domenica 9 settembre 2018

Scrivere un libro?

Me lo suggerì il mio direttore spirituale quando il vescovo della diocesi ingiustamente mi dimise. Fu l'unico consiglio sbagliato che mi diede. Consiglio che perciò non presi mai sul serio, sebbene al momento gli dissi che lo avrei intitolato: I nuovi farisei.

In quel libro avrei dovuto descrivere la mia esperienza col seminario, col vescovo, con le parrocchie, con i fedeli. Raccontare come nel corso degli anni quella che avevo con certezza identificato come vocazione al sacerdozio cattolico venisse banalizzata, disprezzata e infine rigettata dagli esponenti della Chiesa conciliare la cui perdurante e crescente “crisi” consiste solo nel raccogliere ciò che ha sempre seminato.

Nello scrivere quel libro avrei dovuto inevitabilmente fare qualche nome. Poter indicare nomi, luoghi, date, evita le fastidiosissime sequenze di avverbi riassuntivi, riferimenti impersonali, ogni genere di lungaggine (quelle che rendono noioso questo blog, che almeno è gratis). Mi avrebbe esposto alle vendette di quei soggetti eccezionalmente permalosi (non necessariamente querele, visto che ciò avrebbe regalato grande pubblicità al libro). Ma il principale motivo per cui non scrissi quel libro è che quando il vescovo mi mandò via, uscii senza sbattere la porta. Un libro del genere, anche se pubblicato sotto pseudonimo, mi avrebbe identificato e bruciato per sempre la carriera: quale altro vescovo o superiore di comunità avrebbe mai accolto uno pronto a denunciare in un libro piccinerie e magagne, vere o presunte che fossero, addirittura facendo qualche nome? Più di tutte le altre mafie, quella clericale esige la tua omertà. Il sottoscritto, convinto di essere chiamato al sacerdozio, sperava di poter rientrare dalla finestra, di accedere al sacerdozio presso qualche comunità sacerdotale, o presso un'altra diocesi, o nel giro di qualche anno nella stessa diocesi ma con un nuovo vescovo meno imbecille. Invece mi è andata male fino ad oggi. Intanto continuano a lamentarsi del crollo delle vocazioni dopo averlo infaticabilmente provocato. Continuano a fare il gioco delle tre carte con il valzer delle nomine a parroco. Continuano a mandare avanti la baracca come se nulla fosse.

Allora a che pro lamentarsi su un anonimo blog di personaggi anonimi senza luoghi né date? Sento già le obiezioni del tipo: la donna della tua vita non era innamorata di te e tu ancora non te ne fai una ragione. Eh, no. Nel mio caso è peggio. È come se la “donna” della mia vita, dopo avermi bruciato con perfidia i migliori anni e le migliori risorse avesse poi minuziosamente sparso panzane sul mio conto a tutte le “donne” italiane. Infatti non mi accetterebbero in un seminario neppure ripartendo da zero. Dovrei andare all’estero sperando di non trovare lo stesso virus postconciliare. Oppure dovrei mentire e sperare che fino al giorno dopo l'ordinazione nessuno si accorga, nessuno ricordi, nessuno casualmente scopra.

Mi lamento anche per liberarmi del veleno che dopo tanti anni ancora non ho digerito. Non ho ancora perso la fede. Succede spesso che un seminarista ingiustamente scacciato via perda la fede (che è la via più facile per liberarsi di quel veleno). Ho visto seminaristi trattati meno peggio di me che appena hanno messo piede fuori dal seminario hanno immediatamente cancellato dalla loro vita Messa, sacramenti, vita di preghiera, letture spirituali, tutto. Non ne volevano più sapere. Ogni cosa ricordava loro l'insopportabile persecuzione subita in seminario. Cancellando la fede, non si ponevano più il problema di cos'è la giustizia, cos'è la vocazione, come continuare a sentirsi sinceramente parte della Chiesa, e quanto debba essere buonista il perdono agli impenitenti che avevano loro devastato la vita e la vocazione.

Episodio: uno di loro, lo spilungone, una volta in un incontro coi giovani parrocchiani osò infuriarsi su qualcosa riguardante la contraccezione o l'aborto. Era all'ultimo anno di seminario. Lo fecero fuori non per ciò che aveva espresso, ma per l'imprevista foga con cui lo fece. Non era riprogrammabile. Fu la prima e ultima macchia dell'intera sua carriera di seminarista: gli aveva guadagnato il marchio di "imprevedibile", cioè inadatto al sacerdozio (le curie vogliono soggetti prevedibili, temono la libertà umana di scegliere qualcosa di meglio che non era previsto dai loro piani pastorali). Anni dopo lo incontrai per caso in treno. Parlammo dei vecchi tempi, di "quell'invertito", di "quello stronzo", di "quel frocione", e di altri augusti personaggi che in seminario erano più quotati di noi. Aveva ancora il dente avvelenato. Mi chiedeva se anch'io avessi chiuso con la Chiesa. A quanto pare non aveva più messo piede in una chiesa.

Ma a che servirebbe un libro? Dopo qualche recensione sui blog - magari benevola solo su quelli anticlericali - verrebbe rapidamente dimenticato. Veicolerebbe ai colpevoli, se ancora sono a capo dei loro patetici feudi, solo un messaggio: fate un pochino di attenzione in più a coloro che scacciati via potrebbero scrivere un libro. In meno di un anno o due, il libro verrà dimenticato. Problema risolto. (Un libro più serio di quello che avrei potuto scrivere io lo ha già scritto don Ariel Levi Di Gualdo: Quanta cura in cordibus nostris. Quanti vescovi lo hanno letto e meditato? Quanti ne conoscevano l'esistenza? Quanti anni sono passati dalla sua pubblicazione? Quale effetto concreto ha avuto?)

Successivamente all'idea di scrivere quel libro, ho poi rifinito alcune mie convinzioni. Come quella di celebrare esclusivamente la Messa tradizionale in latino, poiché quella moderna è irrimediabilmente ridotta a teatrino di bimbi scemi, e lato sacerdote appare come uno scambio di convenevoli farcito di paroloni di moda. Questa sola convinzione è sufficiente per marchiarmi a fuoco con le solite prevedibilissime etichette tra cui "eretico".

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per avermi suggerito Ariel Levi Di Gualdo: Quanta cura in cordibus nostris.
Lo leggerò. La lettura del tuo diario è interessante.