Quando il Concilio giunse alla fine, nei seminari di tale Congregazione, in particolare in Francia, credettero di dover cedere al primo segno di rivoluzione. La velocità con cui lo fecero fu pari solo alla resistenza che avevano opposto a qualsiasi riforma fino a quel momento. Gli "incontri" rimpiazzarono le lezioni, le più private devozioni furono sostituite da attivismo politico senza la più piccola transizione, e il ritualismo più conformista fece posto ad assurde improvvisazioni. Evito di citare cose più serie, che portarono perfino uno dei prelati americani più liberali a ritirare i suoi seminaristi da tale congregazione dopo i risultati irrefutabili di un'indagine dettagliata. Per rimanere in tema, occorre ammettere che c'era stata all'improvviso l'impressione di un "tana liberi tutti" in tutti i nostri seminari. Dopo il soffocante autoritarismo e l'ammorbante pietismo all'acqua di rose, presero piede la demagogia sfrenata, il caos totale, se non addirittura la cinica empietà...[Louis Bouyer]
«Perché non si può difendere il Corpo di Cristo offendendo il Corpo sociale di Cristo».
sabato 1 dicembre 2018
Tana liberi tutti
domenica 25 novembre 2018
L'utopia della settimana
Qualche sera fa ero in sala d'attesa dal medico. Un gruppetto di donne parlava di robe religiose. C'era una il cui intercalare era "gliscribeffarisei". C'era un'altra che si autoproclamava non particante "perchéipreti, perchéipreti". Quando una terza ha creduto di risolvere tutte le questioni dicendo che "dal battesimo siamo tutti sacerdoti" stavo per trasformarmi nell'incredibile Hulk. E proprio quando stavo per trasformarmi, una di loro ribatte che lei non si confessa dai preti ma "da sola, davanti alla croce", qualora ne senta davvero il bisogno.
Per fortuna la grattugiata di coglioni non è durata troppo: entrando nello studio del medico è finalmente tornata la normalità, quella in cui bocca e orecchie vengono utilizzate per comunicare fatti anziché per aumentare l'entropia dell'universo per mezzo di aria fritta e rumore.
Ecco, io vorrei sottoporre ad un'ora quotidiana di quella tortura tutti coloro che hanno ricevuto un qualche grado dell'ordine sacro. Dopo un po' di giorni sbotterebbero con un santo "ma basta con queste cazzate!", calerebbe un lunghissimo momento di silenzio in cui tutti gli avventori guardano stupiti e un po' divertiti, e poi ricomincerebbe la tortura.
Tortura intesa a far capire il risultato del Concilio: il dichiarato obiettivo di "coinvolgere di più i laici" è riuscito perfettamente, mentre non è riuscito per niente quello dato per scontato (cioè che il coinvolgimento avrebbe prodotto insperati frutti di presunta primavera conciliare). A lungo andare la tortura finalmente li convincerebbe che il prete ha da fare il prete e basta, cioè deve essere uno che dedica le sue migliori energie a celebrare devotamente i sacramenti e ad insegnare bene le cose essenziali della fede.
E invece...
Per fortuna la grattugiata di coglioni non è durata troppo: entrando nello studio del medico è finalmente tornata la normalità, quella in cui bocca e orecchie vengono utilizzate per comunicare fatti anziché per aumentare l'entropia dell'universo per mezzo di aria fritta e rumore.
Ecco, io vorrei sottoporre ad un'ora quotidiana di quella tortura tutti coloro che hanno ricevuto un qualche grado dell'ordine sacro. Dopo un po' di giorni sbotterebbero con un santo "ma basta con queste cazzate!", calerebbe un lunghissimo momento di silenzio in cui tutti gli avventori guardano stupiti e un po' divertiti, e poi ricomincerebbe la tortura.
Tortura intesa a far capire il risultato del Concilio: il dichiarato obiettivo di "coinvolgere di più i laici" è riuscito perfettamente, mentre non è riuscito per niente quello dato per scontato (cioè che il coinvolgimento avrebbe prodotto insperati frutti di presunta primavera conciliare). A lungo andare la tortura finalmente li convincerebbe che il prete ha da fare il prete e basta, cioè deve essere uno che dedica le sue migliori energie a celebrare devotamente i sacramenti e ad insegnare bene le cose essenziali della fede.
E invece...
martedì 13 novembre 2018
sabato 3 novembre 2018
Un caso di mobbing
Era diacono e prossimo all’ordinazione. La sua unica ricchezza era quel cane. La sede della comunità era circondata da prati e con un giardino sul retro. Il cane era affettuoso e soprattutto molto silenzioso, non abbaiava, non dava fastidio.
Il superiore della comunità, approfittando di un’assenza di parecchi giorni del diacono, aveva trovato il modo di sbarazzarsi del cane. Disse al diacono che il cane era scomparso, non si sa se per fuga volontaria o per furto con destrezza. Il diacono ricordò con dolore tutte le volte che il superiore aveva vagamente alluso al “non possiamo tenere con noi questo cane”, ma ingoiò il rospo.
Un mesetto dopo fervevano i preparativi per l’ordinazione sacerdotale. Un prete in più in comunità: neanche stessero conquistando la diocesi. Il superiore sarebbe andato trionfante dal vescovo a dire: eccellenza, ci prendiamo anche la parrocchia di San Dropiero Di Onigi, la comunità cresce, non ce la può negare... Arriva la notizia che il cane aveva provocato un banale incidente su una strada statale cinquanta chilometri più a sud. Identificato il cane, erano risaliti al diacono e chiedevano risarcimenti. Non proprio il tipo di notizia che ti aspetti mentre ti prepari all’ordinazione.
Finalmente l’ordinazione e la prima Messa. L’omelia è tenuta dal superiore della comunità perché così vuole la tradizione (cioè il superiore) della piccola comunità. Fu l’ultimo rospo da ingoiare. Il mattino successivo il neo-ordinato parte per una decina di giorni di ferie (il tipico tour sacerdotale presso amici e parenti) ma poi rinvia più volte il rientro. La faccia del superiore comincia a rabbuiarsi ogni giorno di più. Dopo tre settimane finalmente il novello sacerdote è rientrato in diocesi ma da tutt’altra parte: ha un incarico in una parrocchia. Ha abbandonato la comunità, provocando un insano piacere a curia e vescovo, perché l’ultimo a saperlo è stato proprio il superiore, che non può far nulla perché la comunità non ha ancora abbastanza “riconoscimenti” da poter reclamare.
Il mobbing talvolta non paga, ma mi permetto di dubitare che il superiore abbia fatto tesoro della dura lezione. Questa storia mi ricorda in particolare uno dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. Solo che lì il “superiore” era il tipico apparatchik ubriaco. Il superiore della comunità era uno che ogni giorno celebrava Messa. Ogni giorno si interrogava sui suoi peccati. Ogni giorno meditava, recitava ufficio e breviario, proclamava la Parola, eccetera. Mi chiedo quale complicato arzigogolo avrà escogitato per giustificare a sé stesso la faccenda del cane, tanto più che era stata il coronamento di anni di mobbing.
Il superiore della comunità, approfittando di un’assenza di parecchi giorni del diacono, aveva trovato il modo di sbarazzarsi del cane. Disse al diacono che il cane era scomparso, non si sa se per fuga volontaria o per furto con destrezza. Il diacono ricordò con dolore tutte le volte che il superiore aveva vagamente alluso al “non possiamo tenere con noi questo cane”, ma ingoiò il rospo.
Un mesetto dopo fervevano i preparativi per l’ordinazione sacerdotale. Un prete in più in comunità: neanche stessero conquistando la diocesi. Il superiore sarebbe andato trionfante dal vescovo a dire: eccellenza, ci prendiamo anche la parrocchia di San Dropiero Di Onigi, la comunità cresce, non ce la può negare... Arriva la notizia che il cane aveva provocato un banale incidente su una strada statale cinquanta chilometri più a sud. Identificato il cane, erano risaliti al diacono e chiedevano risarcimenti. Non proprio il tipo di notizia che ti aspetti mentre ti prepari all’ordinazione.
Finalmente l’ordinazione e la prima Messa. L’omelia è tenuta dal superiore della comunità perché così vuole la tradizione (cioè il superiore) della piccola comunità. Fu l’ultimo rospo da ingoiare. Il mattino successivo il neo-ordinato parte per una decina di giorni di ferie (il tipico tour sacerdotale presso amici e parenti) ma poi rinvia più volte il rientro. La faccia del superiore comincia a rabbuiarsi ogni giorno di più. Dopo tre settimane finalmente il novello sacerdote è rientrato in diocesi ma da tutt’altra parte: ha un incarico in una parrocchia. Ha abbandonato la comunità, provocando un insano piacere a curia e vescovo, perché l’ultimo a saperlo è stato proprio il superiore, che non può far nulla perché la comunità non ha ancora abbastanza “riconoscimenti” da poter reclamare.
Il mobbing talvolta non paga, ma mi permetto di dubitare che il superiore abbia fatto tesoro della dura lezione. Questa storia mi ricorda in particolare uno dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. Solo che lì il “superiore” era il tipico apparatchik ubriaco. Il superiore della comunità era uno che ogni giorno celebrava Messa. Ogni giorno si interrogava sui suoi peccati. Ogni giorno meditava, recitava ufficio e breviario, proclamava la Parola, eccetera. Mi chiedo quale complicato arzigogolo avrà escogitato per giustificare a sé stesso la faccenda del cane, tanto più che era stata il coronamento di anni di mobbing.
venerdì 26 ottobre 2018
mercoledì 24 ottobre 2018
Quel che tentavo di dire ai miei compagni di seminario...
Molto tempo fa, in una galassia molto, molto lontana, questa era la prima preoccupazione della maggior parte dei sacerdoti: la condizione morale delle anime, inclusa la propria. Oggi molti vescovi e sacerdoti, così come molti genitori e guide varie all’interno della Chiesa, sembrano molto più preoccupati dei sentimenti e della felicità emotiva di coloro che sono sotto la loro cura, piuttosto che della loro effettiva condizione morale.[mgr. Charles Pope]
Si preoccupano di più della correttezza politica e di non turbare chi è impegnato nella politica dell’identità e che fondano la loro stessa identità su abitudini aberranti e peccaminose e su inclinazioni malate. Che una persona sia felice e affermata sembra oggi più importante dell’essere chiamata a pentirsi e guarire e ad essere preparata per il giorno del giudizio. La felicità transitoria e apparente eclissa la felicità vera ed eterna. Inoltre, il silenzio di fronte ad orribili peccati, il demandare tutto a potenti ecclesiastici e a leader culturali di questo mondo, il servilismo nei loro confronti, sembrano superare ogni preoccupazione per il danno causato alle anime e alle vite degli altri.
sabato 20 ottobre 2018
lunedì 15 ottobre 2018
Quel clero sodomita che tenta di depenalizzare il sacrilegio
«E' quindi inevitabile che chi vive quotidianamente in istato di peccato mortale, e per di più in condizione permanente di sacrilegio - in quanto ministro di Dio e unto del Signore - si senta giudicato e sia portato a modificare anche i principj morali che egli viola abitualmente. Così, come il ladro vorrebbe veder depenalizzato il furto e l'assassino derubricato l'omicidio, anche il sodomita - vieppiù se sacrilego - vorrà sgravarsi la coscienza dal peso non indifferente del sapersi in palese contraddizione con quella Legge naturale e divina che ostinatamente infrange, e che deliberatamente lascia o addirittura incoraggia ad infrangere, sotto le specie di una connivente tolleranza o di una perversa complicità. Non gli basta profanare ogni giorno il tempio dello Spirito Santo: egli vuole ergersi a legislatore, arrogandosi il diritto di decidere al posto di Dio ciò ch'è lecito e ciò che non lo è. e non è forse questa la colpa di Lucifero?»[Opportune Importune]
martedì 9 ottobre 2018
Quando ti mettono alla prova...
“Ma se il superiore voleva solo metterti alla prova?” Ecco: questa è una domanda retorica da veri coglioni dotati di certificato di Enorme Coglionaggine e di lettura acritica e superficiale delle brutte copie dei libercoli devozionali settecenteschi.
Un buon superiore non ti mette alla prova perché ciò non sarebbe vagliare ma solo sadismo. Se hai appena messo le gomme nuove alla macchina non vai a farti un giro su chiodi e vetri rotti per “metterle alla prova”. Se la pubblicità dichiara che il tuo telefonino resisterebbe a cadute di due metri non ti metti a lanciarlo da 199 centimetri e mezzo per vedere se è vero. Un superiore onesto e timorato di Dio ha per scopo l’accendere un fuoco (il fuoco della fede, altrimenti la vocazione si raffredda), non il tirar calci a un secchio per dimostrare a se stesso di averlo riempito di più (di attività e servizi). I libercoli devozionali settecenteschi - spesso un po’ fantasiosi - testimoniano anzitutto che anche in quell’epoca esistevano subdoli superiori che per qualche motivo (froceria?) godevano nell’infliggere fatiche, dolori e sofferenze.
Episodio.
Un giorno il superiore mi comandò di presidiare la chiesa in una certa fascia oraria e di tentar di vendere polverosi santini ai turisti. In qualità di tremendo ricchione, il superiore esigeva tale ubbidienza con l’unico fine di farmi perdere tempo e, a lungo termine, di farmi saltare i nervi. Quel patetico tavolinetto posto lì nella chiesa per commerciare santini pareva un insulto al Santissimo nel Tabernacolo non molti metri più in là. Avrei dovuto farmi una frusta di cordicelle e frustare il superiore, col rischio però che avrebbe goduto e chiesto anche di essere sodomizzato, ma pazienza.
Giungono dei turisti, entrando come si entra al bar. Faccio loro presente che c’è il Santissimo e che quella casa è un luogo di preghiera (mi stava quasi scappando di aggiungere “ma quel frocio del superiore vuol farne una spelonca di ladri”). Poi, per spirito di ubbidienza, torno al tavolinetto e vedo i turisti inebetiti e imbarazzati. Torno accanto a questi ultimi e dico loro: vedete? quelli sono gli altari laterali, perché una volta i preti erano così numerosi che capitava che ci fossero più Messe contemporaneamente, una all’altar maggiore, e qualcun altra nelle cappelle laterali. I turisti si risvegliano dal torpore, si accorgono di essere in una chiesa, chiedono quale Messa dovesse seguire un fedele che trovasse una situazione del genere. Beh, facile: quella che in quel momento stava per cominciare, no?
Un altro gruppo di turisti è guidato da un vecchio trippone in camicia color grigio topo stitico. Senza dubbio un religioso. Infatti è l’unico che non tenta neppure la finta semi-genuflessione stile eroinomane che cerca di sembrare sobrio davanti alla polizia. Vedendomi in veste talare, mi chiede se sono il parroco. Gli rispondo che sono solo un seminarista, percependone il disappunto che nascondeva sotto il sorrisetto di circostanza. Accenna ad un’improbabile percorso culturale del suo gruppo di giovani e ci ritroviamo subito a parlare dell’altare. Oh, gli rispondo, l’altare è la cosa più nuova che abbiamo in questa chiesa, ed è nientemeno che preconciliare: questa chiesa non ha subito lo scempio del Vaticano II (marcando in modo appena più forte la parola “scempio”). Il gesuitastro della malora ha un semi-sussulto, come se avesse ingoiato un rospo di diciotto chili e il rospo avesse scalciato per tutte le interiora, fatto un giretto nell’esofago, per poi tornare a scalciare nello stomaco. Quindi, dopo un interminabile minuto secondo e una voce da condannato a morte, soggiunge: sì, ma forse questa è un’affermazione un po’... come dire, un po’ impegnativa...
Un altro gruppo di turisti è ammerigano. Oh, yeah, America Yù Ess É. Vadano a farsi friggere i santini polverosi (ma nelle parrocchie non li distribuiscono gratis o al più con la scritta “offerta libera”? c’è bisogno di un venditore che tenti di rifilarli ai turisti?) Non so per quale soprannaturale motivo all’improvviso tutto l’inglese che ho imparato a scuola mi si risveglia ruggente. Spiego loro che la pala d’altare è dedicata ad Our Lady, quindi indico loro il dipinto che sovrasta l’uscita, Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (kickin’ out, a pedate). Dev’essere stato il mio angelo custode a suggerirmi di far notare loro che ai fedeli che entrano lo sguardo inevitabilmente si posa sull’altare, sul tabernacolo, e sulla Madonna col Bambino, mentre al sacerdote celebrante (che quando è rivolto ai fedeli guarda verso l’uscita) si staglia in lontananza la figura di Gesù che rovescia i tavoli dei cambiavalute, un chiaro avvertimento al sacerdote che le cose della fede non sono un mestiere né un commercio.
Il gruppo di americani è già in visibilio per la spiegazione frizzante anziché museale, quando succede una cosa che sorprende persino me stesso: mi torna in mente un’espressione gergale americana (freaking out is not an option: “dar di matto non è mai un’opzione che si può prendere in considerazione”) e la riciclo in senso opposto per dire che se un prete è corrotto allora Jesus taught us that freaking out is an option (Gesù ci ha insegnato che si può dar di matto). Applausi americani scroscianti, torneranno a casa con qualcosa in più da raccontare (e di teologicamente esatto alla luce del Vangelo e del sacerdozio).
Ma no, a quello stramaledetto frocio del superiore col culo sfondato importava solo infliggermi compiti inutili o impossibili. E magari dopo anni che era lì ancora non si era accorto della significativa combinazione dei dipinti.
Qualche settimana dopo, ben prima del termine della stagione turistica, mi sgridò per non esser riuscito a vendere nemmeno un santino da dieci centesimi, e annullò il ridicolo incarico (evidentemente non tollerava che ai turisti venisse detto qualcosa di cattolico).
Un buon superiore non ti mette alla prova perché ciò non sarebbe vagliare ma solo sadismo. Se hai appena messo le gomme nuove alla macchina non vai a farti un giro su chiodi e vetri rotti per “metterle alla prova”. Se la pubblicità dichiara che il tuo telefonino resisterebbe a cadute di due metri non ti metti a lanciarlo da 199 centimetri e mezzo per vedere se è vero. Un superiore onesto e timorato di Dio ha per scopo l’accendere un fuoco (il fuoco della fede, altrimenti la vocazione si raffredda), non il tirar calci a un secchio per dimostrare a se stesso di averlo riempito di più (di attività e servizi). I libercoli devozionali settecenteschi - spesso un po’ fantasiosi - testimoniano anzitutto che anche in quell’epoca esistevano subdoli superiori che per qualche motivo (froceria?) godevano nell’infliggere fatiche, dolori e sofferenze.
Episodio.
Un giorno il superiore mi comandò di presidiare la chiesa in una certa fascia oraria e di tentar di vendere polverosi santini ai turisti. In qualità di tremendo ricchione, il superiore esigeva tale ubbidienza con l’unico fine di farmi perdere tempo e, a lungo termine, di farmi saltare i nervi. Quel patetico tavolinetto posto lì nella chiesa per commerciare santini pareva un insulto al Santissimo nel Tabernacolo non molti metri più in là. Avrei dovuto farmi una frusta di cordicelle e frustare il superiore, col rischio però che avrebbe goduto e chiesto anche di essere sodomizzato, ma pazienza.
Giungono dei turisti, entrando come si entra al bar. Faccio loro presente che c’è il Santissimo e che quella casa è un luogo di preghiera (mi stava quasi scappando di aggiungere “ma quel frocio del superiore vuol farne una spelonca di ladri”). Poi, per spirito di ubbidienza, torno al tavolinetto e vedo i turisti inebetiti e imbarazzati. Torno accanto a questi ultimi e dico loro: vedete? quelli sono gli altari laterali, perché una volta i preti erano così numerosi che capitava che ci fossero più Messe contemporaneamente, una all’altar maggiore, e qualcun altra nelle cappelle laterali. I turisti si risvegliano dal torpore, si accorgono di essere in una chiesa, chiedono quale Messa dovesse seguire un fedele che trovasse una situazione del genere. Beh, facile: quella che in quel momento stava per cominciare, no?
Un altro gruppo di turisti è guidato da un vecchio trippone in camicia color grigio topo stitico. Senza dubbio un religioso. Infatti è l’unico che non tenta neppure la finta semi-genuflessione stile eroinomane che cerca di sembrare sobrio davanti alla polizia. Vedendomi in veste talare, mi chiede se sono il parroco. Gli rispondo che sono solo un seminarista, percependone il disappunto che nascondeva sotto il sorrisetto di circostanza. Accenna ad un’improbabile percorso culturale del suo gruppo di giovani e ci ritroviamo subito a parlare dell’altare. Oh, gli rispondo, l’altare è la cosa più nuova che abbiamo in questa chiesa, ed è nientemeno che preconciliare: questa chiesa non ha subito lo scempio del Vaticano II (marcando in modo appena più forte la parola “scempio”). Il gesuitastro della malora ha un semi-sussulto, come se avesse ingoiato un rospo di diciotto chili e il rospo avesse scalciato per tutte le interiora, fatto un giretto nell’esofago, per poi tornare a scalciare nello stomaco. Quindi, dopo un interminabile minuto secondo e una voce da condannato a morte, soggiunge: sì, ma forse questa è un’affermazione un po’... come dire, un po’ impegnativa...
Un altro gruppo di turisti è ammerigano. Oh, yeah, America Yù Ess É. Vadano a farsi friggere i santini polverosi (ma nelle parrocchie non li distribuiscono gratis o al più con la scritta “offerta libera”? c’è bisogno di un venditore che tenti di rifilarli ai turisti?) Non so per quale soprannaturale motivo all’improvviso tutto l’inglese che ho imparato a scuola mi si risveglia ruggente. Spiego loro che la pala d’altare è dedicata ad Our Lady, quindi indico loro il dipinto che sovrasta l’uscita, Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (kickin’ out, a pedate). Dev’essere stato il mio angelo custode a suggerirmi di far notare loro che ai fedeli che entrano lo sguardo inevitabilmente si posa sull’altare, sul tabernacolo, e sulla Madonna col Bambino, mentre al sacerdote celebrante (che quando è rivolto ai fedeli guarda verso l’uscita) si staglia in lontananza la figura di Gesù che rovescia i tavoli dei cambiavalute, un chiaro avvertimento al sacerdote che le cose della fede non sono un mestiere né un commercio.
Il gruppo di americani è già in visibilio per la spiegazione frizzante anziché museale, quando succede una cosa che sorprende persino me stesso: mi torna in mente un’espressione gergale americana (freaking out is not an option: “dar di matto non è mai un’opzione che si può prendere in considerazione”) e la riciclo in senso opposto per dire che se un prete è corrotto allora Jesus taught us that freaking out is an option (Gesù ci ha insegnato che si può dar di matto). Applausi americani scroscianti, torneranno a casa con qualcosa in più da raccontare (e di teologicamente esatto alla luce del Vangelo e del sacerdozio).
Ma no, a quello stramaledetto frocio del superiore col culo sfondato importava solo infliggermi compiti inutili o impossibili. E magari dopo anni che era lì ancora non si era accorto della significativa combinazione dei dipinti.
Qualche settimana dopo, ben prima del termine della stagione turistica, mi sgridò per non esser riuscito a vendere nemmeno un santino da dieci centesimi, e annullò il ridicolo incarico (evidentemente non tollerava che ai turisti venisse detto qualcosa di cattolico).
mercoledì 3 ottobre 2018
“Parli troppo del seminario”
A chi obbietta sulle troppe parole sprecate riguardo alla vita di seminario occorre rispondere anzitutto con una sonora sberla o pedata, che riassuma quanto segue.
La formazione al sacerdozio dovrebbe in teoria dare al candidato una solida educazione umana, una solida preparazione teologica, e una solida vita spirituale. Non solo deve fornirgliele: deve anzitutto fargliele sinceramente desiderare, perché l'oberare qualcuno di impegni, nozioni e attività non è educazione ma solo un gratuito fardello. Nel parlare di formazione o educazione non bisogna mai sottovalutare che deve consistere "nell'accendere un fuoco", non in una tecnica da giudicare efficace in proporzione alla quantità prevista di contenuti e attività.
L'educazione umana richiede che i formatori siano uomini adulti da seguire e da imitare. Non serve un tecnico della teologia (né un burocrate di parrocchia o di curia, tanto meno un capomastro ispettore, ancor meno un cercatore di peli nell'uovo), serve piuttosto un uomo virile forgiato dalle circostanze della vita e che è successivamente approdato al sacerdozio.
La preparazione teologica deve farti avere risposte cattoliche comprensibili (e perciò predicabili) al diluvio di cazzate proveniente dal mondo. Un professore di teologia è buono solo da piazzare nelle facoltà di teologia intese a fabbricare futuri professori di teologia da impiegare nelle future facoltà di teologia.
La vita spirituale deve definitivamente convincerti che ti conviene seguire tutti i tuoi doveri di stato. Deve farti gustare la Messa e i sacramenti, non ridurteli a "celebrazione". Deve farti riconoscere che c'è divina grazia che fluisce e che saresti un cretino a non volertene avvantaggiare continuamente.
Se queste teoriche premesse fossero almeno in parte assecondate, ci sarebbe non solo un drammatico calo di "crisi sacerdotali", ma in poco tempo sembrerà di avere almeno il quintuplo dei preti.
Tali teoriche premesse (che resteranno teoria perché il putrido etat d'esprit vaticansecondoide ha rovinato tre generazioni di clero), inoltre, sono l'unico serio motivo per "parcheggiare" in formazione un candidato per cinque o sei anni e più. Se la formazione esige di derubarti di parecchi anni della tua vita, dovrà come minimo ricompensarteli adeguatamente. Quegli anni non ti verranno più ridati. Entrare in seminario deve risultare in qualcosa di positivo e indimenticabile anche in quei casi in cui lo sbocco non è il sacerdozio... altrimenti è l'equivalente dell'essere incarcerati, anni di carcere per punire il "reato" di aver chiesto di accedere al sacerdozio.
Il paragone col carcere è perfettamente appropriato: il seminario è un luogo chiuso (la possibilità fisica di uscire un paio di giorni a settimana e le ferie estive/natalizie non cambiano la sua caratteristica di impegno a tempo pieno, ti senti seminarista finché non concludi), in cui il tempo viene impegnato da studi e attività, in cui non si conduce una vita normale ma una vita da seminarista (devi proprio personificare il seminarista, altrimenti bye-bye sacerdozio). Non si tratta di giorni o settimane, si tratta di interi anni. Anni della tua vita - tra i migliori anni della tua vita - che non ti verranno mai più restituiti.
L'alibi che quegli studi e quelle attività siano dovuti al dover "uuh uhh discernere correttamente uuh uuh" le vocazioni, è una cazzata mostruosa. La sola durata pluriennale del seminario è già sufficiente a identificare senza fatica attitudini e capacità dei singoli. La truffa del "discernimento" è nell'idea (tutta conciliare) che il sacerdozio sia una mansione di parrocchia, un incarico assegnato dal vescovo, un mestiere gestito da un polveroso ufficio di curia, pertanto se il candidato non è funzionale a lavorare secondo i prestabiliti livelli di produttività e sotto la sempre crescente giungla di normative, regolamenti, editti e proclami, viene scartato: dopo il danno, la beffa! Entri perché desideri sinceramente dir Messa e confessare, e i formatori vanno blaterando di dialogo con lagggènte, di responsabilità nel pastoralato, di docilità nell'ascolto, di sensibilità pastorale, e di tutto l'orrendo letamaio di epiche stronzate postconciliari. Poi, alla fine, dopo adeguato discernimento, promuovono solo la checca che considera la Messa il noioso contorno della propria omelia, che si stufa di confessare, ma che è sempre in riunione col sindaco, col comitato della sagra, col consiglio affari economici (appena nominato parroco indebita la parrocchia di centomila euro per realizzare nientemeno che il campetto sportivo parrocchiale: ora sì che le anime andranno in paradiso!), col gruppo teatrale per la realizzazione dello spettacolo musical...
La formazione al sacerdozio dovrebbe in teoria dare al candidato una solida educazione umana, una solida preparazione teologica, e una solida vita spirituale. Non solo deve fornirgliele: deve anzitutto fargliele sinceramente desiderare, perché l'oberare qualcuno di impegni, nozioni e attività non è educazione ma solo un gratuito fardello. Nel parlare di formazione o educazione non bisogna mai sottovalutare che deve consistere "nell'accendere un fuoco", non in una tecnica da giudicare efficace in proporzione alla quantità prevista di contenuti e attività.
L'educazione umana richiede che i formatori siano uomini adulti da seguire e da imitare. Non serve un tecnico della teologia (né un burocrate di parrocchia o di curia, tanto meno un capomastro ispettore, ancor meno un cercatore di peli nell'uovo), serve piuttosto un uomo virile forgiato dalle circostanze della vita e che è successivamente approdato al sacerdozio.
La preparazione teologica deve farti avere risposte cattoliche comprensibili (e perciò predicabili) al diluvio di cazzate proveniente dal mondo. Un professore di teologia è buono solo da piazzare nelle facoltà di teologia intese a fabbricare futuri professori di teologia da impiegare nelle future facoltà di teologia.
La vita spirituale deve definitivamente convincerti che ti conviene seguire tutti i tuoi doveri di stato. Deve farti gustare la Messa e i sacramenti, non ridurteli a "celebrazione". Deve farti riconoscere che c'è divina grazia che fluisce e che saresti un cretino a non volertene avvantaggiare continuamente.
Se queste teoriche premesse fossero almeno in parte assecondate, ci sarebbe non solo un drammatico calo di "crisi sacerdotali", ma in poco tempo sembrerà di avere almeno il quintuplo dei preti.
Tali teoriche premesse (che resteranno teoria perché il putrido etat d'esprit vaticansecondoide ha rovinato tre generazioni di clero), inoltre, sono l'unico serio motivo per "parcheggiare" in formazione un candidato per cinque o sei anni e più. Se la formazione esige di derubarti di parecchi anni della tua vita, dovrà come minimo ricompensarteli adeguatamente. Quegli anni non ti verranno più ridati. Entrare in seminario deve risultare in qualcosa di positivo e indimenticabile anche in quei casi in cui lo sbocco non è il sacerdozio... altrimenti è l'equivalente dell'essere incarcerati, anni di carcere per punire il "reato" di aver chiesto di accedere al sacerdozio.
Il paragone col carcere è perfettamente appropriato: il seminario è un luogo chiuso (la possibilità fisica di uscire un paio di giorni a settimana e le ferie estive/natalizie non cambiano la sua caratteristica di impegno a tempo pieno, ti senti seminarista finché non concludi), in cui il tempo viene impegnato da studi e attività, in cui non si conduce una vita normale ma una vita da seminarista (devi proprio personificare il seminarista, altrimenti bye-bye sacerdozio). Non si tratta di giorni o settimane, si tratta di interi anni. Anni della tua vita - tra i migliori anni della tua vita - che non ti verranno mai più restituiti.
L'alibi che quegli studi e quelle attività siano dovuti al dover "uuh uhh discernere correttamente uuh uuh" le vocazioni, è una cazzata mostruosa. La sola durata pluriennale del seminario è già sufficiente a identificare senza fatica attitudini e capacità dei singoli. La truffa del "discernimento" è nell'idea (tutta conciliare) che il sacerdozio sia una mansione di parrocchia, un incarico assegnato dal vescovo, un mestiere gestito da un polveroso ufficio di curia, pertanto se il candidato non è funzionale a lavorare secondo i prestabiliti livelli di produttività e sotto la sempre crescente giungla di normative, regolamenti, editti e proclami, viene scartato: dopo il danno, la beffa! Entri perché desideri sinceramente dir Messa e confessare, e i formatori vanno blaterando di dialogo con lagggènte, di responsabilità nel pastoralato, di docilità nell'ascolto, di sensibilità pastorale, e di tutto l'orrendo letamaio di epiche stronzate postconciliari. Poi, alla fine, dopo adeguato discernimento, promuovono solo la checca che considera la Messa il noioso contorno della propria omelia, che si stufa di confessare, ma che è sempre in riunione col sindaco, col comitato della sagra, col consiglio affari economici (appena nominato parroco indebita la parrocchia di centomila euro per realizzare nientemeno che il campetto sportivo parrocchiale: ora sì che le anime andranno in paradiso!), col gruppo teatrale per la realizzazione dello spettacolo musical...
martedì 2 ottobre 2018
Il cattolico sciocchino ci casca
Basta che faccia tanto di citare il demonio, il Rosario, il “Sub tuum praesídium” e la preghiera a San Michele Arcangelo, si badi bene in latino, che il cattolico sciocchino ci casca. (...)[Cane Selvaggio]
Cane Selvaggio nota che sono le stesse parole e gli stessi concetti usati da Bergoglio nell’omelia del 3 settembre per mettere in croce monsignor Viganò...
lunedì 1 ottobre 2018
“Ma che problema hai?”
Se durante il pontificato di Ratzinger qualcuno avesse detto che presto i blog cattolici sarebbero stati invasi da vignette sul papa stracciando in fatto di meme perfino i blog protestanti più scatenati, quasi nessuno ci avrebbe creduto.
Quasi nessuno perché qualche timida voce si era già levata in tempi non sospetti. Inutilmente. Niente di particolarmente profetico: bastava tenere gli occhi aperti. Bastava credere in qualcuno dei dogmi di fede. Bastava pensare che il successore del papa del momento poteva non essere all‘altezza. Bastava osservare cosa succede nelle parrocchie e, per gli sfortunati in grado di farlo, osservare il gesuitismo da vicino.
Il titolo di questo blog è un omaggio al gesuitastro della malora che occupa il soglio, con riferimento a quando disse che non si può difendere il corpo di Cristo offendendo il corpo “sociale” di Cristo (cioè i fedeli). Il sottoscritto, dunque, non è corpo sociale perché ritiene di valere infinitamente meno del corpo di Cristo.
Ma ciò che occorre temere di più è il successore di quel gesuita. Che nel migliore dei casi scenderà a compromessi e lascerà consolidare buona parte dello schifo ereditato dai suoi successori.
Quasi nessuno perché qualche timida voce si era già levata in tempi non sospetti. Inutilmente. Niente di particolarmente profetico: bastava tenere gli occhi aperti. Bastava credere in qualcuno dei dogmi di fede. Bastava pensare che il successore del papa del momento poteva non essere all‘altezza. Bastava osservare cosa succede nelle parrocchie e, per gli sfortunati in grado di farlo, osservare il gesuitismo da vicino.
Il titolo di questo blog è un omaggio al gesuitastro della malora che occupa il soglio, con riferimento a quando disse che non si può difendere il corpo di Cristo offendendo il corpo “sociale” di Cristo (cioè i fedeli). Il sottoscritto, dunque, non è corpo sociale perché ritiene di valere infinitamente meno del corpo di Cristo.
Ma ciò che occorre temere di più è il successore di quel gesuita. Che nel migliore dei casi scenderà a compromessi e lascerà consolidare buona parte dello schifo ereditato dai suoi successori.
martedì 25 settembre 2018
“Ti presento un sacerdote che”
Teme anche l’acqua fredda chi si scottò con quella bollente. Tutte le volte che mi sento dire “ti presento un sacerdote che”, mi tornano in mente tutti i don Abbondio che - talvolta persino con dedizione - avevano tentato di aiutarmi.
Uno di questi, dopo aver giocato inutilmente le sue carte contro il muro di gomma clericale, tentò infine surrettiziamente di spedirmi tra i laici consacrati. Spiacente, amico, ma io mi sento chiamato al sacerdozio, il mio celibato ha senso solo per questo, non perché io brami di essere una qualsiasi figura di consacrato.
Un altro, che sembrava tanto interessato a sostenere me ed altri, si eclissò da un giorno all’altro, ufficialmente per motivi di studio. Cioè qualcosa o qualcuno lo avevano convinto ad evitare tassativamente di occuparsi di vocazioni. Ricordo una riunione con lui ed altri soggetti: c’era uno che era venuto munito di tutta la documentazione sul suo caso, come se stesse presentandosi ad un vescovo per strappare un sì al volo.
Un altro contava sulla sua imminente nomina a vescovo. Mi aveva confidato che il “prossimo vescovo”, di imminente nomina, era uno di larghe vedute, un tipo sveglio, uno che prende le vocazioni sul serio. Non gli chiesi mai chi fosse, per evitare che fosse tentato di confidarmi il motivo per cui pensava di essere proprio lui in odore di mitria e pastorale. Ma in extremis arrivò a sorpresa la nomina di uno sconosciuto burocrate di curia. Uno di non troppo larghe vedute, non troppo sveglio, e non troppo disposto a prendere le vocazioni sul serio. Così mi fu detto: pazienza, per un po’ di anni la diocesi non cambierà per nulla. Arrivederci e grazie. (Senza dubbio sarei stato fedelissimo al prete-diventato-vescovo-che-mi-accoglie, e viceversa sarebbe stato molto comodo per il neo-vescovo avere almeno un futuro-prete di massima fiducia: dal punto di vista ecclesiale si può dire che lo sconosciuto burocrate eletto in sua vece sia stato svantaggioso per la diocesi?)
“Non posso far altro per te”: quante volte me lo hanno detto. Nessuno dei preti che erano stati disposti ad occuparsi del mio caso era un curiale ammanigliato o uno dei pezzi grossi del parco parroci. Chissà perché.
Fui presentato ad uno che mi accolse subito nel suo ufficio. Mi pregò di sedermi indicandomi la sedia dietro la scrivania. Meccanicamente eseguii, ma mi rialzai come se la sedia fosse in fiamme, cercando di non fargli notare che avevo appena capito che lui non si era ancora seduto perché stava osservando se io avessi rispettato le priorità. Dico sul serio: avevo dedotto (troppo tardi) che era uno attentissimo alla forma. Prima si siede il Superiore, quindi l’Inferiore. Si sedette infine e mi disse che potevo parlare liberamente senza alcun problema, e il colloquio andò abbastanza bene fino al punto in cui nominai la Messa in latino. Continuò a sorridere - ma era evidente che si sforzava di farlo - e mi congedò poco dopo. Nelle settimane successive fu impossibile rintracciarlo telefonicamente. Inutile chiedere in portineria. Inutile chiedere in ufficio. Inutile telefonare.
Dei cari amici insistettero tantissimo affinché prendessi un appuntamento con un certo laico ecclesialmente importante, “uno che ha fatto tanto per le vocazioni”. Bastarono solo alcune settimane per ottenere il permesso di telefonargli. Mi presentai a loro nome, chiedendogli un appuntamento per parlare del mio caso. Me lo fissò a dopo un mese, avrà avuto un’agenda impegni da presidente della repubblica. Finalmente andai da lui, e dopo appena tre quarti d’ora di attesa che i suoi fedelissimi lo rintracciassero nei vasti locali della sede, finalmente mi ricevette in una specie di ufficio-sgabuzzino. Gli esposi brevemente la mia situazione e lui cercando di non farsi notare seccato mi disse: non posso far niente per te. Mi alzo, ringrazio, mi dice: no, aspetta, siediti, parliamo. No, le ho già fatto perdere abbastanza tempo. Lui non insiste troppo con quella ridicola commedia delle formalità e mi lascia andare. Gli amici increduli: ma come? Possibile? Davvero? Niente, proprio niente? Non ti ha suggerito nessun nome e nessun posto? Nemmeno qualche consiglio? Evidentemente la carità va bene solo con quelli del suo club. O forse sarà che un laico, per rimanere ecclesialmente importante, deve evitare di attirarsi le antipatie dei preti a cui può ancora chiedere un favore.
Poi ci fu quel prete che stava costitendo una comunità (sottinteso: è a caccia di vocazioni per far numero). Vado da lui e durante i salamelecchi iniziali scopre con gioia che anni prima avevamo fatto gli esercizi spirituali insieme in quel tal convento. Quindi procede a dirmi che sebbene il sacerdote che mi ha mandato da lui fosse un suo grande amico fin dai tempi del seminario, le vedute sono non proprio coincidenti. Ahi, ahi: la Messa in latino è fumo negli occhi per il pretame postconciliare. Non c’è nemmeno bisogno di nominarla, è lui stesso a menare il can per l’aia per un’ora e un quarto e concludere con arrivederci e grazie. “Ma come, non ti ha nemmeno proposto un periodo di prova?” Nemmeno quello. “Mica hai dato una pessima impressione facendo l’integralista sulla Messa in latino?” Nemmeno nominata. “Eppure la comunità deve crescere, e anche lui sa che le diocesi sono allo sbando”. Certo, ma non ha ritenuto opportuno invitarmi né presentarmi al vescovo, pur nominando diocesi qua e diocesi là, non voleva parlare della comunità.
Un parroco che era stato disposto ad accogliermi per parlare del mio caso volle che rimanessi a dormire lì nella loro sede. Mi diedero una stanza. Dopo le 23 uno della sua comunità, non prete, venne a bussare alla mia porta per chiedermi se tutto andasse bene. Per fortuna ero ancora vestito. Suppongo che si aspettasse qualcosa di più di un gentile ringraziamento e un “buonanotte”. Il giorno dopi il parroco si limitò a dirmi brevemente che se proprio intendevo entrare nella comunità avrei dovuto parlare col suo superiore, quindi sparì per i ben noti impegni pastorali e dimenticò la mia esistenza non appena misi piede fuori da quella casa.
Qualche tempo dopo mi presentai con degli amici ad un vescovo. Il quale subappaltò l’incontro conoscitivo ad uno dei curiali. Il quale, dopo la solita commedia delle trite banalità ci inviò dall’altra parte della diocesi presso una casa di preti. I quali ci aspettavano per pranzo. Mangiammo bene, parlammo del più e del meno, ci portarono in giro a vedere paesino e paesaggi, ma ricordo la loro insistenza con cui parlavano del servizio. Ed il seminarista a loro disposizione, con un sorriso idiota perennemente stampato in faccia per l’abitudine, si affannava ad apparecchiare come alla tavola del re Sole, a lavare con cura tutto il bizantino set di piatti e posate, a preparare pietanze da principessina precisina, per poi passare a stirare, rammendare, mettere ordine, e quindi di corsa in cappella. Scusate, per voi l’ordinazione è il premio per aver espletato minuziosamente per anni la funzione di sguatteri, camerieri e servitù? (No, non fu necessario chiederlo. Però in una piega del discorso trovai modo di dire che avendo in precedenza lavorato e vissuto da solo, ero abituato all’essenziale, alla frugalità, a dedicare il tempo utile alle cose serie... Vederli approntare una specie di pranzo di Natale da film della bambola Barbie con vasta quantità di ninnoli, fronzoli e aggeggini aveva comunque spostato parecchio in alto la lancetta del “sospetto frocerie”).
E ancora, ancora, ancora... Il parroco della chiesa di fianco alla stazione terminale? Era il suo compleanno, offriva dolcetti ai presenti, quando finalmente trovo modo di parlargli mi risponde subito che lui non si occupa di queste cose (già: un prete che non si “occupa” di vocazioni è come uno che si fa castrare per paura di diventar padre)... Il parroco della chiesa-triangolo che non aveva tempo... il passionista nel santuario che evitò di rispondermi... il gesuita che ancor prima di parlare già voleva che io diventassi gesuita (cioè uno come lui, che predica sull’ascolto e poi al momento buono non ascolta)... e tutti gli altri preti letteralmente assenteisti...
“Ma tu non potresti...?” Tutte le volte che mi son dato da fare per dare una risposta concreta a quella domanda peregrina mi è andata male. “Ma non è che il Signore ti sta dicendo un’altra cosa?” No. Se volesse dirmi che non ho la vocazione, dovrebbe parlare con la stessa chiarezza con cui mi ha fatto capire che ce l’ho, e spiegare anche perché avrebbe cambiato idea. Il mio Dio non è un Dio ingannatore, né un sadico che prima ti mette una santa predisposizione e poi si diverte a torturarti.
“Ti faccio conoscere un sacerdote che”. Ma sì, certo, volentieri: finora non ho lasciato nulla di intentato. Ma non sono più tanto propenso a prendere sul serio quelli con la ricetta pronta: “ti porto dal concessionario che conosco solo io, sicuramente ha l’auto che fa per te, l’è rinomato in tutta la contrada, andrà tutto bene... e poi -dai!- devi pur adattarti, non puoi mica chiamare catorcio ogni offertissima che ha per te... la gente oggi abortisce figli per un alluce valgo, e la Chiesa dunque ha il diritto di abortire vocazioni che non siano coincidenti con lo schemino curiale...”
Uno di questi, dopo aver giocato inutilmente le sue carte contro il muro di gomma clericale, tentò infine surrettiziamente di spedirmi tra i laici consacrati. Spiacente, amico, ma io mi sento chiamato al sacerdozio, il mio celibato ha senso solo per questo, non perché io brami di essere una qualsiasi figura di consacrato.
Un altro, che sembrava tanto interessato a sostenere me ed altri, si eclissò da un giorno all’altro, ufficialmente per motivi di studio. Cioè qualcosa o qualcuno lo avevano convinto ad evitare tassativamente di occuparsi di vocazioni. Ricordo una riunione con lui ed altri soggetti: c’era uno che era venuto munito di tutta la documentazione sul suo caso, come se stesse presentandosi ad un vescovo per strappare un sì al volo.
Un altro contava sulla sua imminente nomina a vescovo. Mi aveva confidato che il “prossimo vescovo”, di imminente nomina, era uno di larghe vedute, un tipo sveglio, uno che prende le vocazioni sul serio. Non gli chiesi mai chi fosse, per evitare che fosse tentato di confidarmi il motivo per cui pensava di essere proprio lui in odore di mitria e pastorale. Ma in extremis arrivò a sorpresa la nomina di uno sconosciuto burocrate di curia. Uno di non troppo larghe vedute, non troppo sveglio, e non troppo disposto a prendere le vocazioni sul serio. Così mi fu detto: pazienza, per un po’ di anni la diocesi non cambierà per nulla. Arrivederci e grazie. (Senza dubbio sarei stato fedelissimo al prete-diventato-vescovo-che-mi-accoglie, e viceversa sarebbe stato molto comodo per il neo-vescovo avere almeno un futuro-prete di massima fiducia: dal punto di vista ecclesiale si può dire che lo sconosciuto burocrate eletto in sua vece sia stato svantaggioso per la diocesi?)
“Non posso far altro per te”: quante volte me lo hanno detto. Nessuno dei preti che erano stati disposti ad occuparsi del mio caso era un curiale ammanigliato o uno dei pezzi grossi del parco parroci. Chissà perché.
Fui presentato ad uno che mi accolse subito nel suo ufficio. Mi pregò di sedermi indicandomi la sedia dietro la scrivania. Meccanicamente eseguii, ma mi rialzai come se la sedia fosse in fiamme, cercando di non fargli notare che avevo appena capito che lui non si era ancora seduto perché stava osservando se io avessi rispettato le priorità. Dico sul serio: avevo dedotto (troppo tardi) che era uno attentissimo alla forma. Prima si siede il Superiore, quindi l’Inferiore. Si sedette infine e mi disse che potevo parlare liberamente senza alcun problema, e il colloquio andò abbastanza bene fino al punto in cui nominai la Messa in latino. Continuò a sorridere - ma era evidente che si sforzava di farlo - e mi congedò poco dopo. Nelle settimane successive fu impossibile rintracciarlo telefonicamente. Inutile chiedere in portineria. Inutile chiedere in ufficio. Inutile telefonare.
Dei cari amici insistettero tantissimo affinché prendessi un appuntamento con un certo laico ecclesialmente importante, “uno che ha fatto tanto per le vocazioni”. Bastarono solo alcune settimane per ottenere il permesso di telefonargli. Mi presentai a loro nome, chiedendogli un appuntamento per parlare del mio caso. Me lo fissò a dopo un mese, avrà avuto un’agenda impegni da presidente della repubblica. Finalmente andai da lui, e dopo appena tre quarti d’ora di attesa che i suoi fedelissimi lo rintracciassero nei vasti locali della sede, finalmente mi ricevette in una specie di ufficio-sgabuzzino. Gli esposi brevemente la mia situazione e lui cercando di non farsi notare seccato mi disse: non posso far niente per te. Mi alzo, ringrazio, mi dice: no, aspetta, siediti, parliamo. No, le ho già fatto perdere abbastanza tempo. Lui non insiste troppo con quella ridicola commedia delle formalità e mi lascia andare. Gli amici increduli: ma come? Possibile? Davvero? Niente, proprio niente? Non ti ha suggerito nessun nome e nessun posto? Nemmeno qualche consiglio? Evidentemente la carità va bene solo con quelli del suo club. O forse sarà che un laico, per rimanere ecclesialmente importante, deve evitare di attirarsi le antipatie dei preti a cui può ancora chiedere un favore.
Poi ci fu quel prete che stava costitendo una comunità (sottinteso: è a caccia di vocazioni per far numero). Vado da lui e durante i salamelecchi iniziali scopre con gioia che anni prima avevamo fatto gli esercizi spirituali insieme in quel tal convento. Quindi procede a dirmi che sebbene il sacerdote che mi ha mandato da lui fosse un suo grande amico fin dai tempi del seminario, le vedute sono non proprio coincidenti. Ahi, ahi: la Messa in latino è fumo negli occhi per il pretame postconciliare. Non c’è nemmeno bisogno di nominarla, è lui stesso a menare il can per l’aia per un’ora e un quarto e concludere con arrivederci e grazie. “Ma come, non ti ha nemmeno proposto un periodo di prova?” Nemmeno quello. “Mica hai dato una pessima impressione facendo l’integralista sulla Messa in latino?” Nemmeno nominata. “Eppure la comunità deve crescere, e anche lui sa che le diocesi sono allo sbando”. Certo, ma non ha ritenuto opportuno invitarmi né presentarmi al vescovo, pur nominando diocesi qua e diocesi là, non voleva parlare della comunità.
Un parroco che era stato disposto ad accogliermi per parlare del mio caso volle che rimanessi a dormire lì nella loro sede. Mi diedero una stanza. Dopo le 23 uno della sua comunità, non prete, venne a bussare alla mia porta per chiedermi se tutto andasse bene. Per fortuna ero ancora vestito. Suppongo che si aspettasse qualcosa di più di un gentile ringraziamento e un “buonanotte”. Il giorno dopi il parroco si limitò a dirmi brevemente che se proprio intendevo entrare nella comunità avrei dovuto parlare col suo superiore, quindi sparì per i ben noti impegni pastorali e dimenticò la mia esistenza non appena misi piede fuori da quella casa.
Qualche tempo dopo mi presentai con degli amici ad un vescovo. Il quale subappaltò l’incontro conoscitivo ad uno dei curiali. Il quale, dopo la solita commedia delle trite banalità ci inviò dall’altra parte della diocesi presso una casa di preti. I quali ci aspettavano per pranzo. Mangiammo bene, parlammo del più e del meno, ci portarono in giro a vedere paesino e paesaggi, ma ricordo la loro insistenza con cui parlavano del servizio. Ed il seminarista a loro disposizione, con un sorriso idiota perennemente stampato in faccia per l’abitudine, si affannava ad apparecchiare come alla tavola del re Sole, a lavare con cura tutto il bizantino set di piatti e posate, a preparare pietanze da principessina precisina, per poi passare a stirare, rammendare, mettere ordine, e quindi di corsa in cappella. Scusate, per voi l’ordinazione è il premio per aver espletato minuziosamente per anni la funzione di sguatteri, camerieri e servitù? (No, non fu necessario chiederlo. Però in una piega del discorso trovai modo di dire che avendo in precedenza lavorato e vissuto da solo, ero abituato all’essenziale, alla frugalità, a dedicare il tempo utile alle cose serie... Vederli approntare una specie di pranzo di Natale da film della bambola Barbie con vasta quantità di ninnoli, fronzoli e aggeggini aveva comunque spostato parecchio in alto la lancetta del “sospetto frocerie”).
E ancora, ancora, ancora... Il parroco della chiesa di fianco alla stazione terminale? Era il suo compleanno, offriva dolcetti ai presenti, quando finalmente trovo modo di parlargli mi risponde subito che lui non si occupa di queste cose (già: un prete che non si “occupa” di vocazioni è come uno che si fa castrare per paura di diventar padre)... Il parroco della chiesa-triangolo che non aveva tempo... il passionista nel santuario che evitò di rispondermi... il gesuita che ancor prima di parlare già voleva che io diventassi gesuita (cioè uno come lui, che predica sull’ascolto e poi al momento buono non ascolta)... e tutti gli altri preti letteralmente assenteisti...
“Ma tu non potresti...?” Tutte le volte che mi son dato da fare per dare una risposta concreta a quella domanda peregrina mi è andata male. “Ma non è che il Signore ti sta dicendo un’altra cosa?” No. Se volesse dirmi che non ho la vocazione, dovrebbe parlare con la stessa chiarezza con cui mi ha fatto capire che ce l’ho, e spiegare anche perché avrebbe cambiato idea. Il mio Dio non è un Dio ingannatore, né un sadico che prima ti mette una santa predisposizione e poi si diverte a torturarti.
“Ti faccio conoscere un sacerdote che”. Ma sì, certo, volentieri: finora non ho lasciato nulla di intentato. Ma non sono più tanto propenso a prendere sul serio quelli con la ricetta pronta: “ti porto dal concessionario che conosco solo io, sicuramente ha l’auto che fa per te, l’è rinomato in tutta la contrada, andrà tutto bene... e poi -dai!- devi pur adattarti, non puoi mica chiamare catorcio ogni offertissima che ha per te... la gente oggi abortisce figli per un alluce valgo, e la Chiesa dunque ha il diritto di abortire vocazioni che non siano coincidenti con lo schemino curiale...”
domenica 16 settembre 2018
Uno story telling è finito
Il bergoglismo è finito...[Radiospada]
E badate non è finito per gli inconcludenti dubia, per la repressione dei Francescani dell’Immacolata, per gli erroracci dottrinali (che lo precedono e lo superano). No: è finito perché ha avuto un problema col suo stesso pubblico, quello delle sale d’attesa delle parrucchiere, i teledipendenti, i qualunquisti del bar che “ahò, sto Francè a li potenti nun je piace”, “je fanno beve er caffé de Papa Luciani”, “manco un anno de pontificato je fanno fà”. L’equivalente pseudocattolico del popolo de sinistra. Cui si sommano le perpetue moraliste, ecclesialmente pronte a tutto, a condizione che non ci sia polvere sulle balaustre.
sabato 15 settembre 2018
Quella certezza non condivisa dal vescovo
C'è stato un momento preciso nella mia vita - di cui ricordo benissimo il luogo, il giorno, il minuto - in cui ho capito che quella mia tensione verso il sacerdozio era definitiva. Una tensione che era cresciuta negli anni. Che si era accumulata, stratificata, consolidata. Che riguardava la mia intera vita, senza più alcun dubbio. Che non mi sarei più girato indietro.
La prima volta che mi sono posto qualche domanda seria fu in una piazza davanti alla stazione. Piovigginava ed ero senza ombrello. Era verso il tramonto. C'era stato un incidente pochi istanti prima. Un uomo di mezza età caduto dallo scooter. Era riverso a terra, con la testa insanguinata, balbettava qualcosa. Mi avvicinai a lui per rassicurarlo, non avrei saputo dirgli altro che avrei chiamato subito un'ambulanza. Lui mi afferrò la mano, stringendola con le poche forze che gli rimanevano, come se fosse l'ultima cosa a cui aggrapparsi. Seppi solo ripetergli che stavo chiamando l'ambulanza, ma sentii alle mie spalle uno che diceva di non preoccuparci perché l'aveva appena chiamata.
Restai lì accovacciato per qualche minuto, mentre si formava un capannello, ma lui mollò la presa soltanto nel sentir avvicinarsi la sirena dell'ambulanza. Nel frattempo era riuscito a balbettare solo qualcosa tipo: mia moglie, mio figlio... Gli dissi “coraggio!” e mi allontanai furtivo perché non volevo avere a che fare con la burocrazia, né ritenevo di meritare un premio per avergli pazientemente concesso di aggrapparsi alla mia mano. La pioggia era diventata più insistente, non abbastanza da diluire la pozza di sangue attorno alla sua testa quasi calva. Tornando a casa tutto bagnato mi domandavo perché non ero stato in grado di dargli l'essenziale. Avrei potuto essere un sacerdote pronto a dargli l'unzione, ero solo un ignoto passante che non aveva neppure visto l'incidente e che perciò non doveva tentar nulla. Si sarà salvato? Non dubito che la mia sola presenza lì possa avergli giovato. Ma se al suo posto fosse stato un mio caro o io stesso, sarebbe stato molto meglio un sacerdote pronto a dare gli ultimi sacramenti (anche se l'incidentato li avesse rifiutati: ciò avrebbe comunque scosso l'anima di qualcuno dei presenti). Avrà avuto salva la vita? E l'anima? Per tanti motivi non passai più per quella piazza se non dopo molti mesi. Non c'era più il sangue sull'asfalto. C'era invece la netta percezione che quell'evento e quel punto preciso della piazza parlavano del mio futuro sacerdozio.
Piccoli episodi come quell'incidente, al raccontarli sembrano banali ma ad averli vissuti ti forgiano dentro. Passano gli anni e scopri che la linea che li unisce è davvero il sacerdozio. Nessun miracolismo, nessun apparizionismo, nessuna missione di pastoralato o di neobuonismo clericale. Maturi lentamente la convinzione di essere chiamato, di avere una missione da compiere e nessun alibi per tirarti indietro. Cominci a sbarazzarti degli “ostacoli” e ad accorgerti che nel farlo non ti sembra di esserti sacrificato: erano ostacoli, non erano “ricchezze”.
Così, quando sei al punto che non ne puoi più, che ti sei arreso all'evidenza, che vuoi fare un passo deciso e vai a confermarlo al sacerdote cui ti eri affidato, cosa succede? Che costui dà un bel colpo di freni. E tu che avevi deciso di ubbidirgli a prescindere, lo segui, ubbidisci, anche se il tuo primo passo è un fastidiosissimo star fermi ad aspettare. Passa il tempo e la certezza non accenna a diminuire. Vieni finalmente presentato al vescovo. Il quale ti accoglie sorridendo e ti chiede affabilmente il motivo della visita, come se non lo sapesse. Gli rispondi da uomo, dritto al dunque, senza giri di parole: Eccellenza, sono qui perché desidero accedere al sacerdoz-- “No! Non devi dire così, non si dice così, devi dire: vorrei chiedere di cominciare un periodo di discernimento...” Certo, sì, cominciare, sì, un periodo, certo, di discernimento, sì, infatti è perché sono convinto di essere chiamato al sacerdoz-- “Ho capito, ma non devi dire così, perché il vescovo e l'equipe formativa devono valutare, riflettere, capire, discernere... la vocazione si realizza solo con l'ordinazione...”
Chiaro il sottinteso? Nella neolingua di legno clericale si è autorizzati a usare il termine “vocazione” solo dopo che il vescovo ti ha ordinato al sacerdozio (poco importa se pochi mesi dopo l'ordinazione hai una crisi e abbandoni). Ma allora come avrei dovuto chiamare l'aver raggiunto una certezza sulla mia vita, certezza tale da chiedere al vescovo - e senza neppure un’ombra di dubbio - di diventare sacerdote? Possibile che tutti gli altri che vanno da sua eccellenza sono convinti che un “no” di quest'ultimo implichi che loro si sono sbagliati per tutta la vita? Possibile che tutti gli altri vadano da sua eccellenza non nel momento in cui hanno raggiunto una certezza (che non esclude che qualcosa in futuro possa andar storto, ma parte col piede giusto della certezza), ma già quando durante le attività di parrocchia a furia di veder preti di qua e preti di là si dicono “boh, perché no?” Mistero ancor oggi irrisolto.
Sì, è possibile che quella che io riconosco come certezza non trovi d'accordo il vescovo. Che è libero di non ordinarmi, con o senza ragionevole motivo. Infatti è successo proprio questo. Quando mi ha dimesso dal seminario, gli ho ricordato ancora una volta della mia certezza, del fatto che non mi erano state mai mosse obiezioni riguardanti la fede, la dirittura morale, la chiarezza della chiamata, e gli ho chiesto: visto che lei non mi ritiene adatto a questa diocesi, a quale porta posso bussare? Lui menzionò un paio di ordini religiosi a caso (laddove avrebbe dovuto nominare persone di fiducia), poi soggiunse: anche un'altra diocesi può andar bene.
Avrei dovuto chiedergli: com'è possibile che io sarei adatto al sacerdozio in un'altra diocesi ma non qui? Dunque per lei la vocazione è un fatto geografico? Eleganti e commoventi interventi di pastorale vocazionale e poi mi dice che la mia vocazione qui non va bene ma altrove probabilmente sì? È proprio quella, sì, è l'ideologia conciliare dello stare in mezzo allagggènte che ha fatto abortire tante vocazioni (e che si limita a selezionare ragazzetti indecisi che nel proprio curriculum vocazionale vantano solo l'aver perso un ragguardevole numero di ore nei locali parrocchiali). Il sacerdote deve stare talmente in mezzo allagggènte che uno che non sembra perfettamente intercambiabile con gli altri pagliacci da parrocchia dev'essere brutalmente scaricato, anche se non si trova una scusa decente per dimetterlo.
Doveva essermi padre e guida, è stato il boia. Non importa quali equilibri diocesani desiderava mantenere, quali antipatie non stuzzicare, quali piccoli potentati assecondare. Importa solo il risultato: ha abortito una vocazione (e chissà quante altre), la sua ricompensa sarà adeguata.
La prima volta che mi sono posto qualche domanda seria fu in una piazza davanti alla stazione. Piovigginava ed ero senza ombrello. Era verso il tramonto. C'era stato un incidente pochi istanti prima. Un uomo di mezza età caduto dallo scooter. Era riverso a terra, con la testa insanguinata, balbettava qualcosa. Mi avvicinai a lui per rassicurarlo, non avrei saputo dirgli altro che avrei chiamato subito un'ambulanza. Lui mi afferrò la mano, stringendola con le poche forze che gli rimanevano, come se fosse l'ultima cosa a cui aggrapparsi. Seppi solo ripetergli che stavo chiamando l'ambulanza, ma sentii alle mie spalle uno che diceva di non preoccuparci perché l'aveva appena chiamata.
Restai lì accovacciato per qualche minuto, mentre si formava un capannello, ma lui mollò la presa soltanto nel sentir avvicinarsi la sirena dell'ambulanza. Nel frattempo era riuscito a balbettare solo qualcosa tipo: mia moglie, mio figlio... Gli dissi “coraggio!” e mi allontanai furtivo perché non volevo avere a che fare con la burocrazia, né ritenevo di meritare un premio per avergli pazientemente concesso di aggrapparsi alla mia mano. La pioggia era diventata più insistente, non abbastanza da diluire la pozza di sangue attorno alla sua testa quasi calva. Tornando a casa tutto bagnato mi domandavo perché non ero stato in grado di dargli l'essenziale. Avrei potuto essere un sacerdote pronto a dargli l'unzione, ero solo un ignoto passante che non aveva neppure visto l'incidente e che perciò non doveva tentar nulla. Si sarà salvato? Non dubito che la mia sola presenza lì possa avergli giovato. Ma se al suo posto fosse stato un mio caro o io stesso, sarebbe stato molto meglio un sacerdote pronto a dare gli ultimi sacramenti (anche se l'incidentato li avesse rifiutati: ciò avrebbe comunque scosso l'anima di qualcuno dei presenti). Avrà avuto salva la vita? E l'anima? Per tanti motivi non passai più per quella piazza se non dopo molti mesi. Non c'era più il sangue sull'asfalto. C'era invece la netta percezione che quell'evento e quel punto preciso della piazza parlavano del mio futuro sacerdozio.
Piccoli episodi come quell'incidente, al raccontarli sembrano banali ma ad averli vissuti ti forgiano dentro. Passano gli anni e scopri che la linea che li unisce è davvero il sacerdozio. Nessun miracolismo, nessun apparizionismo, nessuna missione di pastoralato o di neobuonismo clericale. Maturi lentamente la convinzione di essere chiamato, di avere una missione da compiere e nessun alibi per tirarti indietro. Cominci a sbarazzarti degli “ostacoli” e ad accorgerti che nel farlo non ti sembra di esserti sacrificato: erano ostacoli, non erano “ricchezze”.
Così, quando sei al punto che non ne puoi più, che ti sei arreso all'evidenza, che vuoi fare un passo deciso e vai a confermarlo al sacerdote cui ti eri affidato, cosa succede? Che costui dà un bel colpo di freni. E tu che avevi deciso di ubbidirgli a prescindere, lo segui, ubbidisci, anche se il tuo primo passo è un fastidiosissimo star fermi ad aspettare. Passa il tempo e la certezza non accenna a diminuire. Vieni finalmente presentato al vescovo. Il quale ti accoglie sorridendo e ti chiede affabilmente il motivo della visita, come se non lo sapesse. Gli rispondi da uomo, dritto al dunque, senza giri di parole: Eccellenza, sono qui perché desidero accedere al sacerdoz-- “No! Non devi dire così, non si dice così, devi dire: vorrei chiedere di cominciare un periodo di discernimento...” Certo, sì, cominciare, sì, un periodo, certo, di discernimento, sì, infatti è perché sono convinto di essere chiamato al sacerdoz-- “Ho capito, ma non devi dire così, perché il vescovo e l'equipe formativa devono valutare, riflettere, capire, discernere... la vocazione si realizza solo con l'ordinazione...”
Chiaro il sottinteso? Nella neolingua di legno clericale si è autorizzati a usare il termine “vocazione” solo dopo che il vescovo ti ha ordinato al sacerdozio (poco importa se pochi mesi dopo l'ordinazione hai una crisi e abbandoni). Ma allora come avrei dovuto chiamare l'aver raggiunto una certezza sulla mia vita, certezza tale da chiedere al vescovo - e senza neppure un’ombra di dubbio - di diventare sacerdote? Possibile che tutti gli altri che vanno da sua eccellenza sono convinti che un “no” di quest'ultimo implichi che loro si sono sbagliati per tutta la vita? Possibile che tutti gli altri vadano da sua eccellenza non nel momento in cui hanno raggiunto una certezza (che non esclude che qualcosa in futuro possa andar storto, ma parte col piede giusto della certezza), ma già quando durante le attività di parrocchia a furia di veder preti di qua e preti di là si dicono “boh, perché no?” Mistero ancor oggi irrisolto.
Sì, è possibile che quella che io riconosco come certezza non trovi d'accordo il vescovo. Che è libero di non ordinarmi, con o senza ragionevole motivo. Infatti è successo proprio questo. Quando mi ha dimesso dal seminario, gli ho ricordato ancora una volta della mia certezza, del fatto che non mi erano state mai mosse obiezioni riguardanti la fede, la dirittura morale, la chiarezza della chiamata, e gli ho chiesto: visto che lei non mi ritiene adatto a questa diocesi, a quale porta posso bussare? Lui menzionò un paio di ordini religiosi a caso (laddove avrebbe dovuto nominare persone di fiducia), poi soggiunse: anche un'altra diocesi può andar bene.
Avrei dovuto chiedergli: com'è possibile che io sarei adatto al sacerdozio in un'altra diocesi ma non qui? Dunque per lei la vocazione è un fatto geografico? Eleganti e commoventi interventi di pastorale vocazionale e poi mi dice che la mia vocazione qui non va bene ma altrove probabilmente sì? È proprio quella, sì, è l'ideologia conciliare dello stare in mezzo allagggènte che ha fatto abortire tante vocazioni (e che si limita a selezionare ragazzetti indecisi che nel proprio curriculum vocazionale vantano solo l'aver perso un ragguardevole numero di ore nei locali parrocchiali). Il sacerdote deve stare talmente in mezzo allagggènte che uno che non sembra perfettamente intercambiabile con gli altri pagliacci da parrocchia dev'essere brutalmente scaricato, anche se non si trova una scusa decente per dimetterlo.
Doveva essermi padre e guida, è stato il boia. Non importa quali equilibri diocesani desiderava mantenere, quali antipatie non stuzzicare, quali piccoli potentati assecondare. Importa solo il risultato: ha abortito una vocazione (e chissà quante altre), la sua ricompensa sarà adeguata.
mercoledì 12 settembre 2018
“Vattene da Lefebvre”, proprio perché conoscono il penoso stato degli istituti tradizionalisti
Nella legnosa neolingua ecclesiale ci sono tanti modi per sputare sulle vocazioni dicendo l’equivalente di “vattene da Lefebvre”. Che poi sono tutte la chiara ammissione che Concilio e postconcilio sono stati una deviazione, altrimenti non sarebbe stato uno sprezzante vattene, ma come minimo un paterno “nella Chiesa c’è sempre posto per te, te lo troveremo”.
Dopo quarant’anni di deviazione finalmente Benedetto XVI ammise che «ciò che per le generazioni anteriori era sacro... non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Parole al vento, specialmente nel corrente pontificato (qualche sacerdote mi confidava che finché l’argentino è regnante non ci sono speranze per vocazioni come la mia).
La riserva indiana degli istituti tradizionalisti ha almeno un paio di problemi seri: uno esterno, l’essere perennemente malvisti dalla Chiesa deviata postconciliare (non importa quanta ubbidienza filiale) ed uno interno, il cinquantismo innato. Nel primo caso, se ti mandano un cardinale massone a farti da consigliere o commissario, o se ti fanno rientrare da finestra le deviazioni che avevi messo alla porta, o se ti ostacolano in ogni modo, puoi far ben poco, anzi, devi addirittura sceneggiare (e in modo credibile) gioia ed entusiasmo, altrimenti non ti staccherai più le nere etichette di disobbediente, indocile, ribelle...
Nel secondo caso l’illusione che stile e metodi degli anni `50 siano la perfezione da raggiungere ha prodotto un postconciliarismo di diverso colore: come uno che avendo caldo alla testa risolve infilando i piedi nel freezer. Così finisce che nei seminari delle realtà tradizionali troviamo gli stessi problemi dei seminari postconciliari: la tentazione di dover formare dei robot (sia pure con talare e latino), la semi-invisibile caccia alle streghe su qualsiasi minuzia etichettabile come “poco sacerdotale”, i superiori che sono più kapò/burocrati/poliziotti che padri, il conseguente considerare la vocazione al sacerdozio come un mestiere (soggetto a controlli produttività altrimenti sei un pelandrone)... Ci sono tanti modi calpestare la virtù della carità, e uno di questi è il fingere che quegli istituti, in qualità di ultima ancora di salvezza dal postconciliarismo, restino al di sopra di ogni osservazione critica.
C’è un terzo problema: quello geografico e linguistico. Tutte quelle realtà funzionano in francese o altra lingua straniera, anche se dislocate in territorio italiano. Sono realtà straniere gestite da stranieri con mentalità straniera. Per entrare nell'istituto la tua vocazione al sacerdozio deve prima diventar francese o cos’altro. Devi dimenticare di essere italiano, dimenticare l’Italia, dimenticare tutti gli italiani a partire dalla tua famiglia, e parti comunque con l’etichetta di mammone attaccato a mammà e al paesello natìo tutto pizza spaghetti e lasagne, e che perciò non sarai mai sinceramente legato all’istituto. Sei “l’immigrato negro” al quale non si possono fare sconti. Ah, ti abbiamo già colto in castagna: all'anniversario di Luigi XVI non versavi lacrime! (Non è una boutade).
L’obiezione più comune è che basta studiare la loro lingua per qualche tempo. Tale concentrato di stupidità abbisogna di qualche spiegazione.
Anzitutto la padronanza di una lingua si acquisisce nei decenni. Non puoi essere come il tipico adolescente ignorante il cui vocabolario è limitato a trecento parole di cui metà relative a sport e videogiochi. La vita sacerdotale richiede una buona padronanza della lingua perché piccole sfumature comportano serie differenze. Inoltre, scritto e parlato sono due lingue sottilmente diverse. Se in confessionale rispondi con un avverbio piuttosto che un altro, un sinonimo più pesante di un altro, un aggettivo correttamente tradotto ma che in italiano suona meno sarcastico, potresti aver danneggiato gravemente un’anima. E poi la lingua è anche l'intercalare, le pause, i sottintesi, la comunicazione non verbale... Finché non padroneggi la lingua, le tue omelie e catechesi e direzione spirituale saranno solo un fastidioso elenco di frasi fatte. Vorrai mica rischiare di proferire eresie a causa di un accento fuori posto o di una proposizione mancante? È come essere costretti ad andare in missione controvoglia. No, non dipende dall’età o dalla bravura o dal possibile aver già studiato a scuola quella lingua.
Non c’è solo la lingua. C’è anche il cibo. Il clima. La mentalità. L’igiene. Un amico entra lì al primo anno tutto entusiasta e come benvenuto si becca una diarrea: lo stomaco straniero sarà evidentemente più efficiente di quello italiano. Clima freddo e umido, nonostante le coperte arriva ovviamente un febbrone da cavallo: resta solo come un cane perché i commilitoni sono sommersi dagli impegni del seminario e pensano che tanto ci sarà sicuramente “qualcun altro” a fargli visita e a chiedergli se ha bisogno di una bottiglia d’acqua (a proposito: sarà lecito detenere una bottiglia d’acqua in camera? non è una domanda stupida). Fingiamo di non notare la puzza nei bagni e la non proprio lodevole attitudine all’igiene personale dei commilitoni (e hanno pure il turno in cucina...) Quindi i superiori che lo trattano come un minus habens perché non parla perfettamente la lingua e viste le assenze dalle lezioni e qualche mancato turno di pulizie gli “consigliano” di prendersi un “periodo di riflessione”. Neanche un mese ed è già stato messo alla porta: “questo non è mica un albergo”. Gli stessi vizietti dei seminari conciliari, con la differenza che stavolta c’è la talare e il latino. Schizzinosi sulle vocazioni, kapò anziché padri, illusione che il prete perfetto è frutto di elaborati regolamenti, “formazione” che anziché consistere nell’accendere un fuoco è ridotta a riempire un secchio. Proprio come nei seminari conciliari.
Non si può rimproverar troppo a quegli istituti di non aver costituito in Italia una casa di formazione finalizzata a sfornare preti italiani. Nonostante sia il paese che ha per centro la Santa Sede conta tuttora zero seminari tradizionalisti prettamente italiani. Certo, quegli istituti non sono nati da italiani, né sarebbero tenuti ad occuparsi di ogni paese che conti almeno 50 milioni di anime. Certo, aprire una sede comporta dei costi, e un seminario comporta costi trenta volte maggiori, senza contare le guerre che ti faranno vescovi e clero. Queste cose sono note. Le sanno soprattutto coloro che ti cantano il motivetto del “vattene da Lefebvre”.
Queste brevi considerazioni non possono essere scalfite dai fervorini sul pregare per le vocazioni e per la Chiesa, dalla quantità di presunto pessimismo rilevato dagli addetti ai lavori o sedicenti tali, dalle eleganti circonvoluzioni retoriche che nascondono le solite fallacie logiche, dalle formulette magiche che farfugliando di Provvidenza, di adorazione eucaristica, di Imitazione di Cristo, permettono di fuggire celermente dal doloroso discorso.
Dopo quarant’anni di deviazione finalmente Benedetto XVI ammise che «ciò che per le generazioni anteriori era sacro... non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Parole al vento, specialmente nel corrente pontificato (qualche sacerdote mi confidava che finché l’argentino è regnante non ci sono speranze per vocazioni come la mia).
La riserva indiana degli istituti tradizionalisti ha almeno un paio di problemi seri: uno esterno, l’essere perennemente malvisti dalla Chiesa deviata postconciliare (non importa quanta ubbidienza filiale) ed uno interno, il cinquantismo innato. Nel primo caso, se ti mandano un cardinale massone a farti da consigliere o commissario, o se ti fanno rientrare da finestra le deviazioni che avevi messo alla porta, o se ti ostacolano in ogni modo, puoi far ben poco, anzi, devi addirittura sceneggiare (e in modo credibile) gioia ed entusiasmo, altrimenti non ti staccherai più le nere etichette di disobbediente, indocile, ribelle...
Nel secondo caso l’illusione che stile e metodi degli anni `50 siano la perfezione da raggiungere ha prodotto un postconciliarismo di diverso colore: come uno che avendo caldo alla testa risolve infilando i piedi nel freezer. Così finisce che nei seminari delle realtà tradizionali troviamo gli stessi problemi dei seminari postconciliari: la tentazione di dover formare dei robot (sia pure con talare e latino), la semi-invisibile caccia alle streghe su qualsiasi minuzia etichettabile come “poco sacerdotale”, i superiori che sono più kapò/burocrati/poliziotti che padri, il conseguente considerare la vocazione al sacerdozio come un mestiere (soggetto a controlli produttività altrimenti sei un pelandrone)... Ci sono tanti modi calpestare la virtù della carità, e uno di questi è il fingere che quegli istituti, in qualità di ultima ancora di salvezza dal postconciliarismo, restino al di sopra di ogni osservazione critica.
C’è un terzo problema: quello geografico e linguistico. Tutte quelle realtà funzionano in francese o altra lingua straniera, anche se dislocate in territorio italiano. Sono realtà straniere gestite da stranieri con mentalità straniera. Per entrare nell'istituto la tua vocazione al sacerdozio deve prima diventar francese o cos’altro. Devi dimenticare di essere italiano, dimenticare l’Italia, dimenticare tutti gli italiani a partire dalla tua famiglia, e parti comunque con l’etichetta di mammone attaccato a mammà e al paesello natìo tutto pizza spaghetti e lasagne, e che perciò non sarai mai sinceramente legato all’istituto. Sei “l’immigrato negro” al quale non si possono fare sconti. Ah, ti abbiamo già colto in castagna: all'anniversario di Luigi XVI non versavi lacrime! (Non è una boutade).
L’obiezione più comune è che basta studiare la loro lingua per qualche tempo. Tale concentrato di stupidità abbisogna di qualche spiegazione.
Anzitutto la padronanza di una lingua si acquisisce nei decenni. Non puoi essere come il tipico adolescente ignorante il cui vocabolario è limitato a trecento parole di cui metà relative a sport e videogiochi. La vita sacerdotale richiede una buona padronanza della lingua perché piccole sfumature comportano serie differenze. Inoltre, scritto e parlato sono due lingue sottilmente diverse. Se in confessionale rispondi con un avverbio piuttosto che un altro, un sinonimo più pesante di un altro, un aggettivo correttamente tradotto ma che in italiano suona meno sarcastico, potresti aver danneggiato gravemente un’anima. E poi la lingua è anche l'intercalare, le pause, i sottintesi, la comunicazione non verbale... Finché non padroneggi la lingua, le tue omelie e catechesi e direzione spirituale saranno solo un fastidioso elenco di frasi fatte. Vorrai mica rischiare di proferire eresie a causa di un accento fuori posto o di una proposizione mancante? È come essere costretti ad andare in missione controvoglia. No, non dipende dall’età o dalla bravura o dal possibile aver già studiato a scuola quella lingua.
Non c’è solo la lingua. C’è anche il cibo. Il clima. La mentalità. L’igiene. Un amico entra lì al primo anno tutto entusiasta e come benvenuto si becca una diarrea: lo stomaco straniero sarà evidentemente più efficiente di quello italiano. Clima freddo e umido, nonostante le coperte arriva ovviamente un febbrone da cavallo: resta solo come un cane perché i commilitoni sono sommersi dagli impegni del seminario e pensano che tanto ci sarà sicuramente “qualcun altro” a fargli visita e a chiedergli se ha bisogno di una bottiglia d’acqua (a proposito: sarà lecito detenere una bottiglia d’acqua in camera? non è una domanda stupida). Fingiamo di non notare la puzza nei bagni e la non proprio lodevole attitudine all’igiene personale dei commilitoni (e hanno pure il turno in cucina...) Quindi i superiori che lo trattano come un minus habens perché non parla perfettamente la lingua e viste le assenze dalle lezioni e qualche mancato turno di pulizie gli “consigliano” di prendersi un “periodo di riflessione”. Neanche un mese ed è già stato messo alla porta: “questo non è mica un albergo”. Gli stessi vizietti dei seminari conciliari, con la differenza che stavolta c’è la talare e il latino. Schizzinosi sulle vocazioni, kapò anziché padri, illusione che il prete perfetto è frutto di elaborati regolamenti, “formazione” che anziché consistere nell’accendere un fuoco è ridotta a riempire un secchio. Proprio come nei seminari conciliari.
Non si può rimproverar troppo a quegli istituti di non aver costituito in Italia una casa di formazione finalizzata a sfornare preti italiani. Nonostante sia il paese che ha per centro la Santa Sede conta tuttora zero seminari tradizionalisti prettamente italiani. Certo, quegli istituti non sono nati da italiani, né sarebbero tenuti ad occuparsi di ogni paese che conti almeno 50 milioni di anime. Certo, aprire una sede comporta dei costi, e un seminario comporta costi trenta volte maggiori, senza contare le guerre che ti faranno vescovi e clero. Queste cose sono note. Le sanno soprattutto coloro che ti cantano il motivetto del “vattene da Lefebvre”.
Queste brevi considerazioni non possono essere scalfite dai fervorini sul pregare per le vocazioni e per la Chiesa, dalla quantità di presunto pessimismo rilevato dagli addetti ai lavori o sedicenti tali, dalle eleganti circonvoluzioni retoriche che nascondono le solite fallacie logiche, dalle formulette magiche che farfugliando di Provvidenza, di adorazione eucaristica, di Imitazione di Cristo, permettono di fuggire celermente dal doloroso discorso.
lunedì 10 settembre 2018
Perché la Messa tradizionale in latino?
Considerate le circostanze attuali, avrei dovuto specificare un punto 7: "la Messa in latino non è peccato mortale e nemmeno veniale". Infatti, di fronte alla devastazione prodotta dal postconcilio e persino di fronte ai recenti scandali i vescovi sarebbero più disposti a concedere libertà di perversione sessuale piuttosto che libertà di Messa in latino.
La Messa che intendi celebrare è quella che descrive la tua vocazione al sacerdozio.
Nell'entrare in seminario ero convinto che da sacerdote avrei celebrato degnamente il Novus Ordo, presidiato il confessionale ogni giorno, collaborato alle attività parrocchiali e diocesane dando spazio ed enfasi a tutto ciò che poteva portare le anime a Dio e, dettaglio conosciuto solo dal direttore spirituale, qualche volta celebrato - in privato, ma anche no - in latino. Ubbidienza sì, ma non come un robot.
Già dai primi giorni del seminario compresi che la via era invece tutta in salita. Volevano proprio un robot. Un robot intercambiabile con gli altri. Come se le cinque casalinghe del vicinato avessero in comune tre caffettiere moka e si accordassero per scambiarsele continuamente esigendo sempre la stessa qualità di caffè, guai a proporre un caffè migliore o una macchinetta diversa. Così pure i vescovi: scarseggiano le vocazioni e il valzer delle nomine a parroco può funzionare solo se tutti i preti hanno lo stesso identico grado di mediocrità, professano le stesse castronerie, portano avanti le stesse cazzate. Guai ad avere un prete che celebra principalmente in latino, guai ad avere un prete che non vuol concedere la comunione sulle mani, ma che dico? guai ad avere un prete vestito da prete...
Vogliono proprio un robot. Perciò la formazione in seminario non è formazione (dar forma a ciò che è ancora informe), non è educazione (da ex-duco: tirar fuori da te il meglio di te), ma è solo il tempo dei ricatti e dell'appiattimento. Una volta che ti hanno dato il sacerdozio, diventa infatti "complicato" togliertelo o metterti a tacere, cioè diventa complicato ricattarti. Guai a non essere super-arci-stra-iper-sicurissimi che il soggetto da ordinare non detesti la Messa in latino. Guai se il soggetto nutre qualche minimo dubbio sulla comunione sulle mani.
Tutta la formazione (non solo la vita di seminario) è un continuo indagare sui candidati per capire se sono compatibili col “progetto checca da parrocchia” inderogabilmente desiderato dai vescovi (cosa che può includere mobbing e metodi da Gulag, ma sempre con ampi sorrisi). Fin dal primo anno rischi che possa essere anche l'ultimo. Fin dal secondo anno c'è sempre il sottinteso che alla prossima tornata di ministeri istituiti rischi di essere spettatore. Poi il sottinteso del possibile rinvio del diaconato. Quindi il sottinteso del rinvio dell'ordinazione (immaginatevelo, un diacono - che non è né carne né pesce - che si vede rinviare il sacerdozio e son due anni che tenta di apparire come il perfetto pecorone approvabile dalla curia e da sua eccellenza monsignor vescovo, e fino al giorno prima del sacerdozio ha sempre ragionevoli motivi di temere che gli faranno qualche scherzetto dell'ultimo momento). Così va a finire che un gay efebofilo pedofilo rischia di essere ordinato davvero, mentre uno che viene sospettato di sperare di celebrare la Messa tradizionale - pur senza intendere disubbidienza al vescovo e ai superiori - viene scacciato con una scusa o indotto sottilmente, giorno per giorno, lungo i mesi e gli anni, in uno scenario da “1984” di Orwell, ad abbandonare.
Con rarissime eccezioni il sacerdozio postconciliare è una guerra aperta contro quella Messa. L'ordinazione pare anzitutto la certificazione che il candidato è un manager di centro sociale per anziani (vestito in modo sciatto come uno di loro), un pagliaccio esperto in convenevoli e sdolcinature da parrocchia (“lagggènte questo vuole!”), uno svenevole impiegato del sacro che sospirando nomina continuamente un mai meglio precisato “Signore Dio”, stando attentissimo a non offendere nessuna delle numerose categorie di permalosi che si aggirano per il mondo e magari anche fingendo di essere severo e solenne quando declama quelle formule stantìe.
Di quella guerra aperta io sono una delle vittime. Stavo chiedendo il sacerdozio a gente che parlava solo di presbiterato. “Presbitero”, cioè anziano, che celebra non il sacrificio eucaristico ma in mezzo all'assemblea presiede la sacra sinassi. Presbitero, anzi, parroco: garantire la continuità dell'insipido servizio pastorale attualmente fornito, stare in mezzo allagggènte senza preoccuparsi troppo della vera fede per la quale i martiri hanno volentieri effuso il proprio sangue e della vera liturgia che li aveva spiritualmente sostenuti.
La mia vocazione non era stata un frutto della parrocchia o delle pastorali vocazionali. Avevo realizzato di essere chiamato al sacerdozio perché ho incontrato qualche buon sacerdote e qualche anima consacrata che faceva sul serio. Mi ero illuso che in seminario tutto sommato ci si preparasse con gioia ed entusiasmo. Mi ero illuso che il mio servizio nelle sinistrate e sinistre parrocchie potesse essere occasione per portarvi qualcosa di buono. Invece, cocente delusione: il seminario era un Gulag dove devi tenere il contegno da mediocre clown che aspira a nuove vette di mediocrità, mentre la parrocchia è il luogo dove esercitare quella mediocrità proseguendo lo scempio condotto dal parroco e da quei parrocchiani desiderosi di crescere non nella fede ma nel protagonismo, ed in entrambi i luoghi era materialmente impossibile avere una Messa Novus Ordo celebrata con vera dignità e solennità.
Già al primo anno di seminario mi ritrovavo a dire al direttore spirituale quanto stavo sopportando in vista del sacerdozio, un investimento che speravo avrei ricuperato a partire dalla celebrazione della mia prima Messa il mattino dopo l'ordinazione... Scacciato dalla mia diocesi e approdato altrove, nonostante l'esperienza accumulata vissi lo stesso fallimento: non importa quanto sei bravo e zelante nell'ubbidire, non fa testo il tuo sforzo di andare incontro ad ogni loro richiesta implicita o esplicita, non conta quanto riesci ad accontentarli o deliziarli, intuiscono presto che ti piace la Messa tradizionale e che non sei manipolabile: la tua carriera è compromessa. E quel dolore cresce anche se continui a ripeterti che prima o poi il Signore dovrà ripagartelo con gli interessi.
Perché non sono disposto a rinunciare alla Messa tradizionale nella mia futura (eventuale) vita sacerdotale? Per incancellabile esperienza. Una volta assaggiata, col passare degli anni cominci ad apprezzare la Messa in latino perché la lingua sacra è un potente freno alla banalizzazione. Invece delle checche ciarliere e canterine, vedi il culto a Dio gradito. Ti accorgi che certe sagre del kitsch sono impossibili nella Messa tradizionale. Noti che in quest'ultima il silenzio è davvero silenzio anziché la pausa tra due sketch da bimbi scemi. Scopri i significati, gusti l'atmosfera (in altre parole: preghi davvero), ti accorgi che non c'è spazio per le chiacchiere (la "preghiera dei fedeli", per come viene fatta oggi, è un omaggio al demonio: per questo l'hanno infilata anche nel breviario, le ridicole Invocazioni), cominci a desiderarla, ti ritrovi a pensare che da sacerdote tenterai di introdurla in parrocchia e...
...e a un certo punto ti rendi conto che stai sopportando la Messa moderna (anche quando celebrata con decenza) e che ti gusti solo quella tradizionale. Scopri che tutto ciò che desideravi per la Messa moderna, quella tradizionale ce l'ha già. Ti accorgi che quella sublimità, quella solennità, quella virilità, quella serietà, quell'unico culto a Te gradito è in ogni singola riga di quella Messa tradizionale, e che una volta giunto al sacerdozio e agli incarichi nelle parrocchie non avresti potuto far altro che sforzarti di celebrare quella moderna in modo da farla sembrare il più possibile tradizionale, mentre ti rendi conto che avresti dovuto pure lottare con quei fedeli che credono che la Messa sia una specie di recita scolastica o talk show dove ognuno deve avere il suo minutino da protagonista e dove tutti si applaudono a vicenda.
Infine, la doccia gelata: non sei libero di ammettere che la Messa tradizionale ti nutre più di quella "nuova", né col direttore spirituale, che banalizzerebbe, né coi commilitoni, che nel migliore dei casi te lo etichetterebbero come bigotteria e nel peggiore ti denuncerebbero subito ai superiori, né con animatori di seminario, rettore e vescovo, perché ti dichiarerebbero irrimediabilmente inadatto al sacerdozio poiché lagggènte "vuole" (sic) la Messa in italiano, "vattene da Lefebvre se ti interessa l'altra Messa".
Non è questione di latinorum, di estetica, di cinquantismo (come se gli anni 1950 potessero tornare davvero)... ma è quello che ho realizzato nel tentare di dare del mio meglio a questa Chiesa postconciliare, e che forse non avrei scoperto se la Messa moderna fosse stata celebrata frequentemente in modo impeccabile. Della Messa tradizionale non ne riesco più a fare a meno. Mi sento oggi profondamente a disagio quando entro in una chiesa a visitare il Santissimo venendo accolto dai trascinati belati di fedeli e preti declamanti parole che in italiano suonano sempre più ambigue.
Non mi sono convertito alla Messa tradizionale da un giorno all’altro. La mia convinzione è maturata lungo gli anni di seminario ed è il motivo per cui dopo che la diocesi abortì ingiustamente il mio percorso verso il sacerdozio ho cercato accoglienza solo presso comunità dotate normalmente anche della Messa tradizionale. Ritengo tempo perso e autolesionismo, oggi, il tentare di entrare in un seminario o società sacerdotale o convento dove quella è al più un generoso favore anziché un insindacabile diritto garantito fin dal primo giorno. E ritengo una battaglia persa quella dei vescovi che si affannano (eufemismo) con la pastorale vocazionale ma considerano inaccettabile (non eufemismo) che un aspirante sacerdote si senta chiamato a celebrare principalmente (o addirittura esclusivamente) quella liturgia che non era stata mai abolita.
La Messa che intendi celebrare è quella che descrive la tua vocazione al sacerdozio.
Nell'entrare in seminario ero convinto che da sacerdote avrei celebrato degnamente il Novus Ordo, presidiato il confessionale ogni giorno, collaborato alle attività parrocchiali e diocesane dando spazio ed enfasi a tutto ciò che poteva portare le anime a Dio e, dettaglio conosciuto solo dal direttore spirituale, qualche volta celebrato - in privato, ma anche no - in latino. Ubbidienza sì, ma non come un robot.
Già dai primi giorni del seminario compresi che la via era invece tutta in salita. Volevano proprio un robot. Un robot intercambiabile con gli altri. Come se le cinque casalinghe del vicinato avessero in comune tre caffettiere moka e si accordassero per scambiarsele continuamente esigendo sempre la stessa qualità di caffè, guai a proporre un caffè migliore o una macchinetta diversa. Così pure i vescovi: scarseggiano le vocazioni e il valzer delle nomine a parroco può funzionare solo se tutti i preti hanno lo stesso identico grado di mediocrità, professano le stesse castronerie, portano avanti le stesse cazzate. Guai ad avere un prete che celebra principalmente in latino, guai ad avere un prete che non vuol concedere la comunione sulle mani, ma che dico? guai ad avere un prete vestito da prete...
Vogliono proprio un robot. Perciò la formazione in seminario non è formazione (dar forma a ciò che è ancora informe), non è educazione (da ex-duco: tirar fuori da te il meglio di te), ma è solo il tempo dei ricatti e dell'appiattimento. Una volta che ti hanno dato il sacerdozio, diventa infatti "complicato" togliertelo o metterti a tacere, cioè diventa complicato ricattarti. Guai a non essere super-arci-stra-iper-sicurissimi che il soggetto da ordinare non detesti la Messa in latino. Guai se il soggetto nutre qualche minimo dubbio sulla comunione sulle mani.
Tutta la formazione (non solo la vita di seminario) è un continuo indagare sui candidati per capire se sono compatibili col “progetto checca da parrocchia” inderogabilmente desiderato dai vescovi (cosa che può includere mobbing e metodi da Gulag, ma sempre con ampi sorrisi). Fin dal primo anno rischi che possa essere anche l'ultimo. Fin dal secondo anno c'è sempre il sottinteso che alla prossima tornata di ministeri istituiti rischi di essere spettatore. Poi il sottinteso del possibile rinvio del diaconato. Quindi il sottinteso del rinvio dell'ordinazione (immaginatevelo, un diacono - che non è né carne né pesce - che si vede rinviare il sacerdozio e son due anni che tenta di apparire come il perfetto pecorone approvabile dalla curia e da sua eccellenza monsignor vescovo, e fino al giorno prima del sacerdozio ha sempre ragionevoli motivi di temere che gli faranno qualche scherzetto dell'ultimo momento). Così va a finire che un gay efebofilo pedofilo rischia di essere ordinato davvero, mentre uno che viene sospettato di sperare di celebrare la Messa tradizionale - pur senza intendere disubbidienza al vescovo e ai superiori - viene scacciato con una scusa o indotto sottilmente, giorno per giorno, lungo i mesi e gli anni, in uno scenario da “1984” di Orwell, ad abbandonare.
Con rarissime eccezioni il sacerdozio postconciliare è una guerra aperta contro quella Messa. L'ordinazione pare anzitutto la certificazione che il candidato è un manager di centro sociale per anziani (vestito in modo sciatto come uno di loro), un pagliaccio esperto in convenevoli e sdolcinature da parrocchia (“lagggènte questo vuole!”), uno svenevole impiegato del sacro che sospirando nomina continuamente un mai meglio precisato “Signore Dio”, stando attentissimo a non offendere nessuna delle numerose categorie di permalosi che si aggirano per il mondo e magari anche fingendo di essere severo e solenne quando declama quelle formule stantìe.
Di quella guerra aperta io sono una delle vittime. Stavo chiedendo il sacerdozio a gente che parlava solo di presbiterato. “Presbitero”, cioè anziano, che celebra non il sacrificio eucaristico ma in mezzo all'assemblea presiede la sacra sinassi. Presbitero, anzi, parroco: garantire la continuità dell'insipido servizio pastorale attualmente fornito, stare in mezzo allagggènte senza preoccuparsi troppo della vera fede per la quale i martiri hanno volentieri effuso il proprio sangue e della vera liturgia che li aveva spiritualmente sostenuti.
La mia vocazione non era stata un frutto della parrocchia o delle pastorali vocazionali. Avevo realizzato di essere chiamato al sacerdozio perché ho incontrato qualche buon sacerdote e qualche anima consacrata che faceva sul serio. Mi ero illuso che in seminario tutto sommato ci si preparasse con gioia ed entusiasmo. Mi ero illuso che il mio servizio nelle sinistrate e sinistre parrocchie potesse essere occasione per portarvi qualcosa di buono. Invece, cocente delusione: il seminario era un Gulag dove devi tenere il contegno da mediocre clown che aspira a nuove vette di mediocrità, mentre la parrocchia è il luogo dove esercitare quella mediocrità proseguendo lo scempio condotto dal parroco e da quei parrocchiani desiderosi di crescere non nella fede ma nel protagonismo, ed in entrambi i luoghi era materialmente impossibile avere una Messa Novus Ordo celebrata con vera dignità e solennità.
Già al primo anno di seminario mi ritrovavo a dire al direttore spirituale quanto stavo sopportando in vista del sacerdozio, un investimento che speravo avrei ricuperato a partire dalla celebrazione della mia prima Messa il mattino dopo l'ordinazione... Scacciato dalla mia diocesi e approdato altrove, nonostante l'esperienza accumulata vissi lo stesso fallimento: non importa quanto sei bravo e zelante nell'ubbidire, non fa testo il tuo sforzo di andare incontro ad ogni loro richiesta implicita o esplicita, non conta quanto riesci ad accontentarli o deliziarli, intuiscono presto che ti piace la Messa tradizionale e che non sei manipolabile: la tua carriera è compromessa. E quel dolore cresce anche se continui a ripeterti che prima o poi il Signore dovrà ripagartelo con gli interessi.
Perché non sono disposto a rinunciare alla Messa tradizionale nella mia futura (eventuale) vita sacerdotale? Per incancellabile esperienza. Una volta assaggiata, col passare degli anni cominci ad apprezzare la Messa in latino perché la lingua sacra è un potente freno alla banalizzazione. Invece delle checche ciarliere e canterine, vedi il culto a Dio gradito. Ti accorgi che certe sagre del kitsch sono impossibili nella Messa tradizionale. Noti che in quest'ultima il silenzio è davvero silenzio anziché la pausa tra due sketch da bimbi scemi. Scopri i significati, gusti l'atmosfera (in altre parole: preghi davvero), ti accorgi che non c'è spazio per le chiacchiere (la "preghiera dei fedeli", per come viene fatta oggi, è un omaggio al demonio: per questo l'hanno infilata anche nel breviario, le ridicole Invocazioni), cominci a desiderarla, ti ritrovi a pensare che da sacerdote tenterai di introdurla in parrocchia e...
...e a un certo punto ti rendi conto che stai sopportando la Messa moderna (anche quando celebrata con decenza) e che ti gusti solo quella tradizionale. Scopri che tutto ciò che desideravi per la Messa moderna, quella tradizionale ce l'ha già. Ti accorgi che quella sublimità, quella solennità, quella virilità, quella serietà, quell'unico culto a Te gradito è in ogni singola riga di quella Messa tradizionale, e che una volta giunto al sacerdozio e agli incarichi nelle parrocchie non avresti potuto far altro che sforzarti di celebrare quella moderna in modo da farla sembrare il più possibile tradizionale, mentre ti rendi conto che avresti dovuto pure lottare con quei fedeli che credono che la Messa sia una specie di recita scolastica o talk show dove ognuno deve avere il suo minutino da protagonista e dove tutti si applaudono a vicenda.
Infine, la doccia gelata: non sei libero di ammettere che la Messa tradizionale ti nutre più di quella "nuova", né col direttore spirituale, che banalizzerebbe, né coi commilitoni, che nel migliore dei casi te lo etichetterebbero come bigotteria e nel peggiore ti denuncerebbero subito ai superiori, né con animatori di seminario, rettore e vescovo, perché ti dichiarerebbero irrimediabilmente inadatto al sacerdozio poiché lagggènte "vuole" (sic) la Messa in italiano, "vattene da Lefebvre se ti interessa l'altra Messa".
Non è questione di latinorum, di estetica, di cinquantismo (come se gli anni 1950 potessero tornare davvero)... ma è quello che ho realizzato nel tentare di dare del mio meglio a questa Chiesa postconciliare, e che forse non avrei scoperto se la Messa moderna fosse stata celebrata frequentemente in modo impeccabile. Della Messa tradizionale non ne riesco più a fare a meno. Mi sento oggi profondamente a disagio quando entro in una chiesa a visitare il Santissimo venendo accolto dai trascinati belati di fedeli e preti declamanti parole che in italiano suonano sempre più ambigue.
Non mi sono convertito alla Messa tradizionale da un giorno all’altro. La mia convinzione è maturata lungo gli anni di seminario ed è il motivo per cui dopo che la diocesi abortì ingiustamente il mio percorso verso il sacerdozio ho cercato accoglienza solo presso comunità dotate normalmente anche della Messa tradizionale. Ritengo tempo perso e autolesionismo, oggi, il tentare di entrare in un seminario o società sacerdotale o convento dove quella è al più un generoso favore anziché un insindacabile diritto garantito fin dal primo giorno. E ritengo una battaglia persa quella dei vescovi che si affannano (eufemismo) con la pastorale vocazionale ma considerano inaccettabile (non eufemismo) che un aspirante sacerdote si senta chiamato a celebrare principalmente (o addirittura esclusivamente) quella liturgia che non era stata mai abolita.
domenica 9 settembre 2018
Scrivere un libro?
Me lo suggerì il mio direttore spirituale quando il vescovo della diocesi ingiustamente mi dimise. Fu l'unico consiglio sbagliato che mi diede. Consiglio che perciò non presi mai sul serio, sebbene al momento gli dissi che lo avrei intitolato: I nuovi farisei.
In quel libro avrei dovuto descrivere la mia esperienza col seminario, col vescovo, con le parrocchie, con i fedeli. Raccontare come nel corso degli anni quella che avevo con certezza identificato come vocazione al sacerdozio cattolico venisse banalizzata, disprezzata e infine rigettata dagli esponenti della Chiesa conciliare la cui perdurante e crescente “crisi” consiste solo nel raccogliere ciò che ha sempre seminato.
Nello scrivere quel libro avrei dovuto inevitabilmente fare qualche nome. Poter indicare nomi, luoghi, date, evita le fastidiosissime sequenze di avverbi riassuntivi, riferimenti impersonali, ogni genere di lungaggine (quelle che rendono noioso questo blog, che almeno è gratis). Mi avrebbe esposto alle vendette di quei soggetti eccezionalmente permalosi (non necessariamente querele, visto che ciò avrebbe regalato grande pubblicità al libro). Ma il principale motivo per cui non scrissi quel libro è che quando il vescovo mi mandò via, uscii senza sbattere la porta. Un libro del genere, anche se pubblicato sotto pseudonimo, mi avrebbe identificato e bruciato per sempre la carriera: quale altro vescovo o superiore di comunità avrebbe mai accolto uno pronto a denunciare in un libro piccinerie e magagne, vere o presunte che fossero, addirittura facendo qualche nome? Più di tutte le altre mafie, quella clericale esige la tua omertà. Il sottoscritto, convinto di essere chiamato al sacerdozio, sperava di poter rientrare dalla finestra, di accedere al sacerdozio presso qualche comunità sacerdotale, o presso un'altra diocesi, o nel giro di qualche anno nella stessa diocesi ma con un nuovo vescovo meno imbecille. Invece mi è andata male fino ad oggi. Intanto continuano a lamentarsi del crollo delle vocazioni dopo averlo infaticabilmente provocato. Continuano a fare il gioco delle tre carte con il valzer delle nomine a parroco. Continuano a mandare avanti la baracca come se nulla fosse.
Allora a che pro lamentarsi su un anonimo blog di personaggi anonimi senza luoghi né date? Sento già le obiezioni del tipo: la donna della tua vita non era innamorata di te e tu ancora non te ne fai una ragione. Eh, no. Nel mio caso è peggio. È come se la “donna” della mia vita, dopo avermi bruciato con perfidia i migliori anni e le migliori risorse avesse poi minuziosamente sparso panzane sul mio conto a tutte le “donne” italiane. Infatti non mi accetterebbero in un seminario neppure ripartendo da zero. Dovrei andare all’estero sperando di non trovare lo stesso virus postconciliare. Oppure dovrei mentire e sperare che fino al giorno dopo l'ordinazione nessuno si accorga, nessuno ricordi, nessuno casualmente scopra.
Mi lamento anche per liberarmi del veleno che dopo tanti anni ancora non ho digerito. Non ho ancora perso la fede. Succede spesso che un seminarista ingiustamente scacciato via perda la fede (che è la via più facile per liberarsi di quel veleno). Ho visto seminaristi trattati meno peggio di me che appena hanno messo piede fuori dal seminario hanno immediatamente cancellato dalla loro vita Messa, sacramenti, vita di preghiera, letture spirituali, tutto. Non ne volevano più sapere. Ogni cosa ricordava loro l'insopportabile persecuzione subita in seminario. Cancellando la fede, non si ponevano più il problema di cos'è la giustizia, cos'è la vocazione, come continuare a sentirsi sinceramente parte della Chiesa, e quanto debba essere buonista il perdono agli impenitenti che avevano loro devastato la vita e la vocazione.
Episodio: uno di loro, lo spilungone, una volta in un incontro coi giovani parrocchiani osò infuriarsi su qualcosa riguardante la contraccezione o l'aborto. Era all'ultimo anno di seminario. Lo fecero fuori non per ciò che aveva espresso, ma per l'imprevista foga con cui lo fece. Non era riprogrammabile. Fu la prima e ultima macchia dell'intera sua carriera di seminarista: gli aveva guadagnato il marchio di "imprevedibile", cioè inadatto al sacerdozio (le curie vogliono soggetti prevedibili, temono la libertà umana di scegliere qualcosa di meglio che non era previsto dai loro piani pastorali). Anni dopo lo incontrai per caso in treno. Parlammo dei vecchi tempi, di "quell'invertito", di "quello stronzo", di "quel frocione", e di altri augusti personaggi che in seminario erano più quotati di noi. Aveva ancora il dente avvelenato. Mi chiedeva se anch'io avessi chiuso con la Chiesa. A quanto pare non aveva più messo piede in una chiesa.
Ma a che servirebbe un libro? Dopo qualche recensione sui blog - magari benevola solo su quelli anticlericali - verrebbe rapidamente dimenticato. Veicolerebbe ai colpevoli, se ancora sono a capo dei loro patetici feudi, solo un messaggio: fate un pochino di attenzione in più a coloro che scacciati via potrebbero scrivere un libro. In meno di un anno o due, il libro verrà dimenticato. Problema risolto. (Un libro più serio di quello che avrei potuto scrivere io lo ha già scritto don Ariel Levi Di Gualdo: Quanta cura in cordibus nostris. Quanti vescovi lo hanno letto e meditato? Quanti ne conoscevano l'esistenza? Quanti anni sono passati dalla sua pubblicazione? Quale effetto concreto ha avuto?)
Successivamente all'idea di scrivere quel libro, ho poi rifinito alcune mie convinzioni. Come quella di celebrare esclusivamente la Messa tradizionale in latino, poiché quella moderna è irrimediabilmente ridotta a teatrino di bimbi scemi, e lato sacerdote appare come uno scambio di convenevoli farcito di paroloni di moda. Questa sola convinzione è sufficiente per marchiarmi a fuoco con le solite prevedibilissime etichette tra cui "eretico".
In quel libro avrei dovuto descrivere la mia esperienza col seminario, col vescovo, con le parrocchie, con i fedeli. Raccontare come nel corso degli anni quella che avevo con certezza identificato come vocazione al sacerdozio cattolico venisse banalizzata, disprezzata e infine rigettata dagli esponenti della Chiesa conciliare la cui perdurante e crescente “crisi” consiste solo nel raccogliere ciò che ha sempre seminato.
Nello scrivere quel libro avrei dovuto inevitabilmente fare qualche nome. Poter indicare nomi, luoghi, date, evita le fastidiosissime sequenze di avverbi riassuntivi, riferimenti impersonali, ogni genere di lungaggine (quelle che rendono noioso questo blog, che almeno è gratis). Mi avrebbe esposto alle vendette di quei soggetti eccezionalmente permalosi (non necessariamente querele, visto che ciò avrebbe regalato grande pubblicità al libro). Ma il principale motivo per cui non scrissi quel libro è che quando il vescovo mi mandò via, uscii senza sbattere la porta. Un libro del genere, anche se pubblicato sotto pseudonimo, mi avrebbe identificato e bruciato per sempre la carriera: quale altro vescovo o superiore di comunità avrebbe mai accolto uno pronto a denunciare in un libro piccinerie e magagne, vere o presunte che fossero, addirittura facendo qualche nome? Più di tutte le altre mafie, quella clericale esige la tua omertà. Il sottoscritto, convinto di essere chiamato al sacerdozio, sperava di poter rientrare dalla finestra, di accedere al sacerdozio presso qualche comunità sacerdotale, o presso un'altra diocesi, o nel giro di qualche anno nella stessa diocesi ma con un nuovo vescovo meno imbecille. Invece mi è andata male fino ad oggi. Intanto continuano a lamentarsi del crollo delle vocazioni dopo averlo infaticabilmente provocato. Continuano a fare il gioco delle tre carte con il valzer delle nomine a parroco. Continuano a mandare avanti la baracca come se nulla fosse.
Allora a che pro lamentarsi su un anonimo blog di personaggi anonimi senza luoghi né date? Sento già le obiezioni del tipo: la donna della tua vita non era innamorata di te e tu ancora non te ne fai una ragione. Eh, no. Nel mio caso è peggio. È come se la “donna” della mia vita, dopo avermi bruciato con perfidia i migliori anni e le migliori risorse avesse poi minuziosamente sparso panzane sul mio conto a tutte le “donne” italiane. Infatti non mi accetterebbero in un seminario neppure ripartendo da zero. Dovrei andare all’estero sperando di non trovare lo stesso virus postconciliare. Oppure dovrei mentire e sperare che fino al giorno dopo l'ordinazione nessuno si accorga, nessuno ricordi, nessuno casualmente scopra.
Mi lamento anche per liberarmi del veleno che dopo tanti anni ancora non ho digerito. Non ho ancora perso la fede. Succede spesso che un seminarista ingiustamente scacciato via perda la fede (che è la via più facile per liberarsi di quel veleno). Ho visto seminaristi trattati meno peggio di me che appena hanno messo piede fuori dal seminario hanno immediatamente cancellato dalla loro vita Messa, sacramenti, vita di preghiera, letture spirituali, tutto. Non ne volevano più sapere. Ogni cosa ricordava loro l'insopportabile persecuzione subita in seminario. Cancellando la fede, non si ponevano più il problema di cos'è la giustizia, cos'è la vocazione, come continuare a sentirsi sinceramente parte della Chiesa, e quanto debba essere buonista il perdono agli impenitenti che avevano loro devastato la vita e la vocazione.
Episodio: uno di loro, lo spilungone, una volta in un incontro coi giovani parrocchiani osò infuriarsi su qualcosa riguardante la contraccezione o l'aborto. Era all'ultimo anno di seminario. Lo fecero fuori non per ciò che aveva espresso, ma per l'imprevista foga con cui lo fece. Non era riprogrammabile. Fu la prima e ultima macchia dell'intera sua carriera di seminarista: gli aveva guadagnato il marchio di "imprevedibile", cioè inadatto al sacerdozio (le curie vogliono soggetti prevedibili, temono la libertà umana di scegliere qualcosa di meglio che non era previsto dai loro piani pastorali). Anni dopo lo incontrai per caso in treno. Parlammo dei vecchi tempi, di "quell'invertito", di "quello stronzo", di "quel frocione", e di altri augusti personaggi che in seminario erano più quotati di noi. Aveva ancora il dente avvelenato. Mi chiedeva se anch'io avessi chiuso con la Chiesa. A quanto pare non aveva più messo piede in una chiesa.
Ma a che servirebbe un libro? Dopo qualche recensione sui blog - magari benevola solo su quelli anticlericali - verrebbe rapidamente dimenticato. Veicolerebbe ai colpevoli, se ancora sono a capo dei loro patetici feudi, solo un messaggio: fate un pochino di attenzione in più a coloro che scacciati via potrebbero scrivere un libro. In meno di un anno o due, il libro verrà dimenticato. Problema risolto. (Un libro più serio di quello che avrei potuto scrivere io lo ha già scritto don Ariel Levi Di Gualdo: Quanta cura in cordibus nostris. Quanti vescovi lo hanno letto e meditato? Quanti ne conoscevano l'esistenza? Quanti anni sono passati dalla sua pubblicazione? Quale effetto concreto ha avuto?)
Successivamente all'idea di scrivere quel libro, ho poi rifinito alcune mie convinzioni. Come quella di celebrare esclusivamente la Messa tradizionale in latino, poiché quella moderna è irrimediabilmente ridotta a teatrino di bimbi scemi, e lato sacerdote appare come uno scambio di convenevoli farcito di paroloni di moda. Questa sola convinzione è sufficiente per marchiarmi a fuoco con le solite prevedibilissime etichette tra cui "eretico".
sabato 8 settembre 2018
Schizzinosi nel discernimento
La mia amarezza è tutta dovuta al fatto che sono stato abortito dalle "autorità della Chiesa" per motivi che non c'entrano niente con la fede, la dirittura morale, la convinzione sincera di essere chiamato al sacerdozio. Nell'abortire la mia vocazione hanno danneggiato il sottoscritto e soprattutto danneggiato la Chiesa stessa, per tutte le volte che non ho potuto celebrare Messa, per tutte le volte che non ho potuto confessare, per tutte le volte che non ho potuto amministrare l'unzione... Tutta quella canaglia, riducendo il sacerdozio ad un mestiere, sputando sulle vocazioni, riducendo la carità a buonismo, ha materialmente chiamato a sé (e purtroppo ai propri cari) la maledizione di non poter ricevere i sacramenti in punto di morte (e purtroppo non solo quella).
Scusandomi anticipatamente per l'ennesima lunga pagina, sento di dover chiarire qualche altro punto oscuro per le anime belle e doloroso per coloro che per circostanze della vita hanno dovuto assaggiare quel calice di fiele clericale.
Nella Chiesa preconciliare quel minimo sindacale era tutto sommato garantito, quantomeno per l'ampia scelta di comunità religiose alternative al percorso in diocesi e all'idea che il sacerdozio consista nel munus gubernandi, sanctificandi, docendi. La miglior pastorale vocazionale che poteva fare un vescovo era dire: vi garantisco che i sacerdoti che intendo ordinare spenderanno le loro migliori energie nel dir Messa e confessare. Oggi, invece?
La Chiesa conciliare è invece ossessionata dalla pastorale (cosa che va sotto diversi nomi: andare incontro allagggènte, adeguarsi ai tempi, valorizzare il laicato, essere aperti al dialogo...) cioè ha ridotto il sacerdote a una specie di animatore da villaggio vacanze (persino dotato di giorni liberi, ferie estive, meeting periodici, corsi di aggiornamento, tutta la sagra delle cazzate tipica del rampante management americanizzato di moda nelle grosse aziende), anzi, ad un robot. Ha anche ridotto il seminario ad un addestramento ad essere mediocri, gli studi filosofici e teologici a un guazzabuglio di paroloni inutili per la pastorale (ironia della sorte!) e le virtù teologali al non farsi cogliere con le mani nella marmellata (basterebbero solo queste considerazioni per diventar subito preconciliare a prescindere).
La Chiesa è a corto di preti ma lo era anche ieri quando erano cinque volte più numerosi che oggi, anzi, lo è sempre stata, addirittura è il Vangelo a confermare la quantità perennemente scarsa di operai per la Messe.
E i vescovi (e superiori di comunità religiose) cosa fanno? Gli schizzinosi. Ecco alcuni esempi già tradotti dal clericalese all'italiano (tutti tratti da episodi reali):
Intendono ordinare uno "aperto al dialogo" (sottinteso: dottrinalmente elastico e sacramentalmente approssimativo), che sia anche "docile" (sottinteso: acriticamente docile), e soprattutto "disponibile al servizio" (sottinteso: che si dà tanto da fare anche e soprattutto sulle cazzate).
Ogni prete dev‘essere per loro una pedina spostabile a piacere sulla scacchiera diocesana (cioè i preti devono fornire tutti lo stesso identico livello di mediocrità). Perciò, se non è funzionale all'incarico di parroco, il vescovo erroneamente lo considera inabile al sacerdozio (sottinteso: il sacerdozio non è una vocazione ma un mestiere).
Sull‘età adatta i miei rudi stivali scattano come bolidi attirati dai deretani episcopali. Forse che un sacerdote di cui si prevedono cinquant'anni di servizio (da venticinquenne a settantacinquenne) vale molto di più di uno di cui se ne prevedono solo quaranta? O trenta, venti, dieci? Davanti a Dio, anche se in tutta la sua vita sacerdotale celebra una sola Eucarestia prima di morire, ha già un valore infinito. (Ma oggi non si dice più celebra Missam ut primam, ut ultimam, ut unicam).
La scusa dell'età serve in realtà per allontanare soggetti che hanno esperienza di vita, cioè per tenersi dentro solo dei soggetti mentalmente ragazzini. Un ventenne può essere ancora riprogrammato. Un trentenne è difficile da riprogrammare. Un quarantenne non lo riprogrammi più. E poi più uno è adulto, più - secondo loro - è probabile che abbia avuto esperienze sessuali. Non che ai formatori interessi davvero la castità. Hanno paura che uno adulto capisca bene i segnali froceschi di certo clero e sappia reagire di conseguenza. Hanno paura che uno adulto metta incinta qualche parrocchiana. Hanno paura che uno adulto sappia schivare (o sfruttare) le manovre del clero mediocre meglio di quanto non sappia fare uno che in vita sua ha visto solo mammà, parrocchia e seminario. Hanno quindi paura che uno adulto sia capace di innamorarsi. In altre parole, hanno paura che uno adulto produca esattamente gli errori e le divisioni che normalmente producono i preti mediocri che loro hanno sempre ordinato. Infine, hanno anche paura che uno che sa cosa significa alzarsi al mattino presto per correre al proprio posto di lavoro mentre piove a dirotto, è mentalmente allenato a considerare prezioso il proprio tempo e a investirlo in cose serie trascurando qualcuna delle idiozie che vengono tassativamente richieste in nome della “disponibilità al servizio”.
Può anche capitare che un seminarista non venga accolto “per non farsi nemici tra i vescovi”. In genere non te lo dicono chiaramente. Era il caso di uno che era stato dimesso perché non aveva raggiunto i kafkiani “obiettivi di dialogo” che certe imprecisate entità kafkiane immaginavano. Comprensibile che un vescovo o superiore di comunità abbia tanta paura di dare la minima impressione di voler far guerra ai vescovi (molto più comprensibile per chi si ricorda di quanto vendicativi siano questi ultimi), ma non è una ragione teologicamente valida per dire l'equivalente di “non ti vogliamo accogliere, arràngiati” e per di più senza nemmeno suggerire almeno qualche altra porta a cui bussare.
Episodio. Telefono in curia per chiedere un appuntamento col vescovo. La voce che mi ha risposto dice: sono io il vescovo, di cosa si tratta? Non faccio in tempo a presentarmi come ex seminarista che già mi interrompe per dire: nessun problema ad incontrarci, ma voglio chiarire già adesso che non accolgo seminaristi provenienti da altre diocesi. Non vuole suscitare qualche antipatia nella conferenza regionale e perciò, facendosi scudo di una delle tante norme che per gli amici si interpretano, per gli altri si applicano, parte dal presupposto che un seminarista dimesso da qualche seminario deve avere per forza chissà che scheletri nell'armadio. Vigliacco. Ne risponderà a Dio.
Ma sì, un rettore può anche dirti che devi dimagrire. Può anche darsi che sia per la tua salute. Ma è qualcosa che ho visto usare solo come ricerca del pelo nell'uovo quando sembri del tutto conforme al loro modello standard di pagliaccio da parrocchia. Il grassone in questione perse più di venti chili dopo un'interminabile dieta da girone dei golosi. Fu infine ordinato al sacerdozio e in pochissimo tempo riacquistò quei chili più gli interessi e i supplementi. Tutta la storiaccia della dieta, infatti, era dovuta esclusivamente al fatto che i superiori, in qualità di schizzinosi, non avevano a disposizione altre scuse. È avvenuto anche ad una brava ragazza che dopo aver letto qualcosa di santa Chiara - beata innocenza! - chiese di entrare in un convento di Francescane postconciliari. La responsabile delle vocazioni le impone tassativamente di dimagrire (avranno a regolamento il dover portare una taglia inferiore alla 46?). Perde parecchi chili e alla fine trovano ugualmente una scusa per mandarla via (eppure non tutte le francescane sono mingherline). Approda infine in un altro ordine religioso tutt'altro che francescano, dopo aver buttato via dieci anni di vita (le è andata meglio di me).
Quando hanno da ridire e usano il termine “poco sacerdotale“ significa che stanno accanitamente cercando una scusa per toglierti dalle balle. Dovrebbero preoccuparsi di te solo per ciò che riguarda la fede, la morale, la chiarezza della chiamata. Solo un campione di mediocrità (e di froceria) può pensare come "poco sacerdotale" il fatto che ti piaccia intagliare il legno, o fotografare paesaggi, o leggere i fumetti di Paperino, o pedalare venti chilometri al giorno... Quelle cose, al massimo, ti costano del tempo, ed è col direttore spirituale che ti devi confrontare su quante ore settimanali vi dedichi qualora ci sia un minimo sospetto che stai esagerando. Ma un prete non è un robot. Non riesce a fare "cose sacerdotali" ventiquattr'ore su ventiquattro: vuoi togliergli un hobby sano illudendoti che ciò non lo porti mai a cercarsene un surrogato malsano? E comunque sai già che una volta prete farà ugualmente di testa sua. Vuoi trasformare i seminaristi in perfetti ipocriti? Vieta loro ciò che i preti già fanno comodamente, e controllali su ogni minima infrazione. Trasforma il seminario in un Gulag dove tutti spiano tutti, tutti fanno delazioni su tutti, tutti nascondono le loro cose “poco sacerdotali” innocenti. Ciò che semini, raccoglierai.
Episodio. Eravamo in macchina e risposi con una certa veemenza al prete: ma crede che vado fotografando donne nude? O che la cosa mi rubi chissà quante ore al mese? E il sito web della comunità, quelle foto chi altro gliele poteva fare? Dobbiamo parlare allora dei passatempi di [nome seminarista frocetto] che ogni giorno si alza alle undici? Chi è che ogni mattina in paese le serve Messa alle otto? - Il pretino ingoiò la lingua ma sono sicuro che giurò a sé stesso di farmela pagare cara. Sì, ero io quello che gli servivo Messa ogni mattina. E sì, i mezzi uomini, campioni di mediocrità, non ammettono che un seminarista nel raro tempo libero possa dedicarsi a qualcosa di pulito. Si tollera solo la partitella di calcio e, con finta condiscendenza, lo sfogliare i cataloghi commerciali di paramenti sacri.
Scusandomi anticipatamente per l'ennesima lunga pagina, sento di dover chiarire qualche altro punto oscuro per le anime belle e doloroso per coloro che per circostanze della vita hanno dovuto assaggiare quel calice di fiele clericale.
Nella Chiesa preconciliare quel minimo sindacale era tutto sommato garantito, quantomeno per l'ampia scelta di comunità religiose alternative al percorso in diocesi e all'idea che il sacerdozio consista nel munus gubernandi, sanctificandi, docendi. La miglior pastorale vocazionale che poteva fare un vescovo era dire: vi garantisco che i sacerdoti che intendo ordinare spenderanno le loro migliori energie nel dir Messa e confessare. Oggi, invece?
La Chiesa conciliare è invece ossessionata dalla pastorale (cosa che va sotto diversi nomi: andare incontro allagggènte, adeguarsi ai tempi, valorizzare il laicato, essere aperti al dialogo...) cioè ha ridotto il sacerdote a una specie di animatore da villaggio vacanze (persino dotato di giorni liberi, ferie estive, meeting periodici, corsi di aggiornamento, tutta la sagra delle cazzate tipica del rampante management americanizzato di moda nelle grosse aziende), anzi, ad un robot. Ha anche ridotto il seminario ad un addestramento ad essere mediocri, gli studi filosofici e teologici a un guazzabuglio di paroloni inutili per la pastorale (ironia della sorte!) e le virtù teologali al non farsi cogliere con le mani nella marmellata (basterebbero solo queste considerazioni per diventar subito preconciliare a prescindere).
La Chiesa è a corto di preti ma lo era anche ieri quando erano cinque volte più numerosi che oggi, anzi, lo è sempre stata, addirittura è il Vangelo a confermare la quantità perennemente scarsa di operai per la Messe.
E i vescovi (e superiori di comunità religiose) cosa fanno? Gli schizzinosi. Ecco alcuni esempi già tradotti dal clericalese all'italiano (tutti tratti da episodi reali):
- "non riesco a figurarmelo nell'incarico di parroco, pertanto la sua vocazione non può essere alla diocesi"
- "non ha l'età adatta, ne riparleremo quando verrà aperto un seminario per le vocazioni adulte" (che non ha mai aperto)
- "in riunione si è detto che non possiamo farci nemici i vescovi"
- "tre vocazioni in questo istituto sono già troppe"
- "non risulta simpatico al mio finocchio preferito"
- "deve dimagrire"
- "è qui da cinque mesi e non ha mai pagato la retta" (istituita retroattivamente un minuto prima)
- "ha l'hobby della fotografia, e questa è una cosa incompatibile con la vita sacerdotale"
- "è attaccato a certe cose preconciliari"
Intendono ordinare uno "aperto al dialogo" (sottinteso: dottrinalmente elastico e sacramentalmente approssimativo), che sia anche "docile" (sottinteso: acriticamente docile), e soprattutto "disponibile al servizio" (sottinteso: che si dà tanto da fare anche e soprattutto sulle cazzate).
Ogni prete dev‘essere per loro una pedina spostabile a piacere sulla scacchiera diocesana (cioè i preti devono fornire tutti lo stesso identico livello di mediocrità). Perciò, se non è funzionale all'incarico di parroco, il vescovo erroneamente lo considera inabile al sacerdozio (sottinteso: il sacerdozio non è una vocazione ma un mestiere).
Sull‘età adatta i miei rudi stivali scattano come bolidi attirati dai deretani episcopali. Forse che un sacerdote di cui si prevedono cinquant'anni di servizio (da venticinquenne a settantacinquenne) vale molto di più di uno di cui se ne prevedono solo quaranta? O trenta, venti, dieci? Davanti a Dio, anche se in tutta la sua vita sacerdotale celebra una sola Eucarestia prima di morire, ha già un valore infinito. (Ma oggi non si dice più celebra Missam ut primam, ut ultimam, ut unicam).
La scusa dell'età serve in realtà per allontanare soggetti che hanno esperienza di vita, cioè per tenersi dentro solo dei soggetti mentalmente ragazzini. Un ventenne può essere ancora riprogrammato. Un trentenne è difficile da riprogrammare. Un quarantenne non lo riprogrammi più. E poi più uno è adulto, più - secondo loro - è probabile che abbia avuto esperienze sessuali. Non che ai formatori interessi davvero la castità. Hanno paura che uno adulto capisca bene i segnali froceschi di certo clero e sappia reagire di conseguenza. Hanno paura che uno adulto metta incinta qualche parrocchiana. Hanno paura che uno adulto sappia schivare (o sfruttare) le manovre del clero mediocre meglio di quanto non sappia fare uno che in vita sua ha visto solo mammà, parrocchia e seminario. Hanno quindi paura che uno adulto sia capace di innamorarsi. In altre parole, hanno paura che uno adulto produca esattamente gli errori e le divisioni che normalmente producono i preti mediocri che loro hanno sempre ordinato. Infine, hanno anche paura che uno che sa cosa significa alzarsi al mattino presto per correre al proprio posto di lavoro mentre piove a dirotto, è mentalmente allenato a considerare prezioso il proprio tempo e a investirlo in cose serie trascurando qualcuna delle idiozie che vengono tassativamente richieste in nome della “disponibilità al servizio”.
Può anche capitare che un seminarista non venga accolto “per non farsi nemici tra i vescovi”. In genere non te lo dicono chiaramente. Era il caso di uno che era stato dimesso perché non aveva raggiunto i kafkiani “obiettivi di dialogo” che certe imprecisate entità kafkiane immaginavano. Comprensibile che un vescovo o superiore di comunità abbia tanta paura di dare la minima impressione di voler far guerra ai vescovi (molto più comprensibile per chi si ricorda di quanto vendicativi siano questi ultimi), ma non è una ragione teologicamente valida per dire l'equivalente di “non ti vogliamo accogliere, arràngiati” e per di più senza nemmeno suggerire almeno qualche altra porta a cui bussare.
Episodio. Telefono in curia per chiedere un appuntamento col vescovo. La voce che mi ha risposto dice: sono io il vescovo, di cosa si tratta? Non faccio in tempo a presentarmi come ex seminarista che già mi interrompe per dire: nessun problema ad incontrarci, ma voglio chiarire già adesso che non accolgo seminaristi provenienti da altre diocesi. Non vuole suscitare qualche antipatia nella conferenza regionale e perciò, facendosi scudo di una delle tante norme che per gli amici si interpretano, per gli altri si applicano, parte dal presupposto che un seminarista dimesso da qualche seminario deve avere per forza chissà che scheletri nell'armadio. Vigliacco. Ne risponderà a Dio.
Ma sì, un rettore può anche dirti che devi dimagrire. Può anche darsi che sia per la tua salute. Ma è qualcosa che ho visto usare solo come ricerca del pelo nell'uovo quando sembri del tutto conforme al loro modello standard di pagliaccio da parrocchia. Il grassone in questione perse più di venti chili dopo un'interminabile dieta da girone dei golosi. Fu infine ordinato al sacerdozio e in pochissimo tempo riacquistò quei chili più gli interessi e i supplementi. Tutta la storiaccia della dieta, infatti, era dovuta esclusivamente al fatto che i superiori, in qualità di schizzinosi, non avevano a disposizione altre scuse. È avvenuto anche ad una brava ragazza che dopo aver letto qualcosa di santa Chiara - beata innocenza! - chiese di entrare in un convento di Francescane postconciliari. La responsabile delle vocazioni le impone tassativamente di dimagrire (avranno a regolamento il dover portare una taglia inferiore alla 46?). Perde parecchi chili e alla fine trovano ugualmente una scusa per mandarla via (eppure non tutte le francescane sono mingherline). Approda infine in un altro ordine religioso tutt'altro che francescano, dopo aver buttato via dieci anni di vita (le è andata meglio di me).
Quando hanno da ridire e usano il termine “poco sacerdotale“ significa che stanno accanitamente cercando una scusa per toglierti dalle balle. Dovrebbero preoccuparsi di te solo per ciò che riguarda la fede, la morale, la chiarezza della chiamata. Solo un campione di mediocrità (e di froceria) può pensare come "poco sacerdotale" il fatto che ti piaccia intagliare il legno, o fotografare paesaggi, o leggere i fumetti di Paperino, o pedalare venti chilometri al giorno... Quelle cose, al massimo, ti costano del tempo, ed è col direttore spirituale che ti devi confrontare su quante ore settimanali vi dedichi qualora ci sia un minimo sospetto che stai esagerando. Ma un prete non è un robot. Non riesce a fare "cose sacerdotali" ventiquattr'ore su ventiquattro: vuoi togliergli un hobby sano illudendoti che ciò non lo porti mai a cercarsene un surrogato malsano? E comunque sai già che una volta prete farà ugualmente di testa sua. Vuoi trasformare i seminaristi in perfetti ipocriti? Vieta loro ciò che i preti già fanno comodamente, e controllali su ogni minima infrazione. Trasforma il seminario in un Gulag dove tutti spiano tutti, tutti fanno delazioni su tutti, tutti nascondono le loro cose “poco sacerdotali” innocenti. Ciò che semini, raccoglierai.
Episodio. Eravamo in macchina e risposi con una certa veemenza al prete: ma crede che vado fotografando donne nude? O che la cosa mi rubi chissà quante ore al mese? E il sito web della comunità, quelle foto chi altro gliele poteva fare? Dobbiamo parlare allora dei passatempi di [nome seminarista frocetto] che ogni giorno si alza alle undici? Chi è che ogni mattina in paese le serve Messa alle otto? - Il pretino ingoiò la lingua ma sono sicuro che giurò a sé stesso di farmela pagare cara. Sì, ero io quello che gli servivo Messa ogni mattina. E sì, i mezzi uomini, campioni di mediocrità, non ammettono che un seminarista nel raro tempo libero possa dedicarsi a qualcosa di pulito. Si tollera solo la partitella di calcio e, con finta condiscendenza, lo sfogliare i cataloghi commerciali di paramenti sacri.
martedì 4 settembre 2018
Alla ricerca del pelo nell'uovo
Nel buttar giù queste mie lamentose paginette do sempre per scontato qualcosa che non sempre lo è: il minimo sindacale:
- la Chiesa è a corto di sacerdoti; tu, vescovo, sai che non si fabbricano, te li manda Dio
- se uno è convinto di essere chiamato al sacerdozio, lo accogli grato a Dio
- ti assicuri che faccia sul serio (fede, morale, chiarezza della chiamata)
- lo fornisci di strumenti adatti (sana dottrina, sana liturgia, sano silenzio, sani sacerdoti come guida)
- infine lo ordini
- e nel frattempo hai continuato a chiedere a Dio altre vocazioni, che se davvero te ne avanzassero puoi sempre concedere a qualcuno di andare in missione (magari anche soltanto pochi chilometri più in là nella diocesi accanto a corto di preti).
lunedì 3 settembre 2018
Non dimenticate che i vescovi sono gravemente responsabili
Noi povere anime disperate per lo stato attuale della Chiesa osiamo domandare in preghiera: mandaci, o Signore, tanti sacerdoti, mandaci, o Signore, santi sacerdoti... Il che è come tentare di spingere in salita un camion che ha la retromarcia innestata e il freno a mano azionato.
Lamentare solo l'arbitrarietà del percorso formativo verso il sacerdozio mi pare un po' superficiale e sindacaleggiante, e che involontariamente chiede ulteriore burocrazia in quella fogna che attualmente è il discernimento vocazionale. Non trovo motivo per disconoscere ai vescovi il diritto di ordinare solo sulla base della fiducia. Quel che mi allarma è che loro sono autori e complici del marciume attuale e sostanzialmente incapaci di dare fiducia a qualcuno che lo meriti. Infatti la crisi del sacerdozio è cominciata dai vertici. Nel corso di molti decenni qualcuno ha concesso l'episcopato a mezzi uomini, campioni di mediocrità che a loro volta hanno fatto altrettanto coi loro pari e col clero. Chiedere al Signore tanti santi sacerdoti, oggi, significa pregare contro la gerarchia ecclesiastica attuale, significa indirettamente maledire i vescovi perché anche il migliore dei loro nel momento difficile decide di giocare la coniglio-card.
Episodio.
Ottengo faticosamente udienza presso un vescovo di buona nomea (e del quale, in via informale, avevo saputo che in gioventù in seminario aveva avuto filo da torcere: uno che certe cose le ha vissute avrebbe dovuto capire facilmente ciò che provavo). Neanche tre settimane di attesa e mi riceve. Mi ascolta per venticinque minuti astenendosi da ogni commento. Gli parlo a cuore aperto della mia situazione, della mia vocazione, delle desolanti circostanze del seminario. In conclusione gioco la mia carta migliore nominandogli un sacerdote (che sapevo essere di sua fiducia) che può parlargli di me e confermare tutto ciò che ho detto e garantire per me. Mi risponde che comprende la mia situazione, che parlerà con lui, che attraverso di lui mi farà sapere, solite parole di circostanza. (E quella sera due ore di adorazione di ringraziamento perché mi era parso che fosse filato tutto ottimamente).
Passano i mesi e il sacerdote di reciproca fiducia non riesce mai a contattarlo. Il vescovo in questione si fa negare al telefono, oppure risponde che non ha tempo, infine risponde che per il momento non è il caso di fare mosse e rinvia la cosa a tempo indeterminato. (Scoprirò poi che c'era lo zampino del vicario generale, il quale a sua volta aveva il dente avvelenato contro un altro dei preti reo di avergli nascosto qualcosa, il quale a sua volta mi aveva nascosto delle cose... sapete, anime belle, è così che funziona il clero: tutto cercano fuorché la volontà di Dio).
Nel frattempo il vescovo ordina un emerito cretino (veramente cretino, absit iniuria verbis, probabilmente l'ordinazione è nulla perché quel soggetto era proprio fuori di testa oltre ad essere spettacolarmente ignorante). Per di più un bel giorno si trova a parlare con un laureando in filosofia, giovincello di bell'aspetto e di buona parlantina. Il vescovo va in brodo di giuggiole e gli dice - scherzando ma non troppo, anzi, sorridente ma senza scherzare - che un posticino in seminario per lui c'è sempre, che gli farebbe fare un percorso molto abbreviato grazie alla laurea in filosofia, che un pensierino potrebbe e dovrebbe farcelo... Il giovincello non sembra troppo interessato, e il vescovo (aveva bevuto?) addirittura si sbilancia a dirgli: ma dai, non ti mando mica nelle parrocchie, ti metto a insegnare, scriverai articoli e libri... Il filosofetto gli risponde che sta frequentando una ragazza, e il vescovo ancor più ridicolo insiste: ma dai, la puoi sempre lasciare, pensaci, la mia porta è sempre aperta, fai un fischio e ti metto le mani in testa, e se mi promuovono ad altra diocesi mi segui...
Quel vescovo gli ripeté le stesse allusioni in altre occasioni. Chissà se sapeva che il sottoscritto conosceva personalmente il filosofetto e la fidanzatina.
Insomma, se uno come me - convinto di essere chiamato al sacerdozio perché per tutta la vita ha come obiettivi principali dir Messa e confessare - va lì da lui col cuore in mano lui dimentica di aver sempre lamentato penuria di preti, dimentica tutte le proprie esternazioni di pastorale vocazionale, dimentica che a suo tempo in seminario gli avevano dato filo da torcere per motivi che non c'entravano con la fede né con la morale, e cosa fa? fa lo schizzinoso e rinvia alle calende greche perché il sottoscritto è stato dimesso da un altro seminario (per motivi che non riguardavano né la fede, né la vita morale) e si fa negare al telefono persino nei confronti di un prete che era di sua fiducia. Ad uno spocchioso universitario fidanzato che ha collezionato vari trenta e lode agli esami di filosofia dice invece: fammi un fischio che ti ordino, e sarai esonerato dagli incarichi di parrocchia. Insomma: è sempre e solo il fottutissimo vescovo che seleziona gli operai per la messe: se la sua politica è questa, come meravigliarsi che gli operai siano pochi, scarsi, scarsamente preparati, pelandroni, incapaci, e soprattutto che detestano il proprio sacro dovere?
Episodio di alcuni anni prima.
Mi trovo in episcopio dal vescovo allora in carica. È appena finito un anno di seminario. La relazione di fine anno su di me "non va bene" per qualche kafkiano inspiegabile motivo che non riesce a spiegarmi. Finalmente dice che devo migliorare nel "dialogo con gli altri", e qualche altra tremenda cazzata dello stesso genere, di quelle non misurabili (e sì che qualche volta ho chiesto cosa deve materialmente accadere per poterli convincere che il sottoscritto sarebbe finalmente "migliorato nel dialogo"; senza mai ottenere una risposta men che fumosa, ovviamente). Con santa pazienza gli chiedo come mai siano così pignoli su questioni del genere mentre non si sono mai interrogati sulla mia fede e sulla mia vocazione. "Oh, ma quelle si danno per scontate... cioè, non proprio scontate, ma ci si assume che... si presume... si realizza nel tempo..." Ha corretto il tiro solo perché quando ha detto "scontate" ho fatto un balzo.
Ma sì, io riconosco al vescovo il diritto di scegliere liberamente di chi fidarsi e chi no, con tutta la grave responsabilità che si assume. Un vescovo decide che bisogna togliermi di mezzo a costo di blaterare il neo-latinorum del "crescere nel dialogo". Molti dei miei compagni di corso da lui personalmente approvati e ordinati hanno gettato la tonaca alle ortiche (che non avevano mai indossato) in meno di tre o quattro anni dall'ordinazione. Ha ordinato "l'esaurito", ha ordinato "il furbacchione", ha ordinato "il fuggitivo", non ha ordinato me. Risultato? Il vescovo suo successore non sa in quale parrocchia spedire "l'esaurito", non sa come convincere a rientrare dall'estero "il fuggitivo" (ufficialmente in "missione" per conto dell'imbecillissimo movimento ecclesiale a cui solo ha giurato fedeltà), non sa come coprire le porcate de "il furbacchione", e nonostante ciò continua ad ordinare fuggitivi, furbacchioni, semi-alcolizzati, semi-visionari, e altri soggetti strani (e per gran parte effeminati).
Lamentare solo l'arbitrarietà del percorso formativo verso il sacerdozio mi pare un po' superficiale e sindacaleggiante, e che involontariamente chiede ulteriore burocrazia in quella fogna che attualmente è il discernimento vocazionale. Non trovo motivo per disconoscere ai vescovi il diritto di ordinare solo sulla base della fiducia. Quel che mi allarma è che loro sono autori e complici del marciume attuale e sostanzialmente incapaci di dare fiducia a qualcuno che lo meriti. Infatti la crisi del sacerdozio è cominciata dai vertici. Nel corso di molti decenni qualcuno ha concesso l'episcopato a mezzi uomini, campioni di mediocrità che a loro volta hanno fatto altrettanto coi loro pari e col clero. Chiedere al Signore tanti santi sacerdoti, oggi, significa pregare contro la gerarchia ecclesiastica attuale, significa indirettamente maledire i vescovi perché anche il migliore dei loro nel momento difficile decide di giocare la coniglio-card.
Episodio.
Ottengo faticosamente udienza presso un vescovo di buona nomea (e del quale, in via informale, avevo saputo che in gioventù in seminario aveva avuto filo da torcere: uno che certe cose le ha vissute avrebbe dovuto capire facilmente ciò che provavo). Neanche tre settimane di attesa e mi riceve. Mi ascolta per venticinque minuti astenendosi da ogni commento. Gli parlo a cuore aperto della mia situazione, della mia vocazione, delle desolanti circostanze del seminario. In conclusione gioco la mia carta migliore nominandogli un sacerdote (che sapevo essere di sua fiducia) che può parlargli di me e confermare tutto ciò che ho detto e garantire per me. Mi risponde che comprende la mia situazione, che parlerà con lui, che attraverso di lui mi farà sapere, solite parole di circostanza. (E quella sera due ore di adorazione di ringraziamento perché mi era parso che fosse filato tutto ottimamente).
Passano i mesi e il sacerdote di reciproca fiducia non riesce mai a contattarlo. Il vescovo in questione si fa negare al telefono, oppure risponde che non ha tempo, infine risponde che per il momento non è il caso di fare mosse e rinvia la cosa a tempo indeterminato. (Scoprirò poi che c'era lo zampino del vicario generale, il quale a sua volta aveva il dente avvelenato contro un altro dei preti reo di avergli nascosto qualcosa, il quale a sua volta mi aveva nascosto delle cose... sapete, anime belle, è così che funziona il clero: tutto cercano fuorché la volontà di Dio).
Nel frattempo il vescovo ordina un emerito cretino (veramente cretino, absit iniuria verbis, probabilmente l'ordinazione è nulla perché quel soggetto era proprio fuori di testa oltre ad essere spettacolarmente ignorante). Per di più un bel giorno si trova a parlare con un laureando in filosofia, giovincello di bell'aspetto e di buona parlantina. Il vescovo va in brodo di giuggiole e gli dice - scherzando ma non troppo, anzi, sorridente ma senza scherzare - che un posticino in seminario per lui c'è sempre, che gli farebbe fare un percorso molto abbreviato grazie alla laurea in filosofia, che un pensierino potrebbe e dovrebbe farcelo... Il giovincello non sembra troppo interessato, e il vescovo (aveva bevuto?) addirittura si sbilancia a dirgli: ma dai, non ti mando mica nelle parrocchie, ti metto a insegnare, scriverai articoli e libri... Il filosofetto gli risponde che sta frequentando una ragazza, e il vescovo ancor più ridicolo insiste: ma dai, la puoi sempre lasciare, pensaci, la mia porta è sempre aperta, fai un fischio e ti metto le mani in testa, e se mi promuovono ad altra diocesi mi segui...
Quel vescovo gli ripeté le stesse allusioni in altre occasioni. Chissà se sapeva che il sottoscritto conosceva personalmente il filosofetto e la fidanzatina.
Insomma, se uno come me - convinto di essere chiamato al sacerdozio perché per tutta la vita ha come obiettivi principali dir Messa e confessare - va lì da lui col cuore in mano lui dimentica di aver sempre lamentato penuria di preti, dimentica tutte le proprie esternazioni di pastorale vocazionale, dimentica che a suo tempo in seminario gli avevano dato filo da torcere per motivi che non c'entravano con la fede né con la morale, e cosa fa? fa lo schizzinoso e rinvia alle calende greche perché il sottoscritto è stato dimesso da un altro seminario (per motivi che non riguardavano né la fede, né la vita morale) e si fa negare al telefono persino nei confronti di un prete che era di sua fiducia. Ad uno spocchioso universitario fidanzato che ha collezionato vari trenta e lode agli esami di filosofia dice invece: fammi un fischio che ti ordino, e sarai esonerato dagli incarichi di parrocchia. Insomma: è sempre e solo il fottutissimo vescovo che seleziona gli operai per la messe: se la sua politica è questa, come meravigliarsi che gli operai siano pochi, scarsi, scarsamente preparati, pelandroni, incapaci, e soprattutto che detestano il proprio sacro dovere?
Episodio di alcuni anni prima.
Mi trovo in episcopio dal vescovo allora in carica. È appena finito un anno di seminario. La relazione di fine anno su di me "non va bene" per qualche kafkiano inspiegabile motivo che non riesce a spiegarmi. Finalmente dice che devo migliorare nel "dialogo con gli altri", e qualche altra tremenda cazzata dello stesso genere, di quelle non misurabili (e sì che qualche volta ho chiesto cosa deve materialmente accadere per poterli convincere che il sottoscritto sarebbe finalmente "migliorato nel dialogo"; senza mai ottenere una risposta men che fumosa, ovviamente). Con santa pazienza gli chiedo come mai siano così pignoli su questioni del genere mentre non si sono mai interrogati sulla mia fede e sulla mia vocazione. "Oh, ma quelle si danno per scontate... cioè, non proprio scontate, ma ci si assume che... si presume... si realizza nel tempo..." Ha corretto il tiro solo perché quando ha detto "scontate" ho fatto un balzo.
Ma sì, io riconosco al vescovo il diritto di scegliere liberamente di chi fidarsi e chi no, con tutta la grave responsabilità che si assume. Un vescovo decide che bisogna togliermi di mezzo a costo di blaterare il neo-latinorum del "crescere nel dialogo". Molti dei miei compagni di corso da lui personalmente approvati e ordinati hanno gettato la tonaca alle ortiche (che non avevano mai indossato) in meno di tre o quattro anni dall'ordinazione. Ha ordinato "l'esaurito", ha ordinato "il furbacchione", ha ordinato "il fuggitivo", non ha ordinato me. Risultato? Il vescovo suo successore non sa in quale parrocchia spedire "l'esaurito", non sa come convincere a rientrare dall'estero "il fuggitivo" (ufficialmente in "missione" per conto dell'imbecillissimo movimento ecclesiale a cui solo ha giurato fedeltà), non sa come coprire le porcate de "il furbacchione", e nonostante ciò continua ad ordinare fuggitivi, furbacchioni, semi-alcolizzati, semi-visionari, e altri soggetti strani (e per gran parte effeminati).
sabato 1 settembre 2018
Sono i vescovi a dirigere l'eutanasia vocazionale
Dei seminari tutto si può dire fuorché abbiano qualche punto incompatibile coi veri profondi desideri dei vescovi. Che piaccia o no, i vescovi - non solo italiani - desiderano solo tre cose:
In breve, se i seminari sono così malridotti, è perché i vescovi vogliono esattamente ciò.
Ho scoperto a mie spese che il vescovo, ufficialmente contrario a certi andazzi, in realtà ne era tacitamente complice. Non ne voleva sentirli nemmeno nominare: condivideva col suo clero la pilatesca attitudine a credersi giustificato per aver fatto ciò che indicavano le relazioni, gli incartamenti e le normative. Ed una colonna di pilatesche lavate di mani che parte dal parroco, passa per l'animatore di seminario, l'equipe formativa, il rettore, il consiglio diocesano, il vescovo, blocca puntualmente il cammino verso il sacerdozio a qualunque soggetto incompatibile con lo schema precostituito. Eutanasia vocazionale: ordinare al sacerdozio solo dei decerebrati senza spina dorsale (altrimenti potrebbero introdurre cambiamenti intelligenti e controcorrente) che siano anche campioni di mediocrità (altrimenti i mediocri attualmente in carica si sentirebbero minacciati e insultati) e soprattutto compatibili con lo sfascio esistente (non sia mai che un novello presbitero non sia del tutto disposto a conservare le mode della comunione sulla mano, gli orrori affissi nell'aula liturgica, il vestirsi come un vecchio babbeo anziché come come un vero sacerdote)...
Ma ti lamenti sempre?
Serve lamentarsene? Sì. Se un bambino piange è perché non ha miglior modo di manifestare un disagio - e la madre, se vera madre, capisce e agisce. Così pure se vai dal meccanico a lamentare che il motore non regge il minimo, anche se non nota il difetto capisce da dove ha origine. Al contrario, se vai dal vescovo a far notare che qualcosa non va in seminario, il vescovo ti ammannisce la solita predica sul sopportare, pazientare, pregare, aver fede, ubbidire, come se tu non sapessi già tutte queste cose. Non cerca di capire le ragioni, nemmeno quando finge di ascoltarti - e tanto meno si adopererà per risolvere il problema... perché per lui non è un problema, ma un obiettivo indiscutibile. In un caso particolare, con un cinismo e una perfidia notevoli, mi chiese in quale seminario io preferissi essere trasferito. Era d'estate, e formulò la domanda con serietà, come se fosse disposto a prendere sul serio una mia eventuale proposta. Fui ingenuo e gli risposi "per esempio, quello di...". Mi rispose con un ghigno beffardo e aggiunse, con sufficienza, "va bene, va bene", e mi congedò. Andai via senza dire altro, rendendomi conto che un minuto dopo tutti i pretazzi della diocesi avrebbero saputo che il sottoscritto, sentendosi Superiore agli Altri, aspirava nientemeno che il trasferimento in pompa magna al seminario tal dei tali. Ed era il vescovo, sua eccellenza il fottutissimo vescovo che avrebbe dovuto essermi padre nella fede e nel sacerdozio, che come minimo avrebbe dovuto interrogarsi sui motivi per cui un suo seminarista riteneva il seminario X meno peggiore del seminario Y.
Un problema dei vescovi è che sono incapaci di dare fiducia a chi la merita (per questo sono perennemente circondati da mezzi uomini come loro). Le ricchionate da seminario sono la diretta conseguenza della loro diabolica politica di "selezione" di operai per la vigna del Signore. Temendo che i sacerdoti fossero incapaci di schivare le tentazioni contro la castità, hanno voluto un clero asessuato, anzi, effeminato. Temendoli ladri e spreconi e incapaci di gestire e comandare, hanno costituito una burocrazia da film grottesco: consigli diocesani, consigli parrocchiali, consigli pastorali, consigli affari economici... la quintessenza del groupthink. Temendoli disubbidienti e perdigiorno, hanno voluto ordinare solo i più mediocri e insignificanti clown. E quando hanno notato che la qualità del clero continuava a calare drammaticamente hanno allungato i tempi di verifica e di formazione e importato improbabili "vocazioni" dall'estero (fu così che comparve in Italia la figura del prete extracomunitario ciccione panciuto e un pochino troppo attaccato al soldino).
Fiumi d'inchiostro sono stati versati per parlare dell'omosessualità latente del clero, non meno pericolosa di quella praticata. Un omosessuale "non praticante", al pari di quello "praticante", considererà ogni vocazione dal punto di vista delle proprie attrazioni, gelosie, affinità. In qualità di omosessuale si sente coinvolto non come "padre" ma come "amante", come "rivale", come "preda", come "terzo incomodo", come "disponibile a farsi conquistare", come "insaziabilmente desideroso di attenzioni"... Finisce così per giudicare le vocazioni dal punto di vista delle proprie squilibrate passioni, irrisolvibili tensioni, confuse affettività. In altre parole, finisce per promuovere checche come lui (e finisce anche a indulgere al sadismo). È il motivo per cui prima del Concilio nei seminari erano proibite anche le "amicizie particolari", perché sospettabili di essere indizio di quello stesso tipo di coinvolgimento disordinato. In un ambiente di uomini senza tendenze omosessuali conta il risultato, non le affinità, contano le cose serie (che in seminario sono solo la fede, la chiarezza della propria chiamata, la dirittura morale), non le gelosie. Si instaura un rapporto "cameratesco" (che per definizione è possibile solo a uomini virili) dove si parla chiaro, dove ci si rispetta anche se ci si detesta, dove il superiore non avverte il bisogno di affermare sé stesso infierendo sull'inferiore. Chi sa queste cose non si stupisce nel notare che oggi i seminaristi frou frou abbiano perennemente il semaforo verde e quelli almeno un pochino virili subiscano invece la tortura della goccia cinese.
I vescovi sanno queste cose ma nel migliore dei casi fingono di non notarle. Vorrete mica radere al suolo tutti i seminari italiani? Uno dei migliori vescovi italiani - o almeno così lo presentano sui blog più seri - non aveva alcuno scrupolo a mandare le vocazioni in un seminario che andrebbe purificato col lanciafiamme (cioè un qualunque seminario italiano in cui si celebri la Messa in italiano): come se avesse detto arrangiatevi, ci vediamo fra cinque anni o sei anni se sarete riusciti a cavarvela. E se provi a chiedergli udienza per fargli sapere come stanno le cose, glissa su tutto, magari persino fingendo di incoraggiarti. Dopodiché, incartamenti alla mano, prenderà la decisione che quello squallore di "seminario" ha pianificato. (Del resto, come dargli torto? il suo vicario che mette becco dappertutto è della stessa pasta di quei mezzi uomini che dirigono il seminario... e se non lo assecondi, ti pianta un casino in diocesi... ma sì, mandiamo definitivamente a cagare quel poveraccio che la vocazione ce l'aveva, e ordiniamo al suo posto quello soprannominato "lo scimmione del Borneo", tanto fra due o tre anni mi promuovono finalmente a quell'altra diocesi e chi s'è visto, s'è visto).
È da troppo tempo che la situazione è irreparabile. La Chiesa conciliare si è suicidata imponendo una nuova liturgia, effeminata e spettacolarizzata, proprio nel momento in cui occorreva solo condannare coloro che avevano ridotto quella tradizionale ad un formulario da recitare in fretta e furia. Come prevedibile, la neo-liturgia ha immediatamente ereditato tutti i vizi (e nessuna virtù) della liturgia tradizionale.
Il suicidio è stato ovviamente completato imponendo un sacerdozio mediocre, ignorante ed effeminato (il solo che poteva trovarsi perfettamente a suo agio con la nuova liturgia) proprio mentre c'era bisogno di promuovere quello virile e ortodosso. Come prevedibile, il neo-clero ha immediatamente ereditato tutti i vizi (documentati o fantasticati) e nessuna virtù del clero tradizionale. Così abbiamo oggi un clero formatissimo sulle astruserie filosofiche e teologiche (e sui telegiornali della sera prima) ma non sulle necessità essenziali delle anime affidategli. Abbiamo un clero "vicino alla gente" come compagnone di una spaghettata, non come guida sicura. Abbiamo un clero che sproloquia lungamente di robe come l'Alleanza di Abramo a gente che non sa neppure come si fa il segno della croce.
E quei pochi vescovi seri che abbiamo, pur coscienti di tutto questo, non fanno nulla, non vogliono far nulla, temono più di finire in prima pagina che di fronte al giudizio di Dio. Il caso Viganò è solo una recente dimostrazione.
- il far carriera (poiché ù cummannari è megghiu ri futtiri e l'erba del vicino è sempre più verde e soprattutto è convenientissimo mollare al successore l'eredità di tutte le porcherie fatte nel frattempo)
- il mostrare ad una platea immaginaria di aver saputo coprire le parrocchie (poiché occorre mettere a tacere la propria coscienza mentre i preti scarseggiano e quelli affidabili e ubbidienti scarseggiano molto di più)
- e soprattutto la dissoluzione della Chiesa mediante eutanasia vocazionale (avendo come ideale del presbitero un generico pagliaccio rilocabile a piacere e incapace di gesti e parole che non siano profondamente ossequiosi del politicamente corretto: è l'intoccabile sottinteso di ogni Veglia Vocazionale Diocesana e di ogni Pastorale Vocazionale, nonostante ogni espressione in contrario).
In breve, se i seminari sono così malridotti, è perché i vescovi vogliono esattamente ciò.
Ho scoperto a mie spese che il vescovo, ufficialmente contrario a certi andazzi, in realtà ne era tacitamente complice. Non ne voleva sentirli nemmeno nominare: condivideva col suo clero la pilatesca attitudine a credersi giustificato per aver fatto ciò che indicavano le relazioni, gli incartamenti e le normative. Ed una colonna di pilatesche lavate di mani che parte dal parroco, passa per l'animatore di seminario, l'equipe formativa, il rettore, il consiglio diocesano, il vescovo, blocca puntualmente il cammino verso il sacerdozio a qualunque soggetto incompatibile con lo schema precostituito. Eutanasia vocazionale: ordinare al sacerdozio solo dei decerebrati senza spina dorsale (altrimenti potrebbero introdurre cambiamenti intelligenti e controcorrente) che siano anche campioni di mediocrità (altrimenti i mediocri attualmente in carica si sentirebbero minacciati e insultati) e soprattutto compatibili con lo sfascio esistente (non sia mai che un novello presbitero non sia del tutto disposto a conservare le mode della comunione sulla mano, gli orrori affissi nell'aula liturgica, il vestirsi come un vecchio babbeo anziché come come un vero sacerdote)...
Ma ti lamenti sempre?
Serve lamentarsene? Sì. Se un bambino piange è perché non ha miglior modo di manifestare un disagio - e la madre, se vera madre, capisce e agisce. Così pure se vai dal meccanico a lamentare che il motore non regge il minimo, anche se non nota il difetto capisce da dove ha origine. Al contrario, se vai dal vescovo a far notare che qualcosa non va in seminario, il vescovo ti ammannisce la solita predica sul sopportare, pazientare, pregare, aver fede, ubbidire, come se tu non sapessi già tutte queste cose. Non cerca di capire le ragioni, nemmeno quando finge di ascoltarti - e tanto meno si adopererà per risolvere il problema... perché per lui non è un problema, ma un obiettivo indiscutibile. In un caso particolare, con un cinismo e una perfidia notevoli, mi chiese in quale seminario io preferissi essere trasferito. Era d'estate, e formulò la domanda con serietà, come se fosse disposto a prendere sul serio una mia eventuale proposta. Fui ingenuo e gli risposi "per esempio, quello di...". Mi rispose con un ghigno beffardo e aggiunse, con sufficienza, "va bene, va bene", e mi congedò. Andai via senza dire altro, rendendomi conto che un minuto dopo tutti i pretazzi della diocesi avrebbero saputo che il sottoscritto, sentendosi Superiore agli Altri, aspirava nientemeno che il trasferimento in pompa magna al seminario tal dei tali. Ed era il vescovo, sua eccellenza il fottutissimo vescovo che avrebbe dovuto essermi padre nella fede e nel sacerdozio, che come minimo avrebbe dovuto interrogarsi sui motivi per cui un suo seminarista riteneva il seminario X meno peggiore del seminario Y.
Un problema dei vescovi è che sono incapaci di dare fiducia a chi la merita (per questo sono perennemente circondati da mezzi uomini come loro). Le ricchionate da seminario sono la diretta conseguenza della loro diabolica politica di "selezione" di operai per la vigna del Signore. Temendo che i sacerdoti fossero incapaci di schivare le tentazioni contro la castità, hanno voluto un clero asessuato, anzi, effeminato. Temendoli ladri e spreconi e incapaci di gestire e comandare, hanno costituito una burocrazia da film grottesco: consigli diocesani, consigli parrocchiali, consigli pastorali, consigli affari economici... la quintessenza del groupthink. Temendoli disubbidienti e perdigiorno, hanno voluto ordinare solo i più mediocri e insignificanti clown. E quando hanno notato che la qualità del clero continuava a calare drammaticamente hanno allungato i tempi di verifica e di formazione e importato improbabili "vocazioni" dall'estero (fu così che comparve in Italia la figura del prete extracomunitario ciccione panciuto e un pochino troppo attaccato al soldino).
Fiumi d'inchiostro sono stati versati per parlare dell'omosessualità latente del clero, non meno pericolosa di quella praticata. Un omosessuale "non praticante", al pari di quello "praticante", considererà ogni vocazione dal punto di vista delle proprie attrazioni, gelosie, affinità. In qualità di omosessuale si sente coinvolto non come "padre" ma come "amante", come "rivale", come "preda", come "terzo incomodo", come "disponibile a farsi conquistare", come "insaziabilmente desideroso di attenzioni"... Finisce così per giudicare le vocazioni dal punto di vista delle proprie squilibrate passioni, irrisolvibili tensioni, confuse affettività. In altre parole, finisce per promuovere checche come lui (e finisce anche a indulgere al sadismo). È il motivo per cui prima del Concilio nei seminari erano proibite anche le "amicizie particolari", perché sospettabili di essere indizio di quello stesso tipo di coinvolgimento disordinato. In un ambiente di uomini senza tendenze omosessuali conta il risultato, non le affinità, contano le cose serie (che in seminario sono solo la fede, la chiarezza della propria chiamata, la dirittura morale), non le gelosie. Si instaura un rapporto "cameratesco" (che per definizione è possibile solo a uomini virili) dove si parla chiaro, dove ci si rispetta anche se ci si detesta, dove il superiore non avverte il bisogno di affermare sé stesso infierendo sull'inferiore. Chi sa queste cose non si stupisce nel notare che oggi i seminaristi frou frou abbiano perennemente il semaforo verde e quelli almeno un pochino virili subiscano invece la tortura della goccia cinese.
I vescovi sanno queste cose ma nel migliore dei casi fingono di non notarle. Vorrete mica radere al suolo tutti i seminari italiani? Uno dei migliori vescovi italiani - o almeno così lo presentano sui blog più seri - non aveva alcuno scrupolo a mandare le vocazioni in un seminario che andrebbe purificato col lanciafiamme (cioè un qualunque seminario italiano in cui si celebri la Messa in italiano): come se avesse detto arrangiatevi, ci vediamo fra cinque anni o sei anni se sarete riusciti a cavarvela. E se provi a chiedergli udienza per fargli sapere come stanno le cose, glissa su tutto, magari persino fingendo di incoraggiarti. Dopodiché, incartamenti alla mano, prenderà la decisione che quello squallore di "seminario" ha pianificato. (Del resto, come dargli torto? il suo vicario che mette becco dappertutto è della stessa pasta di quei mezzi uomini che dirigono il seminario... e se non lo assecondi, ti pianta un casino in diocesi... ma sì, mandiamo definitivamente a cagare quel poveraccio che la vocazione ce l'aveva, e ordiniamo al suo posto quello soprannominato "lo scimmione del Borneo", tanto fra due o tre anni mi promuovono finalmente a quell'altra diocesi e chi s'è visto, s'è visto).
È da troppo tempo che la situazione è irreparabile. La Chiesa conciliare si è suicidata imponendo una nuova liturgia, effeminata e spettacolarizzata, proprio nel momento in cui occorreva solo condannare coloro che avevano ridotto quella tradizionale ad un formulario da recitare in fretta e furia. Come prevedibile, la neo-liturgia ha immediatamente ereditato tutti i vizi (e nessuna virtù) della liturgia tradizionale.
Il suicidio è stato ovviamente completato imponendo un sacerdozio mediocre, ignorante ed effeminato (il solo che poteva trovarsi perfettamente a suo agio con la nuova liturgia) proprio mentre c'era bisogno di promuovere quello virile e ortodosso. Come prevedibile, il neo-clero ha immediatamente ereditato tutti i vizi (documentati o fantasticati) e nessuna virtù del clero tradizionale. Così abbiamo oggi un clero formatissimo sulle astruserie filosofiche e teologiche (e sui telegiornali della sera prima) ma non sulle necessità essenziali delle anime affidategli. Abbiamo un clero "vicino alla gente" come compagnone di una spaghettata, non come guida sicura. Abbiamo un clero che sproloquia lungamente di robe come l'Alleanza di Abramo a gente che non sa neppure come si fa il segno della croce.
E quei pochi vescovi seri che abbiamo, pur coscienti di tutto questo, non fanno nulla, non vogliono far nulla, temono più di finire in prima pagina che di fronte al giudizio di Dio. Il caso Viganò è solo una recente dimostrazione.
venerdì 31 agosto 2018
Non proprio un '''trattamento Pio IX'''...
La Gran Loggia dei Liberi e Accettati Massoni delle Filippine dà il benvenuto a Papa Francesco I, il Papa della Misericordia e della Compassione.
venerdì 10 agosto 2018
Educati ad autoassolversi, si stuferanno di confessare
In teoria: il seminarista deve avere un direttore spirituale e un confessore, entrambi accessibili ogni giorno (dopotutto quando vai in giro in auto non è che lasci la ruota di scorta in garage), e devono essere uomini di fiducia del seminarista.
In pratica: nei seminari e nelle comunità religiose si è già fortunati se lo stock di direttori spirituali e confessori corrisponde ad un singolo soggetto che è già tanto se si fa vivo uno o due pomeriggi a settimana. Vorreste mica che i vescovi investano nella formazione dei seminaristi anche da questo punto di vista?
Il primo risultato immediato è che il tipico seminarista riduce la confessione a qualcosa del tipo: "una delle attività del mercoledì pomeriggio"; quindi riduce a qualcosa del tipo: "il mercoledì pomeriggio se c'è tempo"; e rapidamente a qualcosa del tipo: "il mercoledì pomeriggio se proprio ti va". I miei compagni di seminario, salvo rare eccezioni, il tempo per confessarsi lo trovavano solo nelle grandi occasioni - cioè quando dovevano far sapere ai superiori di aver compiuto anche l'attività facoltativa. Non solo mi meravigliavo di quanto poco spesso si confessassero i miei commilitoni di seminario, ma avevo una fitta lancinante nel vedere che quelle perfide vipere che fino ad un minuto prima avevano vomitato ogni sorta di cattiveria e di blasfemia si accostavano poi alla Comunione con facce simulate angeliche - ivi incluso quel soggetto che non dimenticherò mai, che aveva proferito battutacce pedofile (nel mondo ho sentito battutacce gay, barzellette blasfeme, schifezze di ogni genere, ma battutacce pedofile le ho sentite solo in seminario).
Un'altra conseguenza è che un direttore spirituale imposto dall'alto fa diventare la direzione spirituale una generica chiacchierata. Salvo il caso particolarmente improbabile in cui tale direttore è un sant'uomo di grande carisma (cioè quanto basta per esiliarlo in una sperduta parrocchietta di montagna), ci vuole tempo per riuscire a fidarsi di uno sconosciuto al punto da affidargli i punti più delicati della propria anima (non è mica come lo scaricare il marciume in confessionale), ci vuole molto più tempo se il seminarista è adulto solo anagraficamente.
Inoltre i così detti "formatori" nutrono sempre un profondo odio per coloro che farebbero "auto-formazione", cioè per coloro che conservano punti di riferimento spirituali esterni a quelli del seminario (come se non fossero autorizzati ad esistere punti qualitativamente superiori a quelli del seminario). Il seminario, per quanto caotico può sembrare, è un luogo di riprogrammazione mentale, per impostare una mentalità riguardo alla diocesi (o ordine religioso) e alle cose della fede. O ti fai riprogrammare come un clown da parrocchia (ordinabile al sacerdozio) oppure "non sei idoneo" (sì, l'idoneità al sacerdozio viene intesa come l'essere funzionali ad un incarico in parrocchia, non come il prodotto di fede, chiarezza della vocazione e vita morale). Perciò, se il tuo direttore spirituale di fiducia non è quello del seminario, se le tue letture spirituali non sono quelle pianificate dal seminario, se il tuo ideale di sacerdozio non è quello "clown", troveranno il modo - magari dopo molti anni - di darti un "periodo di riflessione", cioè di espellerti lavandosene le mani.
Questo è dimostrabile anche dal fatto che le vocazioni più gradite sono quelle "giovani": sei considerato sospetto se hai più di 25 anni, molto sospetto se hai più di 30, assolutamente sospetto se hai più di 35... Quando parlano di "vocazioni adulte", infatti, stanno insinuando che quei soggetti non sono riprogrammabili. Un ventenne puoi ancora efficacemente convertirlo a clown (è sufficiente fargli credere che "le cose vanno così e sono sempre andate così" e che l'adeguarti all'andazzo sarebbe ubbidienza alla Chiesa); un trentacinquenne - che magari ha visto cos'è il mondo del lavoro, sa cosa significa avere una donna che lo ama, sa a cosa rinuncia e ha già valutato i rischi del suo ingresso in seminario - non è uno che cambierà le sue convinzioni tanto facilmente. (Magari non ti rifiutano a causa dell'età, ma ti trattano come un ragazzino per "metterti alla prova", cioè per trasformarti in un ragazzino: del resto siamo in un'epoca in cui i venticinque-trentenni sono ancora "mammoni"...).
Nei primi giorni del seminario, durante una ricreazione dopo pranzo, ci furono informalmente e rapidamente elencati alcuni preti disponibili per la direzione spirituale e la confessione. Un banale elenco di nomi e - per i primi due - di caratteristiche insignificanti: Tizio, è quello che sta sempre al secondo piano; Caio, ha un incarico nella parrocchia vicina; Sempronio, bah, uno che non parla mai... Queste ultime parole erano evidentemente un invito a considerare solo i primi due. Chiesi sottovoce ad uno dei commilitoni di ripetermi il nome di "quello che non parla mai" e corsi da lui a prenotarmi. Più in là scoprii che molti anni prima era stato scelto esattamente per lo stesso motivo da uno dei pochi preti di cui avevo grande fiducia.
Naturalmente si trattava di un appuntamento settimanale: il seminario più di tanto non concedeva, dovevi "essere in crisi" (sottinteso: uno che vuole abbandonare il seminario ma non gli è stato ancora concesso) per vederlo più di una volta a settimana. Potevo teoricamente andare da lui in qualsiasi momento per le confessioni... bastava aver la fortuna di trovarlo. Così, nei mesi successivi, fui costretto a identificare un altro paio di sacerdoti affidabili che per un motivo o l'altro erano rintracciabili e disponibili a confessare senza far storie. Se già ti tocca aspettare mezz'ora davanti alla porta perché è "in riunione", e dopo ti dice "torna fra un'ora", e torni cinquantotto minuti dopo ed è appena entrato in un'altra "riunione", e dopo un'altra ora di attesa ti dice "torna domani", hai bruciato un pomeriggio e tutte le riserve di pazienza. E alla fine della fiera, anche con un parco confessori di tre unità, lo stesso era diventato difficile beccarne almeno uno libero quando avevo necessità.
Risultato? In diverse occasioni non mi sono accostato alla Comunione. Nessuno mi ha mai detto nulla in merito, ma dai sottintesi e dalle mezze allusioni capitate "per caso" nelle conversazioni delle settimane successive a tali eventi capivo di essere stato schedato come il Tremendo Peccatore Scrupoloso che in futuro nella Pastorale avrebbe potuto nientemeno che Evitare di Dire Messa a causa degli Scrupoli di Chissà Quali Peccati. Intanto i seminaristi miei commilitoni erano talmente "santi" da non aver mai mancato una singola Comunione... la tirchieria del vescovo (e degli Appositi Uffici di Pastorale Vocazionale da lui nominati) riguardo a confessori e direttori aveva automaticamente conseguito seminaristi capaci di auto-assolversi in qualsiasi circostanza.
L'esempio più clamoroso era un pretino (il cui solo nome mi tende i muscoli della gamba come a dare un calcione solenne in qualche deretano) che aveva comodamente equivocato un concetto teologico della "opzione fondamentale". Avendo lui effettuato tale "opzione" di non peccare, non si confessava mai. Neanche trent'anni aveva, quel pretino, e già era a tutti gli effetti un pastore protestante.
Naturalmente un seminarista che si autoassolve o che rinvia la confessione dei peccati a quando avrà tempo, una volta divenuto prete non avrà mica tempo da perdere in confessionale, e apporrà quel diabolico cartello del tipo: "Confessioni: il mercoledì mattina dalle 10:30 alle 11:30". Dopotutto chi è che in quell'ora non può stare in parrocchia per motivi di studio o lavoro? E alle povere anime che di domenica vengono prima della Messa a chiedere di confessarsi, risponde severamente: "Qui di domenica non ci si confessa", oppure - se è più generoso - dire: "Venite dopo la Messa, che ora non c'è tempo". Cioè fate prima la Comunione in stato di peccato mortale, dopodiché al termine della Messa aspettate che termini tutta la bagarre dei saluti e degli auguri e delle telefonate e quant'altro, e mentre il sagrestano chiude porte e finestre sperate ancora che il prete si ricordi di essere stato lui stesso a dirvi di tornare dopo la Messa e non vi dica "ora è tardi", "ora ho da fare", "ne riparliamo più tardi". È già tanto se vi accoglie nel suo "studio" facendovi accomodare di fronte alla sua scrivania, come un impiegato pubblico. (Sto ancora parlando di cose che ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie)
Un seminarista dovrebbe avere la possibilità di confessarsi ogni giorno e prima della Messa, più la possibilità - ogni giorno - di avere almeno cinque minuti col direttore spirituale. Come per la ruota di scorta dell'auto, è probabile che tali possibilità gli serviranno "ogni giorno" solo in certi periodi difficili di desolazione spirituale e in certi periodi di crescita spirituale. Ma sono necessarie. Il seminarista che non ha a disposizione ogni giorno tali beni finirà inevitabilmente a "far da sé" e a ritenere la confessione e la direzione emerite seccature. E questo spiega come mai oggi nelle parrocchie è diventato così arduo trovare un confessore fuori dagli orari esposti dall'apposito cartello.
In pratica: nei seminari e nelle comunità religiose si è già fortunati se lo stock di direttori spirituali e confessori corrisponde ad un singolo soggetto che è già tanto se si fa vivo uno o due pomeriggi a settimana. Vorreste mica che i vescovi investano nella formazione dei seminaristi anche da questo punto di vista?
Il primo risultato immediato è che il tipico seminarista riduce la confessione a qualcosa del tipo: "una delle attività del mercoledì pomeriggio"; quindi riduce a qualcosa del tipo: "il mercoledì pomeriggio se c'è tempo"; e rapidamente a qualcosa del tipo: "il mercoledì pomeriggio se proprio ti va". I miei compagni di seminario, salvo rare eccezioni, il tempo per confessarsi lo trovavano solo nelle grandi occasioni - cioè quando dovevano far sapere ai superiori di aver compiuto anche l'attività facoltativa. Non solo mi meravigliavo di quanto poco spesso si confessassero i miei commilitoni di seminario, ma avevo una fitta lancinante nel vedere che quelle perfide vipere che fino ad un minuto prima avevano vomitato ogni sorta di cattiveria e di blasfemia si accostavano poi alla Comunione con facce simulate angeliche - ivi incluso quel soggetto che non dimenticherò mai, che aveva proferito battutacce pedofile (nel mondo ho sentito battutacce gay, barzellette blasfeme, schifezze di ogni genere, ma battutacce pedofile le ho sentite solo in seminario).
Un'altra conseguenza è che un direttore spirituale imposto dall'alto fa diventare la direzione spirituale una generica chiacchierata. Salvo il caso particolarmente improbabile in cui tale direttore è un sant'uomo di grande carisma (cioè quanto basta per esiliarlo in una sperduta parrocchietta di montagna), ci vuole tempo per riuscire a fidarsi di uno sconosciuto al punto da affidargli i punti più delicati della propria anima (non è mica come lo scaricare il marciume in confessionale), ci vuole molto più tempo se il seminarista è adulto solo anagraficamente.
Inoltre i così detti "formatori" nutrono sempre un profondo odio per coloro che farebbero "auto-formazione", cioè per coloro che conservano punti di riferimento spirituali esterni a quelli del seminario (come se non fossero autorizzati ad esistere punti qualitativamente superiori a quelli del seminario). Il seminario, per quanto caotico può sembrare, è un luogo di riprogrammazione mentale, per impostare una mentalità riguardo alla diocesi (o ordine religioso) e alle cose della fede. O ti fai riprogrammare come un clown da parrocchia (ordinabile al sacerdozio) oppure "non sei idoneo" (sì, l'idoneità al sacerdozio viene intesa come l'essere funzionali ad un incarico in parrocchia, non come il prodotto di fede, chiarezza della vocazione e vita morale). Perciò, se il tuo direttore spirituale di fiducia non è quello del seminario, se le tue letture spirituali non sono quelle pianificate dal seminario, se il tuo ideale di sacerdozio non è quello "clown", troveranno il modo - magari dopo molti anni - di darti un "periodo di riflessione", cioè di espellerti lavandosene le mani.
Questo è dimostrabile anche dal fatto che le vocazioni più gradite sono quelle "giovani": sei considerato sospetto se hai più di 25 anni, molto sospetto se hai più di 30, assolutamente sospetto se hai più di 35... Quando parlano di "vocazioni adulte", infatti, stanno insinuando che quei soggetti non sono riprogrammabili. Un ventenne puoi ancora efficacemente convertirlo a clown (è sufficiente fargli credere che "le cose vanno così e sono sempre andate così" e che l'adeguarti all'andazzo sarebbe ubbidienza alla Chiesa); un trentacinquenne - che magari ha visto cos'è il mondo del lavoro, sa cosa significa avere una donna che lo ama, sa a cosa rinuncia e ha già valutato i rischi del suo ingresso in seminario - non è uno che cambierà le sue convinzioni tanto facilmente. (Magari non ti rifiutano a causa dell'età, ma ti trattano come un ragazzino per "metterti alla prova", cioè per trasformarti in un ragazzino: del resto siamo in un'epoca in cui i venticinque-trentenni sono ancora "mammoni"...).
Nei primi giorni del seminario, durante una ricreazione dopo pranzo, ci furono informalmente e rapidamente elencati alcuni preti disponibili per la direzione spirituale e la confessione. Un banale elenco di nomi e - per i primi due - di caratteristiche insignificanti: Tizio, è quello che sta sempre al secondo piano; Caio, ha un incarico nella parrocchia vicina; Sempronio, bah, uno che non parla mai... Queste ultime parole erano evidentemente un invito a considerare solo i primi due. Chiesi sottovoce ad uno dei commilitoni di ripetermi il nome di "quello che non parla mai" e corsi da lui a prenotarmi. Più in là scoprii che molti anni prima era stato scelto esattamente per lo stesso motivo da uno dei pochi preti di cui avevo grande fiducia.
Naturalmente si trattava di un appuntamento settimanale: il seminario più di tanto non concedeva, dovevi "essere in crisi" (sottinteso: uno che vuole abbandonare il seminario ma non gli è stato ancora concesso) per vederlo più di una volta a settimana. Potevo teoricamente andare da lui in qualsiasi momento per le confessioni... bastava aver la fortuna di trovarlo. Così, nei mesi successivi, fui costretto a identificare un altro paio di sacerdoti affidabili che per un motivo o l'altro erano rintracciabili e disponibili a confessare senza far storie. Se già ti tocca aspettare mezz'ora davanti alla porta perché è "in riunione", e dopo ti dice "torna fra un'ora", e torni cinquantotto minuti dopo ed è appena entrato in un'altra "riunione", e dopo un'altra ora di attesa ti dice "torna domani", hai bruciato un pomeriggio e tutte le riserve di pazienza. E alla fine della fiera, anche con un parco confessori di tre unità, lo stesso era diventato difficile beccarne almeno uno libero quando avevo necessità.
Risultato? In diverse occasioni non mi sono accostato alla Comunione. Nessuno mi ha mai detto nulla in merito, ma dai sottintesi e dalle mezze allusioni capitate "per caso" nelle conversazioni delle settimane successive a tali eventi capivo di essere stato schedato come il Tremendo Peccatore Scrupoloso che in futuro nella Pastorale avrebbe potuto nientemeno che Evitare di Dire Messa a causa degli Scrupoli di Chissà Quali Peccati. Intanto i seminaristi miei commilitoni erano talmente "santi" da non aver mai mancato una singola Comunione... la tirchieria del vescovo (e degli Appositi Uffici di Pastorale Vocazionale da lui nominati) riguardo a confessori e direttori aveva automaticamente conseguito seminaristi capaci di auto-assolversi in qualsiasi circostanza.
L'esempio più clamoroso era un pretino (il cui solo nome mi tende i muscoli della gamba come a dare un calcione solenne in qualche deretano) che aveva comodamente equivocato un concetto teologico della "opzione fondamentale". Avendo lui effettuato tale "opzione" di non peccare, non si confessava mai. Neanche trent'anni aveva, quel pretino, e già era a tutti gli effetti un pastore protestante.
Naturalmente un seminarista che si autoassolve o che rinvia la confessione dei peccati a quando avrà tempo, una volta divenuto prete non avrà mica tempo da perdere in confessionale, e apporrà quel diabolico cartello del tipo: "Confessioni: il mercoledì mattina dalle 10:30 alle 11:30". Dopotutto chi è che in quell'ora non può stare in parrocchia per motivi di studio o lavoro? E alle povere anime che di domenica vengono prima della Messa a chiedere di confessarsi, risponde severamente: "Qui di domenica non ci si confessa", oppure - se è più generoso - dire: "Venite dopo la Messa, che ora non c'è tempo". Cioè fate prima la Comunione in stato di peccato mortale, dopodiché al termine della Messa aspettate che termini tutta la bagarre dei saluti e degli auguri e delle telefonate e quant'altro, e mentre il sagrestano chiude porte e finestre sperate ancora che il prete si ricordi di essere stato lui stesso a dirvi di tornare dopo la Messa e non vi dica "ora è tardi", "ora ho da fare", "ne riparliamo più tardi". È già tanto se vi accoglie nel suo "studio" facendovi accomodare di fronte alla sua scrivania, come un impiegato pubblico. (Sto ancora parlando di cose che ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie)
Un seminarista dovrebbe avere la possibilità di confessarsi ogni giorno e prima della Messa, più la possibilità - ogni giorno - di avere almeno cinque minuti col direttore spirituale. Come per la ruota di scorta dell'auto, è probabile che tali possibilità gli serviranno "ogni giorno" solo in certi periodi difficili di desolazione spirituale e in certi periodi di crescita spirituale. Ma sono necessarie. Il seminarista che non ha a disposizione ogni giorno tali beni finirà inevitabilmente a "far da sé" e a ritenere la confessione e la direzione emerite seccature. E questo spiega come mai oggi nelle parrocchie è diventato così arduo trovare un confessore fuori dagli orari esposti dall'apposito cartello.
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