati da italiani, né sarebbero tenuti ad occuparsi di ogni paese che conti almeno 50 milioni di anime. Certo, aprire una sede comporta dei costi, e un seminario comporta costi trenta volte maggiori, senza contare le guerre che ti faranno vescovi e clero. Queste cose sono note. Le sanno soprattutto coloro che ti cantano il motivetto del “vattene da Lefebvre”.

Queste brevi considerazioni non possono essere scalfite dai fervorini sul pregare per le vocazioni e per la Chiesa, dalla quantità di presunto pessimismo rilevato dagli addetti ai lavori o sedicenti tali, dalle eleganti circonvoluzioni retoriche che nascondono le solite fallacie logiche, dalle formulette magiche che farfugliando di Provvidenza, di adorazione eucaristica, di Imitazione di Cristo, permettono di fuggire celermente dal doloroso discorso.

2 commenti:

edoardo ha detto...

Mah, sinceramente trovo che la sua posizione sui seminari "tradizionalisti" sia affetta da pregiudizi. Un mio carissimo amico è stato ordinato nello scorso giugno per la FSSP, ora (ma anche da diacono l'anno scorso) si trova a Roma e quindi non ha i problemi di confessionale che dice lei. Sia più ottimista, se per la vocazione gli uomini le possono mettere bastoni fra le ruote, nell'esercizio del sacerdozio Dio la aiuterà.

edoardo ha detto...

Le interesserebbe parlare con un (neo)sacerdote italiano della FSSP?